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23 - Dic - 2019

Santo Natale (notte)

Presepio Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Santo Natale (notte)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Celebriamo la nascita di Gesù di notte, perché abbiamo bisogno di stare al buio. Non perché Gesù è nato di notte, quasi in una ricostruzione romantica degli avvenimenti di allora, ma perché Dio viene ad illuminare le tenebre in cui noi e il mondo si trovano. Per celebrare il Natale dunque bisogna prima di tutto aprire gli occhi ed accorgersi di essere immersi nelle tenebre.

Il profeta Isaia ci presenta il popolo che deve camminare nelle tenebre. Immaginiamo le persone inciampare, stringersi le une alle altre, sbattere contro gli ostacoli, perdersi, tendere le orecchie impaurite dai rumori senza distinguere che ombre. Un viaggio sofferto, lento, terrificante. E poi, improvvisa, la luce, a rallegrare. Sarà un bambino, dice il profeta, a portare questa luce che costruirà una pace senza fine.
Questo racconto antico si rinnova nella pagina di Vangelo raccontata da Luca: nella notte, vegliando il proprio gregge, i pastori ricevono l’annuncio di una grande gioia, mentre vengono avvolti dalla luce, e devono mettersi in cammino al buio se vogliono vedere il segno che è stato loro promesso. Anche Gesù, appena nato, ha compiuto un viaggio nel buio, durante il travaglio del parto che l’ha portato alla luce.
Si deve stare al buio se si vuole gustare la luce. E così, come quando ci si allontana dalla città per godersi la stregante bellezza del cielo stellato che mostra ciò che sempre c’è e mai riusciamo a vedere per la troppa luce, se vogliamo vedere la luce che questo bambino porta, dobbiamo uscire al buio: accogliere il buio del nostro cuore, delle nostre fatiche, delle nostre povertà, delle nostre paure, e accogliere il buio degli altri e della storia. Fermi così vedremo la luce che questo bambino è, una luce capace di rischiarare ogni tenebra.
In questo bambino infatti si fa visibile e palpabile quanto Dio ami il mondo, poiché ci dona il suo Figlio in modo che – come leggiamo nella lettera a Tito – impariamo a rinnegare l’empietà e a vivere con giustizia e pietà. Seguendo lui, scopriremo che ha dato tutto se stesso per liberarci da ogni male e renderci pieni di opere di bene. Questo Dio ha fatto per noi, perché non continuassimo ad inciampare nelle tenebre, perché non restassimo schiavi del male e condannati a ripeterlo, perché non fossimo privati della speranza. In questo bambino abbiamo una possibilità nuova, la storia intera può ricominciare, ciascuno di noi può scegliere di nuovo di vivere. E, ora, di fronte a questa luce, come di fronte all’esercito schierato delle stelle che fa del buio l’occasione per risplendere, può prenderci una profonda commozione e così dal cuore pieno di gioia sgorga la lode riconoscente: gloria a te Signore che hai fatto questo per noi e, su voi fratelli e sorelle, su ciascuno di noi, su ogni creatura e sul mondo intero, finalmente la pace.
20 - Dic - 2019

IV Domenica d’Avvento

Maria Donna dell'attesa

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

IV Domenica d’Avvento

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Senza una parola che illumini, i fatti della vita, compresi quelli in cui Dio si fa presente, non vengono compresi. Per questo Dio prepara la venuta del suo Figlio con tante parole che i profeti ripetono in diversi contesti e a diverse persone, come accade con Acaz che, come ci racconta il profeta Isaia, non vuole nemmeno che Dio gli si faccia presente con un segno (e trova una motivazione buona, persino spirituale, per tenerlo lontano: “non voglio tentare il Signore”). Ci ricorda la lettera ai Romani che Dio molte volte aveva promesso il Vangelo e questo perché, quando si sarebbe verificata, Israele fosse in grado di riconoscere la visita del suo Dio.

Così è anche per ciascuno di noi. Abbiamo ascoltato molte parole che ci possono istruire a riconoscere la presenza di Dio nella storia e nel nostro cuore, così che quando arrivi il momento noi sappiamo leggere ciò che ci accade alla luce delle sue promesse e scoprire così la salvezza per noi e per tutti (proprio come Paolo la scopre per sé e per le genti chiamate alla fede).
Anche Giuseppe di Nazareth aveva ascoltato molte parole e era andato così a fondo nell’ascolto della legge che per rispettarne il cuore non poteva osservarne la lettera: infatti quando viene a sapere che Maria è incinta, dovrebbe ripudiarla se osservasse la lettera della legge, ma Giuseppe, uomo giusto, uomo cioè secondo il cuore di Dio, sa che il significato profondo della legge è far vivere e così il ripudio (come spiegherà Gesù al capitolo 19 di Matteo) – a maggior ragione nel caso di Maria – non può essere posto in atto. Si inventa un congedo in segreto, per onorare il comandamento secondo giustizia, ma il sogno – in cui Dio, secondo la tradizione ebraica, parla con un settantesimo della voce – scuote la sua decisione: può prendere con sé il bambino e la madre, perché sta accadendo quello che i profeti avevano promesso. La parola di Dio permette a Giuseppe di comprendere ciò che accade non come un’offesa e una sventura (perché gli viene chiesto di non essere più padrone di moglie e figli, come era tipico del tempo, ma solo servo di entrambi, divenendo icona di ogni paternità cristiana), quanto piuttosto come il compiersi di tutte le promesse, come la più grande delle gioie, anche se questo avrebbe reso la sua vita ciò che lui non pensava e che non avrebbe scelto.
La venuta di Dio accade così, per ciascuno, in fatti oscuri, ordinari o persino in situazioni assurde che mai avremmo voluto. Per accorgersi di questa presenza che salva e dà senso al nostro vivere, ci serve una parola che spieghi e illumini, come è stato per Giuseppe e per Maria. Solo questa parola è capace di mostrarci in questo bambino, nato come tutti, il Salvatore, quello che può darci la chiave per vivere ogni situazione e per farci sperare, perché già pregustata, la pienezza della vita. Si tratta solo di un germoglio, di una promessa di vita, come è per ogni bambino, ma la Parola ci guida a coglierne la portata e a fondare la vita su di essa, perché “del Signore è la terra e quanto contiene, il mondo con i suoi abitanti; è lui che l’ha fondato sui mari e sui fiumi l’ha stabilito”. Si tratta solo di un inizio, ma così solido da far intravvedere pienezza e compimento.
13 - Dic - 2019

III Domenica d’Avvento

Maria Donna dell'attesa

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

III Domenica d’Avvento

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’annuncio di gioia che le letture di questa domenica fanno, come se la salvezza di Dio fosse imminente, come se tutto quello che minaccia il mondo non fosse più pericoloso, è spiazzante. Vediamo intorno a noi i segni della violenza umana sui poveri e sulla natura. Disastri e guerre, divisioni, odio, cieca stupidità e sete sfrenata di guadagno sembrano i dominatori del mondo. E anche il nostro cuore, pure intenzionato a vivere rettamente e secondo Dio, spesso ci tradisce, scegliendo il male, l’ipocrisia, la paura. I nostri progetti non vanno tutti a buon fine né le nostre relazioni sono tutte riconciliate e gioiose.

Proprio qui, in questa terra arida (un deserto o una steppa, per dirla con il profeta Isaia), si dà un annuncio di gioia, perché nel deserto vedremo spuntare i fiori. Siamo di fronte ad un’illusione?
Ogni volta che si è davanti ad una promessa, dobbiamo decidere se veniamo ingannati o se possiamo appoggiare la nostra vita su quello che ci viene annunciato. Lo decidiamo in base ai pegni che anticipano questa promessa e all’affidabilità di chi la fa. Però, anche i pegni fossero validi e la persona degna di fiducia, dobbiamo aspettare perché spunti il fiore seminato, perché arrivi chi attendiamo e perché si compiano le promesse fatte. Bisogna avere la sapienza dell’agricoltore (così nella lettera di Giacomo) che sa aspettare il tempo che serve alla terra per dare i suoi frutti.
Questa saggezza, quando si tratta di attendere il regno di Dio, non è immediata. Persino il Battista fatica a riconoscere in Gesù il pegno anticipatore della promessa di Dio. Allora Gesù istruisce quello che era stato il suo maestro ricordandogli la Scrittura e chiedendogli di leggere ciò che accade alla luce di questa. Così dobbiamo fare noi: guardare la realtà comprendendola sulla base della parola che Dio dice. E Dio ci invita a guardare i ciechi che vedono (tutti coloro che riescono ad accorgersi che la vita non può essere vissuta se non nella giustizia e nell’amore), gli zoppi che camminano (quanti pur segnati da ferite e fallimenti non si fermano e vivono e fanno vivere), i lebbrosi che guariscono (quanti sono rimessi al mondo dalla cura e dal perdono), i sordi che odono (quelli che cominciano a fare propria la parola di Dio e a vivere di conseguenza), i morti risuscitano (quanti scelgono di accogliere l’amore del Padre per ricominciare a vivere dopo aver perduto tutto), l’annuncio del Vangelo fatto ai poveri, perché tutti sappiano che Dio è Amore che libera.
Queste tracce dell’opera di Dio sono ovunque e conducono ad una via santa, sulla quale si può vivere con gioia, cancellando la tristezza, anche mentre si è nella fatica dell’attesa e mentre si aspetta una salvezza che ancora non si può gustare.
Se una donna appena saputo di essere incinta volesse stringere il proprio bambino, impazzirebbe o interromperebbe la gravidanza. Ma il corpo femminile ha una sapienza antica, che lo fa aspettare, gustando la presenza invasiva di una promessa, acuendo i sensi per cercare continue conferme, accogliendo come un dono persino lo sformarsi del proprio corpo, perché tutto questo è la traccia della vita che lo abita. Così dobbiamo attraversare la storia, cercando l’opera di Dio che fa vivere e libera, servendola, moltiplicandola, eliminando ogni ostacolo alla sua azione, facendoci coraggio di fronte ad ogni segno della sua potenza vivificante. Per fare questo bisogna aver compreso la logica di Dio e averla fatta nostra, allora saremo già nel Regno dei cieli e potremo dire a tutti quelli che dubitano della salvezza (come accadde al più grande dei profeti): guarda bene, Dio rende giustizia agli oppressi e libera, ridona la vista e rialza chi è caduto, sostiene i poveri e protegge i forestieri. Guarda bene: il Signore regna per sempre. E gli altri, come è stato per il Battista, crederanno perché vedranno in noi, come lui ha visto in Gesù, questa speranza farsi storia nelle nostre vite.

 

07 - Dic - 2019

Immacolata Concezione

Maria Donna dell'attesa

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Immacolata Concezione (II Avvento)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ogni volta che celebriamo una festa mariana rischiamo di fare l’elenco dei “privilegi” di Maria, dimenticandoci che è nostra sorella, la prima dei discepoli di Cristo e che per questo possiamo celebrare ciò che accade a lei come qualcosa che ci riguarda. Per questo è bene, piuttosto che speculare sul significato del dogma proclamato nel 1854 da Pio IX, immergersi nelle letture liturgiche che ci aprono la possibilità di comprendere la nostra storia tramite la storia di lei.
Chiediamo in modo particolare alla liturgia di questa festa che cosa significa essere santi e così capiremo perché contempliamo in Maria la perfezione di questa santità. E cominciamo sfatando il mito che la santità sia un “non fare peccati” (in questo la festa dell’Immacolata potrebbe portarci fuori strada) o un “essere innocenti” come i bambini: questo sarebbe ancora poco. Ce lo dice bene la prima lettura: Adamo ed Eva nel racconto genesiaco vivono come i bambini (nudi, senza vergogna, senza distinguere il bene dal male), ma l’essere umano non è fatto per stare in questa condizione, che infatti non dura: essere come bambini è poco. Uomini e donne devono invece crescere e liberamente scegliere di amare e di entrare in relazione con Dio, con il prossimo, con il mondo. Il tentativo di Eva ed Adamo è fallimentare (nel cercare di diventare adulti strappano la comunione con Dio e fra di loro con gravi conseguenze) ma la direzione è quella giusta.
Maria si trova davanti a Dio come i protagonisti del racconto di Genesi. Anche lei deve scegliere da donna libera e adulta chi vuole servire e come. E lei decide di sé: decide di servire il Dio di Israele. Non sa ancora che cosa questo le chiederà, non ha ancora iniziato il proprio discepolato, non conosce le difficoltà dell’essere madre e tanto meno dell’essere madre di questo bambino, ma sa che vuole vivere servendo Dio e decisa per lui. Accoglie la sua parola e questa la renderà sempre più simile al proprio figlio, cioè amata dal Padre, figlia adottiva di lui: è una parola che la immergerà in un mistero d’amore che la santifica continuamente.
La verginità di Maria, annotata da Luca, non indica la sua purezza (avere rapporti sessuali non rende impuri né meno integri) ci dice invece la sua libertà, perché al tempo in cui lei è vissuta una donna sposata non era libera, ma era di proprietà del marito che prendeva possesso di lei tramite i rapporti sessuali. Oggi, ovviamente, nessuno pensa più questo, ma dobbiamo tenere il significato: per rispondere alla volontà di Dio occorre essere liberi, decidere di se stessi. E Maria lo fa: non ha bisogno di un marito o di un padre che le dica che cosa fare, ascolta la parola di Dio e la mette in pratica.
La santità è questo cammino di pienezza verso la vita realizzato nell’ascolto sempre più profondo di una parola che interpella la nostra libertà. Se abbiamo dei padroni (esteriori o interiori) non siamo liberi di servire Dio, Maria invece era evidentemente arrivata a quel momento pronta per una scelta libera e adulta (come abbia vissuto prima è un mistero di cui non sappiamo nulla…) e così realizza pienamente quello che Dio chiede ad ogni persona: amarlo sempre di più e sempre più profondamente.
Per noi come per lei, la santità è un cammino di crescita continua, che porta ad un ascolto sempre più attento della Parola del Padre perché questa prenda consistenza nelle nostre parole, nei nostri gesti e in tutto quello che siamo. Ce lo dice il bellissimo inno della lettera agli Efesini: siamo stati scelti per un progetto che prevede la nostra santità, il nostro essere immacolati nell’amore, fino ad essere figli adottivi di Dio e diventare per lui un motivo di gioia grande.
Maria è colei che per prima ha giocato la propria libertà totalmente su Dio, scegliendo chi voleva essere e senza obbedire ad altra parola che a quella del Padre. Ci sta di fianco perché anche noi facciamo lo stesso: prima nel discepolato, prima nella santità, prima nel progetto che ci vuole santi e immacolati nella carità per il dono gratuito di Dio.
Davvero possiamo cantare al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.

30 - Nov - 2019

I Domenica Avvento

Maria Donna dell'attesa

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

I Domenica Avvento

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La vita si gioca nell’infinito rincorrersi di momenti che sembrano lasciare tutto come è, miriadi di istanti rapidi e subito dimenticati, fra i quali si nascondono momenti, ore, giorni che hanno la capacità di cambiare tutto: nascite, morti, incontri, intuizioni, scoperte. Nessuno può sapere se il prossimo momento sarà uno di quelli che aggiungerà una nota già sentita alla musica che stiamo già ascoltando o se invece interverrà una variazione, una stonatura, un nuovo strumento, un silenzio.

L’avvento è il tempo liturgico che ha la capacità di richiamarci su questa ambiguità della vita: ogni attimo dell’esistenza, di per sé così anonimo, può portare una venuta straordinaria in cui si nasconde una nuova modalità di farsi presente di Dio. Se infatti è vero che lui non abbandona mai il mondo a se stesso (né lascia noi soli), è vero anche che si fa presente sempre in modo nuovo, facendosi riconoscere nello stile e nelle parole con cui già si è fatto vedere altre volte, ma allo stesso tempo portando novità che sanno essere sconvolgenti.
Che succede se si vive la vita assopiti dal ritmo sempre uguale dei giorni e non si pensa più che ogni attimo possa nascondere altro? Che succede se, quando qualcosa di spaventoso o comunque di straordinario irrompe, non sappiamo ricondurlo alla presenza di Dio? Accade quello che Gesù descrive nel Vangelo: due uomini lavorano nel campo, ma solo uno viene preso. Due donne macinano, ma una sola viene presa. Il rischio, cioè, è di perdere l’occasione della propria liberazione e rimanere con un palmo di naso.
In mezzo alle vicende della vita, infatti, come un ladro di notte, sono in agguato quelle situazioni in cui Dio si fa liberatore potente per ciascuno. Può trattarsi di occasioni, doni, incontri, anche fatti gravi o tristi, o qualcosa che fa finire il nostro mondo, come un lutto, un tradimento, un fallimento. Queste realtà possono sommergerci come un diluvio ma diventano occasione di salvezza, se, come Noè, siamo pronti.
Il vero nemico – ci spiega il breve brano della lettera ai Romani – è il sonno, il torpore che ci distrae dallo scrutare lo scorrere del tempo alla ricerca della presenza di Dio, un torpore fatto di eccessi che stordiscono (orge, ubriachezze e lussurie…che oggi potrebbero essere anche la volgarità, la stupidità o semplicemente la superficialità) e di litigi e gelosie, che spostano l’attenzione da ciò che conta a piccinerie e ripicche: tutte cose che fanno tenere lo sguardo basso e accorciano la vista, facendoci vivere come se il momento di adesso fosse solo un momento fra i tanti e non potesse portare con sé l’avvento del Signore.
Al contrario, occorre ascoltare la voce delle Scritture e il richiamo dei profeti per ricordare che i giorni non sono eterni e che, pur così fragili e anonimi, nascondono infinite novità in cui Dio salva e ci conduce alla meta. Il cammino che facciamo infatti, come l’equipaggiamento di cui necessita e i sentimenti che l’accompagnano, dipende sempre dalla meta. L’avvento è il tempo in cui dobbiamo ricordarci con chiarezza che non stiamo vagando, ma puntiamo dritti al monte del Signore. Andiamo lì per vivere secondo la sua logica, per avere un giudizio equo sulla storia e per godere la pienezza della pace. Ogni istante, anche il prossimo, può nascondere per noi il venirci incontro della metà che attendiamo, proprio come accade quando, un passo dopo l’altro, improvvisamente, una curva della strada lascia intravvedere l’arrivo del viaggio per poi subito nasconderlo di nuovo, ridandoci però slancio e consapevolezza: siamo sulla strada giusta, siamo più vicini ora di quando abbiamo cominciato. Andiamo, allora, aguzzando la vista lungo la strada, perché non ci sfugga proprio ciò per cui ci siamo messi in viaggio: il Signore viene, nessuno sa quando, ma potrebbe essere anche adesso. Conviene stare pronti, per non perdere l’occasione della vita che in quell’unico istante fra tutti ci viene incontro.
23 - Nov - 2019

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Cristo Re

p. Marko I. Rupnick

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nell’ultima domenica del tempo ordinario, celebriamo la solennità di Cristo re. Forse per noi la regalità è qualcosa di distante, ha il sapore antico della storia passata, se non quello surreale delle fiabe, per cui prima ancora di comprendere in che modo Cristo possa dirsi re, lui che non ha voluto esercitare potere su nessuno ed ha esplicitamente respinto la tentazione di regnare su tutti i luoghi della terra, è bene provare ad entrare nel senso di un’immagine così antica.

Il re era certamente un uomo potente, temibile, assimilato alla divinità, se non venerato come tale. Il popolo doveva e voleva stringersi intorno a lui perché lui garantiva l’unità di tutti e in qualche modo ne rappresentava la salvezza. Questa però era vista nella possibilità di far prosperare il popolo e di difenderlo dai nemici, quando non, addirittura, di sottometterli per arricchirsi.
Con questa speranza nel cuore, anche gli israeliti – che già avevano abbandonato la frammentata struttura tribale per stringersi intorno a Saul – cercano Davide perché possa prendersi cura di loro e custodirli. La scelta cade su Davide, però, non per le sue qualità o per la sua capacità di persuadere il popolo a seguirlo, quanto per la scelta che Dio fa e che segue criteri distanti da quelli del successo e del potere.
Il popolo e Davide stringono allora un’alleanza, diventano un corpo solo (siamo tue ossa e tua carne, con un’espressione che richiama l’unione sponsale), perché da questo momento in poi il volere del re sarà quello del popolo e il destino del re quello del popolo.
Anche la regalità di Gesù dipende dalla scelta del Padre su di lui, il figlio prediletto inviato agli uomini per dare loro la vita, ma nel Vangelo che proclamiamo questa domenica appare evidente come dipenda anche da lui, dalla risposta che lui dà alla scelta del Padre.
Nel breve brano di Luca, Gesù è in croce. Per tre volte viene provocato: salva te stesso. Ogni re, d’altra parte, è scelto per salvare e far vivere il popolo, deve essere quindi in grado, anzitutto, di salvare e far vivere se stesso. Gesù però ha scelto un’altra via. Lui non è re per imporsi sugli altri, per mostrare il suo potere e le sue capacità, nemmeno per salvarli, ma solo per rendere evidente che il segreto della vita, la sua logica profonda sta nella consegna al Padre e che questo è colui che fa vivere e salva.
Se si fosse salvato da solo, avrebbe avvalorato la logica del mondo per cui vince chi ha potere, chi ottiene risultati, chi ha influenza, chi trova modi più o meno leciti per mandare le cose come vuole lui. A fin di bene magari, ma chi agisce in questo modo testimonia che la vita dipende da noi e autorizza tutti a cercare di salvare se stessi, piegando la realtà e gli altri se serve, perché prima di tutto occorre garantirsi la vita.
Gesù sceglie un’altra via. Si consegna al Padre perché lui lo salvi e tutti vedano così che c’è un solo modo per entrare nella vita e nella pace: lasciarsi amare dal Padre. Così non risponde alle provocazioni e decide di non salvare se stesso.
Il malfattore crocifisso alla destra di Gesù intuisce che lui è liberato dalla paura della morte, non perché non la senta o perché la sofferenza sia meno dura, ma soltanto perché sa di riceversi continuamente e allora può sperare di essere richiamato alla vita. Il ladrone intuisce che in questo modo di morire c’è una sapienza altra che lo fa sperare, una sapienza che inaugura un regno, perché ci si può stringere a questo re, facendo alleanza con lui in modo da entrare nella vita e nella pace di cui lui sembra conoscere la via.
“Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
“Oggi sarai con me in paradiso”. Questa è la risposta di Gesù, con la quale lui sancisce l’alleanza con il primo fratello che forma il popolo di quelli che sperano in lui: sarai con me. Gesù si sceglie come compagno di vita quello che aveva saputo stare con lui nella morte, che aveva saputo riconoscere una bellezza nel suo essere sfigurato, tanto da difenderlo. Non si scandalizza del peccato, che pure il ladrone riconosce (noi giustamente), perché questo non lo porta a giustificarsi e a disprezzare Gesù che muore anche se non ha fatto niente di male (l’altro ladrone invece sembra confermato nel male fatto: in fondo perché fare il bene se la fine è la stessa?). Gesù vede, forse, nello sguardo intelligente del ladrone che sa andare oltre la condanna di Gesù e lo riconosce come re, una consolazione del Padre, una conferma di essere nel giusto. “Oggi sarai con me in paradiso”: ricorda e spera ciò che attende e promette al ladrone che sarà anche per lui, perché lo vuole con sé, come l’amico che ha saputo consolarlo mentre tutti lo disprezzavano.
Noi vediamo, come il malfattore, la bellezza di questa morte fatta per amore e nella speranza? Scegliamo un re che non vince, che non ha potere, che non ha influenza su nessuno, che non ci ottiene favori, ma ci mostra quanto è solido e fedele l’amore del Padre, chiedendoci di vivere solo per questo? La tentazione di instaurare un regno qui, dove gli altri ci riconoscano valore, dove possiamo ottenere risultati e vittorie (sempre a fin di bene, per carità!) è fortissima anche per i credenti e per la chiesa. Così facendo però non siamo più nel Regno di Gesù, di questo re, ma di altri. Non tutti sono cattivi, ma non sono lui.
Noi invece (come ci ricorda lo splendido brano della lettera ai Colossesi) liberati dal potere delle tenebre (che ci spinge sempre a cercare di salvarci ottenendo ciò che ci sembra ci procuri la vita) possiamo goderci il perdono ed entrare nella famiglia di quelli che, come il primo malfattore, stringono alleanza con Gesù e così entrano nel suo regno. Egli è l’immagine di Dio, dell’Amore che lui è, ed è anche il senso di tutto ciò che esiste, perché tutto è fatto per entrare in una relazione filiale con il Padre: tutto esiste per essere, come il Figlio e stretto a lui, abbandonato all’amore del Padre che salva. Lui è anche il capo del corpo che è la chiesa, cioè il popolo che ha fatto alleanza, fino ad essere una sola carne con lui ed è capace così di renderlo presente perché tutti possano vederlo, ascoltarlo e sperare. In lui l’alleanza con Dio è perfetta, perché possiamo stringerci a Cristo che mentre si lega a noi ci lega al Padre suo con il quale vive un’unica vita.
Un re di un altro mondo, con un’altra logica e un’altra forza. Un re consegnato a Colui che tutto sostiene e fa vivere. “Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
16 - Nov - 2019

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La storia è piena di minacce, di eventi terribili che hanno segnato la fine di intere civiltà. Nel Vangelo di questa domenica Luca ci guida dentro questi eventi spaventosi per rovesciarne il significato e farli diventare – come leggiamo nel versetto al canto dell’Alleluia – un motivo per rallegrarsi perché la nostra liberazione è vicina.

L’occasione del discorso di Gesù è l’orgoglio di alcuni per la bellezza del tempio, del quale Gesù preannuncia la distruzione. Le meraviglie artistiche, economiche, ingegneristiche che l’uomo costruisce sono destinate a passare: se non è un nemico, sarà la guerra, oppure un terremoto o semplicemente l’abbandono per un qualsiasi motivo. Tutto passa. Questo vale per ogni opera che ci fa inorgoglire, fosse pure un’idea di chiesa che abbiamo ereditato: non è il passato che possiamo guardare per vivere, ma il presente attendendo il futuro. Veniamo istruiti così a guardare la storia in altro modo.
A questo punto Gesù chiama in causa guerre, rivoluzioni, pestilenze, carestie, terremoti, fatti terrificanti, persecuzioni. Molto duramente ci riporta alla realtà di ogni giorno, togliendoci l’illusione di poter confidare in ciò che abbiamo costruito (non resterà pietra su pietra). Nelle società ricche come la nostra possiamo illuderci di essere al sicuro dalla povertà o dalla guerra, per esempio, ma le ingiustizie e le disuguaglianze che sono nel mondo non restano più confinate e bussano alla nostra porta nei volti stremati dei migranti o in quelli folli dei terroristi. Le nostre abilità tecniche poi impallidiscono di fronte alla violenza della natura di cui siamo responsabili: Venezia finisce sott’acqua, i territori cedono sotto la pressione dei cambiamenti climatici. I fatti terrificanti sono sempre esistiti ed esistono anche oggi, come anche esiste la persecuzione di coloro che credono. Questa non va confusa con l’ostilità che spesso i credenti si attirano diventando violenti con gli altri in nome dei propri valori e della difesa della propria tradizione, la persecuzione è piuttosto frutto della reazione che l’ingiustizia mette in atto contro chi la combatte. Se viviamo facendo il bene degli altri e liberandoli da ciò che li fa soffrire e veniamo contrastati, allora si può parlare di persecuzione.
Di fronte a tutto questo però ci viene detto di risollevarci e alzare il capo, perché la nostra liberazione è vicina. Il senso di questa logica ci viene dischiuso dalla prima brevissima lettura del profeta Malachia. I giorni terribili infatti, che poi sono i giorni ordinari della vita nella quale sappiamo bene di essere esposti ad ogni fatica e pericolo, non hanno sempre lo stesso effetto: per chi ha vissuto dedito all’ingiustizia, quindi senza preoccuparsi di fare il bene, le fatiche della vita e della storia saranno come un fuoco che brucia tutto. Che cosa resta in mano a chi ha vissuto per guadagnare quando la ricchezza (o la salute o la sicurezza sociale) viene meno? Per chi invece vive sotto lo sguardo di Dio e servendolo nei fratelli e nelle sorelle, anche i giorni più drammatici sono solo un passaggio, anzi un chiaro segnale che questa vita non è l’unica né l’ultima, ma che ci attende la pienezza della vita in Dio. La morte, come anche le difficoltà della vita o della storia, operano così un giudizio, portando alla luce per che cosa siamo vissuti. Come un fuoco che prova di che materiale è ciò che ci buttiamo dentro.
Come vivere allora, sapendo che questa è la condizione dell’essere umano e che non siamo al riparo dalle conseguenze terribili dell’ingiustizia né dalle fatalità della vita? Consapevoli di essere infinitamente amati e quindi (come ci esorta a fare la seconda lettera ai Tessalonicesi) lavorando per guadagnarci di che vivere, per condividere con altri e per contrastare in ogni modo il male e l’ingiustizia. Vivendo così ogni evento della vita, anche il più faticoso, ci si rivelerà come una venuta del Signore, che non ci lascia soli e che viene a ribaltare le tragedie in liberazione, annunciandoci un futuro di vita. Rallegriamoci allora come ci invita a fare il salmo: battiamo le mani insieme ai fiumi, esultiamo con le montagne, perché il Signore viene a giudicare a la terra, con giustizia e rettitudine. E resterà solo ciò che vale, per portare la vita piena per tutti.
09 - Nov - 2019

XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nel Vangelo di questa domenica alcuni sadducei (un gruppo di credenti che non sperava nella resurrezione dai morti) mette alla prova Gesù con un caso paradossale: una donna sposa sette fratelli di seguito che muoiono uno dopo l’altro senza lasciare figli. Di chi sarà moglie nella resurrezione, chiedono i sadducei, visto che è stata moglie di tutti? Prima di vedere la risposta di Gesù è bene sottolineare che non a caso i sadducei contrappongono la resurrezione, per loro impossibile, alla procreazione, che per le culture antiche (ma in parte per tutti) è il modo in cui i padri continuano a vivere. Morire senza figli per un uomo era una sventura, perché voleva dire l’annientamento della propria esistenza, per questo la legge ebraica prevedeva che il fratello sposasse la moglie del morto e considerasse il primo figlio che sarebbe nato da questa unione come un figlio del defunto, in modo che questo continuasse a vivere. Nel caso limite presentato a Gesù questo accade per sette volte.

Gesù sposta completamente l’asse del discorso e prima di parlare della resurrezione si ferma sulla procreazione. Quelli che sono giudicati degni della vita futura, dice Gesù, non prendono moglie e le mogli non vengono prese (questa sarebbe la traduzione corretta del testo, che mette bene in evidenza la posizione impari in cui le donne sono fatte oggetto di possesso), infatti non possono più morire. Che cosa sta dicendo? Rispondendo ai sadducei che avevano esposto il caso (disgustoso) di una donna passata da un uomo all’altro e usata da tutti con il solo scopo di dare un figlio a qualcuno, dichiara la fine di questo commercio: i mariti non prendono moglie e le mogli non vengono prese. Per quelli che sono giudicati degni della vita futura, il matrimonio diventa una relazione fraterna e reciproca e fare figli cessa di essere l’egoistico prolungamento della propria esistenza, per diventare un riflesso dell’amore fontale e custodente del Padre.
Solo dopo aver fatto piazza pulita di tali devianze, Gesù parla della resurrezione: i morti risorgono (non c’è più bisogno di escogitare un modo per sopravvivere) perché Dio è il Dio dei vivi. Possiamo sperare cioè nella resurrezione perché Dio si lega a noi, si è legato ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe, ma anche a ciascuno di noi. Questa alleanza che lui ha scelto di vivere è il pegno della nostra resurrezione: non ci lascerà nella morte perché non vuole vivere senza di noi.
Nella seconda lettura leggiamo infatti che il Signore è fedele, ci confermerà e ci custodirà. Questa esperienza, già iniziata nel cammino della vita e sperimentata nelle difficoltà e nelle morti che tutti affrontiamo, si compirà con la nostra resurrezione, perché lui che ci ha voluti e custoditi, ci ridarà la vita per sempre.
Solo la potenza di Dio (già evidente nella gloria del creato e nella salvezza degli uomini) e la sua fedeltà ci possono far sperare che la vita ci verrà restituita e questa speranza è capace di trasformare fin d’ora la nostra vita, perché, come ci ricorda la seconda lettera ai Tessalonicesi, viviamo alla luce di questa speranza, lontano dal male, dentro un cammino che ci conduca “all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo”.
Tutto si fonda sulla fedeltà di Dio: lui che ci ama, ci ha chiamati alla salvezza e ci ha legati a sé non ci lascerà nella morte, ma ci ridarà la vita in modo del tutto gratuito e pieno, come è stato per Gesù. Questa sua fedeltà però ci dona una speranza che diventa ciò che fa essere fedeli noi: non ci sottrarremo dal glorificarlo con la nostra vita, anche se questo ci costasse moltissimo (fino alla morte per i fratelli di cui racconta il libro dei Maccabei), perché sappiamo che lui è capace di ridarci sempre la vita. Allora diciamo col salmista: “tieni saldi Signore i nostri passi sulle tue vie” perché queste conducono alla vita. Infallibilmente fino alla resurrezione.
02 - Nov - 2019

XXXI Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXXI Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Forse siamo abituati a pensare che le persone (noi compresi) non possano cambiare. A volte è persino una argomentazione per continuare a vivere come si sta facendo: sono fatto così. O per chiudere il discorso su qualcuno: è fatto così. Siamo abituati alle notizie di male e di ingiustizia: il mondo è fatto così. Abbiamo uno sguardo disincantato che ci toglie ogni attesa di novità. Forse per questo la festa dei Santi ci sembra la memoria di storie altrui, molto diverse dal solito, mentre la commemorazione dei defunti ci sembra solo un doveroso ricordo per chi già ha attraversato la morte, che aspetta tutti inesorabile: la vita è fatta così.

Il Vangelo di questa domenica racconta tutta un’altra storia che, anche se non ce ne accorgiamo, accade continuamente: le persone cambiano, il mondo cambia, noi cambiamo, persino la morte è trasformata. Il protagonista di questa storia è Zaccheo, un uomo ricco (e questa per il Vangelo di Luca è la peggiore delle condizioni perché chiude il cuore agli uomini e a Dio), capo dei pubblicani (deve quindi la sua ricchezza all’ingiustizia e al tradimento), basso di statura (che nella fisiognomica del tempo indicava l’essere ridicoli, cosa che accade spesso quando ci si gonfia della propria posizione credendosi chissà che cosa), ma animato da un curioso desiderio: vuole vedere Gesù. Questa unica caratteristica, un dettaglio irrilevante rispetto al resto, diventa l’occasione per incrociare lo sguardo con Gesù, che subito vuole fermarsi presso di lui.

L’atteggiamento di Gesù scandalizza molti, perché non bisogna cercare la compagnia dei peccatori, tenersi lontano da loro. Perché Gesù non lo fa? Perché vuole fermarsi da un uomo simile? Gesù, nel guardare Zaccheo, ha visto altro dal suo peccato. Ha avuto verso di lui lo stesso atteggiamento che il libro della Sapienza attribuisce a Dio: ha compassione di tutti, chiude gli occhi sui peccati aspettando la conversione, non prova disgusto per nulla di ciò che ha creato, corregge a poco a poco quelli che sbagliano perché, abbandonato il male, credano.

Dio non disprezza mai ciò che siamo. Dona il suo Spirito continuamente perché (come scritto nella lettera ai Tessalonicesi) ogni proposito di bene che ci abita (fosse anche piccolissimo) giunga a compimento: magari è solo la curiosità di vedere Gesù ma Dio vi vede l’occasione per fermarsi con noi e darci una nuova possibilità di essere degni della sua chiamata. Non facciamoci allarmare dunque da altri discorsi che ci confondono la mente dicendoci che Dio condanna o che non è possibile sperare né per noi né per il mondo, come se il tempo in cui Dio agisce fosse finito.

Fermiamoci invece, come Zaccheo, davanti a Gesù che condivide con noi la nostra casa, il nostro spazio, le nostre fatiche. Il suo amore può cambiarci il cuore, convertirci. Il segno della conversione saranno gesti di giustizia insperabili: Zaccheo va ben oltre la legge restituendo non quanto ha rubato ma quattro volte tanto e inoltre dà la metà di quanto possiede ai poveri. La conversione dal peccato e dall’ingiustizia, in cui continuamente (seppure diversamente) rischiamo di ricadere, si concretizza nell’usare ciò che abbiamo accumulato ingiustamente (tempo, beni materiali, risorse culturali, riposo, influenza sociale o ecclesiale, fama, ecc…) per togliere altri dalla povertà e per rimediare ai torti fatti (possibilmente verso le stesse persone cui li abbiamo fatti e facendo di ciò che abbiamo accumulato ingiustamente proprio una risorsa per fare del bene).

Purtroppo, invece, a volte la conversione ci spinge a voler essere diversi da prima per meritarci l’amore ricevuto, a voler diventare finalmente ineccepibili. La conseguenza spesso è l’intransigenza e la mancanza di misericordia, per non parlare dell’incapacità di accettare la debolezza che abbiamo e che vorremmo rimuovere e negare per essere finalmente “buoni”. Come se per ricambiare l’amore di qualcuno invece che amarlo, dovessimo comportarci sempre come gli piace…finiremmo per passare il tempo a pensare a noi stessi (come sono vestito, cosa dico, cosa faccio, come mi comporto), ma questo non sarebbe più amore, che invece sempre ci fa pensare a come l’amato è bello vestito così, a cogliere le sfumature del suo parlare, a chiederci perché si comporta in un certo modo e ammirare ciò che fa. Da questo stare rivolti sorgeranno anche i nostri gesti e i nostri comportamenti e allora nasceranno dall’amore.

Incrociare davvero lo sguardo di Gesù significa scoprire che noi siamo ben altro dal nostro peccato e dal nostro limite: siamo ciò che Dio desidera al punto da aver mandato il suo figlio. Non abbiamo bisogno di sforzarci di essere buoni (tanto meno ineccepibili), ma solo di lasciarci attrarre da questo sguardo che è capace di insegnarci la misericordia che realizza la giustizia. Da qui la gioia che il salmo ci insegna: misericordioso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore, fedele nelle parole, buono nelle opere, egli sostiene chi vacilla e rialza chi è caduto. Come non benedirlo ogni giorno e lodare il suo nome sempre?

30 - Ott - 2019

Festa di Tutti i Santi

Ogni Santi

M.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Festa di tutti i Santi

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Le letture di questa solennità ci aiutano a fare piazza pulita di alcuni fraintendimenti nei quali cadiamo quasi tutti molto spesso quando pensiamo la santità. Infatti la liturgia della parola ci costringe ad accostare quello che ci sembra uno stile elitario, possibile a pochi, come la pagina delle Beatitudini, ad una moltitudine di santi e sante che nessuno può contare. Infine la seconda lettura – appena pochi versetti della prima lettera di Giovanni – si rivolge direttamente a noi (usa proprio la prima persona plurale coinvolgendo chi ascolta nella stessa condizione di chi scrive) per dirci che saremo simili a Dio.

In poche battute, quindi, ci troviamo anche noi immersi nella schiera innumerevole di quelli che hanno lavato le proprie vesti nel sangue dell’Agnello, che hanno riposto cioè la speranza della propria vita nell’amore del Padre, proprio come Gesù che, forte di questo amore, ha potuto annunciare la salvezza e testimoniarla fino al culmine del dono di sé.
Se accade per una folla innumerevole però, noi compresi, vuol dire che entrare nella schiera dei santi, che l’Apocalisse indica come testimoni, non è qualcosa di raro, riservato a chi è capace di prestazioni particolari, ma è invece un’esperienza propria di ogni credente. La fede infatti ci pone in questa condizione di continua santificazione e ci stringe in una tale relazione con Dio che nemmeno il peccato è più capace di ostacolare, poiché ciascuno viene purificato proprio nel fondare tutta la propria speranza in lui.
Essere santi dunque è una condizione ordinaria, propria di ogni credente, che prevede anche errori da cui veniamo continuamente purificati e che ci immerge nel popolo di quelli che hanno fatto dell’amore del Padre il fondamento della propria vita cui continuamente tornare e da cui continuamente ripartire per salire più in alto verso il monte del Signore.
Tutto questo, poi, per il credente è una gioia, che non dipende dalle contingenze favorevoli della vita, ma dall’avere assunto lo stile di Cristo. Vive la propria vita cristiana infatti chi fa suoi i tratti di Gesù e questo lo pone fra la schiera dei testimoni che mostrano con la propria esistenza la verità del Vangelo. Chi fa questo non pensa di avere una ricchezza più grande né più importante dell’amore del Padre (beati i poveri!), non ha bisogno di stare sempre nella gioia quindi può sopportare le fatiche e le sofferenze senza diventare violento o egoista per evitarle (beati gli afflitti!), non ha bisogno di sopraffare nessuno per trovare se stesso (beati i miti!), né di trovare mille giustificazioni alle ingiustizie pur di non sentirsi mancante e di non dover cambiare la propria vita per rendere il mondo più giusto (beati quelli che hanno fame e sete della giustizia!). Quelli che hanno i tratti di Gesù non hanno bisogno di conservare la memoria delle offese subite perché non vogliono riscuotere nessun debito ma dare all’altro la possibilità di vivere liberamente (beati i misericordiosi!), non hanno bisogno nemmeno di nascondersi e manipolare perché sono liberati dalla smania di apparire altro da quello che sono (beati i puri di cuore!), non hanno bisogno di evitare i conflitti per non avere problemi e così vi entrano per portare pace (beati gli operatori di pace!) e, infine, non hanno bisogno di essere applauditi e nemmeno lasciati in pace se per fare questo devono contraddire la giustizia e la fede (beati i perseguitati!). Chi vive così ha davvero da rallegrarsi, beato lui o lei, perché assapora la libertà da se stesso e può vivere la vita così com’è, con le lacrime, i fallimenti, la lotta per un mondo più giusto, i conflitti, le nostre povertà e miserie. Può vivere tutto come è e cogliere in questa ordinaria fatica la potente logica di Dio che ci conduce, insegnandoci a vivere tutto nell’amore, al suo luogo santo, per donarci benedizione e salvezza.