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17 - Apr - 2020

II Domenica di Pasqua (A)

Risurrezione nel cuore delle Donne

II Domenica di Pasqua

(At 2,42-47   Sal 117   1Pt 1,3-9   Gv 20,19-31)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il tempo di Pasqua ci offre l’opportunità di meditare non tanto sulla resurrezione del Signore, ma su come possiamo sperimentare la sua presenza. A questo scopo, i Vangeli (per lo più tratti da Giovanni) si accompagnano alla prima lettera di Pietro, che spiega in cosa consista la vita cristiana iniziata con il battesimo e come questa si dispieghi nel tempo della prova, e agli Atti degli apostoli, in cui la prima chiesa impara, guidata dallo Spirito, a porre gesti e parole nei quali quello che è stato vissuto con Gesù possa essere di nuovo un’esperienza concreta da fare insieme e da trasmettere ad altri.

Il Vangelo di questa domenica ci insegna il passaggio fra la fede che sorge dall’aver visto il Signore (attenzione che si tratta sempre di fede: le apparizioni del Risorto non costringono, non dimostrano nessuna verità in modo inconfutabile, ma chiedono di credere) e la fede che sorge senza aver visto. D’altra parte solo chi aveva conosciuto Gesù prima della sua passione poteva credere vedendolo risorto: cosa avrebbero potuto riconoscere e comprendere dell’apparizione del Risorto quelli che non l’avevano seguito?
Il Vangelo ci racconta che Tommaso non era presente quando Gesù si mostra ai discepoli e (come biasimarlo?) se ne rammarica: non è anche lui uno di quelli che sono stati con lui? Lui può credere vedendolo: perché gli deve essere negato? Infatti Gesù si mostra al suo discepolo otto giorni dopo e Tommaso professa subito e senza toccare (al contrario di quanto aveva detto in un primo momento) la propria fede: mio Signore e mio Dio. Gesù però prende lo spunto da qui per insegnare che da questo momento in poi, per quelli che verranno, la fede nascerà non dal vedere, ma dall’ascolto dell’annuncio. Infatti il quarto evangelista in quella che è la conclusione del suo Vangelo (prima dell’ultimo capitolo che è di fatto un’appendice) spiega che il libro che stiamo leggendo (e con esso i libri del Nuovo testamento e tutta la predicazione di questi discepoli) è stato scritto perché crediamo e credendo abbiamo la vita nel nome di Gesù. Da questo momento in poi la chiesa ripete le parole di Gesù e su Gesù perché gli esseri umani credano e, riconoscendolo vivo in mezzo a loro e per loro, abbiano la vita.
Non solo le parole, però, rendono presente il Signore, perché la fede che nasce dall’annuncio porta a compiere gesti e si trasforma in vita vissuta. Così gli Atti degli apostoli (seppure in modo stilizzato e forse idealizzato) ci presentano la prima comunità che ascolta l’annuncio, prega, spezza il pane, condivide i beni. I credenti imparano così che il Risorto è presente in ciò che loro vivono e condividono: parole che parlano di lui, parole rivolte insieme a Dio, pane condiviso nella preghiera e nella vita, perdono dei peccati (gesto menzionato da Gesù che compare in mezzo ai suoi discepoli, tutto preoccupato di annunciare la pace e la riconciliazione: non era tornato per giudicare chi l’aveva abbandonato o tradito o ucciso, ma per dare la vita).
Le parole e i gesti del Risorto, quindi, lo rendono presente e così i cristiani diventano consapevoli – con una gioia immensa che il salmo ci invita con forza ad esprimere – di avere una speranza che non può essere distrutta, qualsiasi prova li affligga (arriviamo così alla prima lettera di Pietro). Abbiamo infatti, anche in mezzo alle tribolazioni, che le vicende della storia e gli esseri umani ci impongono, la possibilità di incontrare il Risorto, di ascoltarne le parole e vederne i gesti. E così, fermi nella fede, le prove della vita diventano, paradossalmente, l’occasione per purificare le scorie che ancora rimangono e vedere poi risplendere, come l’oro passato nel fuoco, il dono che ci è stato fatto.
Siamo in un tempo di pandemia, molti soffrono, troppi muoiono, il lavoro è minacciato, gli affetti difficili, non possiamo vederci, muoverci, celebrare: quali scorie dobbiamo bruciare in questo fuoco? Quali ingiustizie? Quali sprechi? Quali disuguaglianze? Quali freddezze e indifferenze? Quali prassi ecclesiali oramai inutili o dannose per l’annuncio del Vangelo e per la realizzazione di una fraternità vera? Il male non viene mai da Dio, ma Dio può – se assecondiamo la potenza del suo Spirito – ribaltare il male in altro, rendendo persino la morte un’opportunità di vita: Gesù affronta la morte ingiusta subita dagli uomini in questo modo, sperando che Dio la trasformi in resurrezione per tutti. Un fuoco che purifica la fede e la vita, in attesa che la gloria di Dio si manifesti finalmente e trionfi su ogni male.
03 - Apr - 2020

Domenica delle Palme

domenica delle palme

Domenica delle Palme

(Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Mt 26,14- 27,66)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La settimana santa inizia con questa strana domenica in cui due Vangeli ci introducono agli ultimi giorni della vita del Signore: un Vangelo che parla di esaltazione (l’accoglienza festosa di Gesù a Gerusalemme da parte delle folle) e un Vangelo che parla del tradimento, della umiliazione e della morte di lui.

Sono due Vangeli che funzionano come una lama a doppio taglio che scende giù nel cuore di ciascuno di noi per vedere se esaltiamo Gesù per comodo (per sentirci bravi, per sentirci protetti, per rassicurare la nostra identità culturale, per paura del mondo che cambia, per avere potere su altri o metterci in mostra), oppure se lo esaltiamo, se lo amiamo per ciò che lui ha vissuto e scelto, cioè la condizione di servo e la morte di croce (come ci dice la lettera ai Filippesi) nella certezza dell’amore del Padre che non l’avrebbe lasciato nella morte (realizzando così le parole del profeta Isaia che leggiamo nella prima lettura: il Signore mi ha aperto l’orecchio e non ho opposto resistenza; il Signore mi assiste per questo non resto svergognato).
Lasciamo che questi due Vangeli calino la lama e aprano la nostra interiorità, rivelandoci perché cerchiamo Gesù, perché lo stiamo seguendo, perché vogliamo celebrare questa Pasqua. Siamo arrivati al momento in cui Gesù del tutto ingiustamente viene messo a morte. Matteo ha riportato poco prima la parabola dei vignaioli omicidi rivelandoci l’intenzione del Padre che mandando il Figlio nel mondo dice, nonostante tanti profeti siano già stati uccisi dal popolo: “risparmieranno mio figlio”. Ma la speranza di Dio va delusa e tutti gli eventi congiurano contro Gesù: tradimenti degli amici, ingiustizia dei capi religiosi, vigliaccheria dei potenti, ottusità dei soldati e delle folle. Nessuno fa niente per salvare Gesù, se non la moglie di Pilato, che dopo un sogno manda a dire al marito di non avere niente a che fare con questo giusto. Andiamo anche noi in mezzo alla folla e immedesimiamoci nei discepoli, perché anche noi siamo dei suoi. Sembra che tutto ciò in cui abbiamo sperato finisca. Gesù ora non compie miracoli e non insegna più nulla, ma lo vediamo mite pregare il Padre, perché se questo calice non può passare sia fatta la volontà di lui, cioè: se proprio deve passare per la croce, che Dio faccia ciò che vuole, ovvero lo riporti alla vita. Forse ci viene da dormire (per il disinteresse o la tristezza) come ai tre discepoli: che Signore è questo che non scansa la morte e che subisce l’ingiustizia fino a morirne? Questo è il momento in cui lui vuole essere scelto per quello che è: per il suo essere rivolto a Dio, come il Figlio amato, e niente altro. Qui rivela il mistero di Dio, vita d’amore condivisa, e il mistero dell’uomo, che può vivere solo in Dio.
Riviviamo questi eventi: chi siamo? Forse Giuda, pronto a tradire per un vantaggio concreto e pronto ad accorgersi di aver sbagliato, ma troppo tardi: ormai si può solo ripagare con la vita il sangue sparso, per cui si impicca. Oppure Pietro, facili a parlare di fedeltà e di sequela, quanto a rinnegare spergiurando e imprecando (per finire in un piano amaro) se essere riconosciuti di quelli di Gesù (o vivere la sua logica) ci dovesse essere di minaccia. Oppure siamo Pilato e sappiamo ciò che è giusto, ma ci approfittiamo di regole e ruoli che ci permettono di salvare la faccia mentre compiamo l’ingiustizia (continuando a pensare di aver fatto il nostro dovere). Oppure forse siamo i soldati, che infieriscono sul corpo sofferente e impotente di Gesù, come accade quando la nostra ricchezza impoverisce altri e distrugge l’ambiente, come quando pensiamo che i nostri morti valgano di più di quelli che la povertà e le guerre causano. Oppure, possiamo essere come la madre dei figli di Zebedeo, che non dorme né fugge come i propri figli, ma sta ferma sotto la croce insieme alle altre discepole. Lei, che Matteo ci aveva presentato al capitolo 20 mentre chiedeva la gloria per i propri figli, al seguito di Gesù eppure attratta dall’esaltazione e dai vantaggi (come le folle che acclamano Gesù a Gerusalemme), ora è davanti alla croce: non rinnega, non tradisce, non fugge. Beve fino in fondo il calice di Gesù, sperando forse come lui o per lui, che grida dalla croce il salmo dell’abbandonato da Dio, nella potenza d’amore del Padre che non lo abbandonerà nella morte. Lei sa che Dio lo ama e forse lo sguardo di lei, da lontano, mantiene anche Gesù nella speranza. La stessa speranza folle, forse, di Maria di Magdala e dell’altra Maria che si siedono davanti al sepolcro ormai chiuso, sfinite, incredule, oppure in attesa nemmeno loro sanno di cosa.
Siamo arrivati sotto la croce: che cosa cerchiamo da quest’uomo morente e che cosa riusciamo a vedere?
27 - Mar - 2020

V Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

V Domenica di Quaresima (A)

(Ez 37,12-14   Sal 129   Rm 8,8-11   Gv 11,1-45)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il cammino quaresimale ci ha condotto in molti luoghi: il deserto, nel quale scegliere chi servire quando tutto il resto viene tolto; il monte della trasfigurazione, rifugio di un momento per cogliere la gloria che risplende nella vita e nella persona di Gesù; il pozzo, dove scoprire che Gesù ha sete insieme a noi e ci addita un’acqua capace di dissetarci là dove l’arsura della vita non ci dà tregua; gli occhi aperti di un cieco nato, per entrare in una luce capace di farci vedere ciò che altrimenti resta nel buio.

Ora Gesù, turbato e piangente, ci porta davanti al sepolcro del suo amico, di colui che amava molto e che è morto, senza che lui affrettasse il viaggio per raggiungerlo e senza aver fatto nulla per guarirlo a distanza come altre volte aveva fatto. In questo brano Giovanni riprende molti spunti seminati nel suo Vangelo e in particolare nel racconto del cieco nato, letto domenica scorsa, ma soprattutto – questo è l’ultimo segno di Gesù per Giovanni – allude e prepara il segno per eccellenza posto da Gesù: la sua morte e la sua resurrezione. Gesù dice di sé di essere la resurrezione e la vita, promette così a tutti la rinascita: infatti la resurrezione rivela che la vita non può essere distrutta, perché Dio la rigenera continuamente. Dio apre continuamente i nostri sepolcri (come racconta la bellissima lettura tratta da Ezechiele) per la potenza dello Spirito che abita in noi (così Paolo ai Romani) e che dà vita ai nostri corpi mortali: nel battesimo, rigenerandoci come figli di Dio, ma anche in ogni morte o lutto che dobbiamo attraversare, compresa la nostra morte e compresa questa pandemia. Dio rinnova infallibilmente la vita.

Resta vero quanto visto domenica scorsa e ora ripetuto da Gesù a Marta: se credi, vedrai. La fede ci permette di cogliere la vita che trionfa e si rinnova continuamente distruggendo ogni morte, altrimenti lo sguardo si vela e gli occhi si chiudono per non vedere ciò che nessuno di noi può sopportare. I credenti devono essere di fianco agli altri, come chi ha la vista più acuta sta di fianco a chi guarda a terra con attenzione per non cadere: loro ci dicono dove mettere i piedi, noi aguzziamo lo sguardo perché loro sappiano dove stiamo andando.
La fede però non toglie la fatica né il dolore né il pianto: Gesù stesso di fronte al suo amico è turbato, sofferente e piange. La potenza di vita di Dio è reale, ma arriva dopo un travaglio altrettanto reale. La prova è dura, ma, come già aveva detto per il cieco puntualizzando che questi non era così per la punizione di una colpa, Gesù ci svela che “questa malattia non è per la morte” ma per la gloria di Dio, perché tramite essa il Figlio venga riconosciuto. Certo Gesù parlava della malattia di Lazzaro e della propria manifestazione nel segno che stava per compiere risuscitando il suo amico, ma per noi oggi, forse, potrebbe indicare che anche questa pandemia non è per la morte, ma perché scopriamo come vera, importante, significativa, la logica del Vangelo: essere una sola famiglia umana, scoprirsi fratelli e sorelle di tutti, fermare le guerre, farsi prossimi, condividere, prendersi cura, costruire un mondo più giusto, promuovere uno sviluppo che non distrugga, essere disposti a dare noi stessi perché altri vivano certi che Dio non ci abbandona alla morte.
Non è facile avere questi occhi. Marta era pronta e Gesù la guida ad un cammino di fede, che la vede fare la più solenne proclamazione di fede dell’intero quarto Vangelo: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Maria non ce la faceva, soffriva troppo, riesce solo a piangere. E Gesù, con lei, piange: si fa compagno anche di chi non ce la fa ad alzare lo sguardo. Poi si porta addolorato davanti alla tomba dell’amico: non ha fermato la malattia e posticipato la morte alla vecchiaia (non è questa la sete ultima da placare), ma guarda a questo dolore come un’occasione per sperimentare e mostrare l’amore vivificante del Padre.
“So che tu mi ascolti sempre…”. Forse Gesù sta di fronte all’amico morto, ascoltando il proprio dolore, per assaporare che non è possibile lasciare nella morte quelli che amiamo. Ciascuno di noi lo sperimenta: ci è insopportabile la morte di chi amiamo. Gesù vuole sentirlo, vuole saperlo, perché lui sta per morire e ha bisogno di sapere, forse, che il Padre non sopporterà di lasciarlo nel sepolcro e così lo farà rivivere. Farà della sua morte un modo per mostrare la sua potenza di vita, trasformando il male fatto dagli uomini in un bene incommensurabile. “So che tu mi ascolti sempre” e col cuore consolato chiama il suo amico fuori dal sepolcro. La morte ha i giorni contati.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

21 - Mar - 2020

IV Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

IV Domenica di Quaresima (A)

(1Sam 16,1.4.6-7.10-13   Sal 22   Ef 5,8-14   Gv 9,1-41)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’anno A propone durante la quaresima le grandi catechesi battesimali del Vangelo di Giovanni, perché la quaresima è il tempo in cui i catecumeni si preparavano (e si preparano) a rinascere nel battesimo, celebrato a Pasqua. In questo momento, in cui non possiamo celebrare, la chiesa intera torna ad essere catecumena, ovvero celebra la liturgia della Parola, prega e poi si ferma, impossibilitata a celebrare il rito eucaristico (i catecumeni non possono assistere all’eucaristia né parteciparvi, quindi escono prima della liturgia eucaristica). Prendiamo allora questo tempo come un’occasione: riscopriamo il nostro battesimo, la nostra appartenenza a Dio, lasciamo che la sua Parola ci guidi e ci trasformi. Lasciamoci aprire gli occhi sul mondo, sulla chiesa e su di noi.

Questa domenica, infatti, abbiamo di fronte la vicenda del cieco nato cui Gesù apre gli occhi con un gesto che ricorda quello della creazione: impasta la terra con la propria saliva e poi la mette sugli occhi del cieco, che deve andare a lavarsi (deve fare anche lui qualcosa dunque) e poi cercare di capire (proprio grazie a coloro che lo interrogano per gettare discredito su Gesù, su quanto accaduto e anche su di lui) che cosa gli è successo e arrivare alla fine del suo cammino a professare la sua fede: “Credo Signore!”.
Il nostro battesimo (la nostra fede) ha le stesse caratteristiche di questa illuminazione: ci accade come un dono, chiede domande, viene messa alla prova, stravolge la vita, ci rende autonomi (niente più elemosina per il cieco) e adulti (risponde da solo non tramite i genitori) per condurci finalmente a vedere e quindi a riconoscere Gesù come Signore.
Nella lettera agli Efesini ci viene indicato chiaramente il passaggio fatto: eravamo tenebra e ora siamo figli della luce. Essere figli della luce, però, porta con sé la necessità di compiere opere degne dei figli della luce e non c’è niente di peggio, sembrerebbe, che dire di vederci mentre si è ciechi, perché non si è disposti a farsi aiutare né a farsi aprire gli occhi e così si brancola nel buio sbattendo ovunque. Allora si finisce per non riconoscere le meraviglie di Dio e nemmeno colui che le compie (come accade ai farisei) e questo, magari, proprio mentre si pensa di servire di Dio, cioè di essere nella luce. Nessuno è al sicuro da questa erronea convinzione di vedere, perché spesso ci si ferma alla superficie, a ciò che ci fa comodo vedere, perché ci aggrada di più o ci inquieta di meno.
Il Signore però ci apre gli occhi in un modo tale da guardare più a fondo, da non fermarci all’apparenza (come rischia di fare Samuele quando è mandato ai figli di Iesse per ungere il nuovo re), ma da andare al cuore, come Dio, delle persone e delle situazioni, guardarle fino in fondo e cogliere alla luce di lui ciò che altrimenti non si vede. Per esempio, guardando il cieco nato o ogni male e sofferenza che colpisce gli uomini potremmo domandarci: chi ha commesso un male perché capiti questo? “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”.  Invece la fede investe il male di una nuova luce: “né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Il male, la sofferenza, anche la morte, agli occhi dei credenti esposti alla luce dell’amore di Dio diventano il luogo in cui Dio opera meraviglie, salva, rinnova, fa risorgere. Dio non vuole il male, né lo manda, né lo permette: lo combatte, piuttosto, e lo vince.
Nessuno si accorge della bellezza del mondo come uno che vede per la prima volta dopo anni di cecità. La fede ci dona la stessa possibilità: spalancare gli occhi su ciò che siamo, sul mondo così com’è, e contemplare la bellezza vivificante di Dio che caccia le tenebre creando continuamente la vita in noi e intorno a noi, sempre e comunque: epidemie e morte compresa. Solo sotto questa luce la morte in croce di Gesù si trasforma nell’esultanza della resurrezione.
Nella quaresima di quest’anno, in cui veniamo privati della vita ordinaria, delle relazioni, della sicurezza economica, della comunità ecclesiale e della celebrazione eucaristica, in cui tanti perdono le persone che amano, in questa quaresima in cui sentiamo la minaccia per la salute e per il lavoro, abbiamo l’occasione – se lasciamo che il Signore Gesù ci apra gli occhi – di vedere le opere di Dio, di scorgere lui nello scorrere del tempo, di andare al cuore di noi stessi e di tutto ciò che facciamo e scegliamo, per portare tutto alla luce e, finalmente, portare frutto in ogni bontà, giustizia e verità.

Siamo in una valle oscura (come la vita appare fin troppo spesso), ma non temiamo alcun male e non manchiamo di nulla, perché il Signore è con noi. La fede ci apre gli occhi e così ci fa sperare e rallegrare di fronte ad ogni avversità e se qualcuno ci dovesse chiedere perché speriamo in un uomo vissuto duemila anni fa e di fronte ad una chiesa a volte così affaticata e deludente (come noi siamo), dovremo solo rispondere: una cosa sola io so, prima ero cieco, ora ci vedo. Vedo che Dio apre gli occhi ai ciechi, preludio della vittoria pasquale sulla morte.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

13 - Mar - 2020

III Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

III Domenica di Quaresima (A)

(Es 17,3-7   Sal 94   Rm 5,1-2.5-8   Gv 4,5-42)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Non potendo celebrare l’eucaristia, forse in questa domenica possiamo fare esperienza di quanto la Parola di Dio ci possa nutrire: in famiglia, nelle comunità religiose o soli (se non si vive con nessuno): possiamo leggere ad alta voce questa parola di oggi, lasciare spazio al silenzio, alla meditazione e poi alla preghiera che segue sempre l’ascolto, magari cantare.

Le letture previste per questa domenica sono ricchissime: il tema dell’acqua (che nella seconda lettura è si ritrova nello Spirito, spesso simboleggiato dall’acqua) le attraversa, inoltre già il brano evangelico chiederebbe da solo mille puntualizzazioni diverse. Credo però sia inevitabile che queste letture suonino forte nel silenzio di questi giorni surreali e spaventati, in cui il mondo intero e il nostro paese in particolare appaiono minacciati da ciò che ha rivelato in un battibaleno tutta la fragilità della nostra vita e dei nostri sistemi sociali ed economici. Ascoltiamo questa parola a partire da qui allora.
La lettera ai Romani, bellissima, ci dichiara una speranza che non delude, perché già facciamo esperienza dell’amore di Dio che fa vivere, dello Spirito cioè che è stato riversato nei nostri cuori (come l’acqua che ricolma un recipiente). Non dobbiamo guadagnarci questo amore, c’è sempre stato, anche quando eravamo (e siamo!) peccatori, anche quando non conoscevamo (o quando non ci interessiamo) a questo amore. La fede, dice l’apostolo, ci fa stare saldi nella speranza della gloria di Dio. Eppure, forse, in questi giorni non ci sentiamo troppo saldi, somigliamo più ad Israele, così come ce lo racconta il libro dell’Esodo: abbiamo fatto le nostre fatiche, ci siamo messi sulla strada della vita e della fede e, alla fine dei conti, ci troviamo davanti ad un deserto senz’acqua. Ci lamentiamo e mettiamo alla prova Dio (lo tentiamo): sei in mezzo a noi, sì o no? Questo che stiamo affrontando, l’ennesima prova nel cammino, e stavolta così dura e minacciosa per tutti, è qualcosa che ci fa sentire Dio lontano? Dove è il suo amore e le sue opere?
Facilmente succede che oscilliamo fra la speranza che Dio sempre ci dona e questa mormorazione contro di lui, davanti alla quale però lui non sfugge, ma si ferma, come Gesù al pozzo. Siamo al pozzo anche noi, sotto la calura, cerchiamo un po’ d’acqua, come la donna samaritana che Giovanni mette di fronte a Gesù in questa pagina celeberrima. E con questa sete, con questa paura, con questo silenzio, sentiamo Gesù chiedere a noi: dammi da bere.
Non è il Dio che vuole preghiere e sacrifici per prendersi cura di noi, tutto ciò che esiste è spinto dal suo amore per condurre tutti alla pienezza della vita, non ha bisogno di essere convinto a fare il nostro bene: se preghiamo, preghiamo per ascoltarlo, per mettere davanti a lui il nostro cuore e per stringerci agli altri, non certo perché altrimenti lui non si cura di noi. Questo Signore non è il capriccioso dominatore degli eventi da tenere buono, è quello che ha sete insieme a noi: dammi da bere, così Gesù alla donna. Viene da scoraggiarsi: tu chiedi da bere a me? Sembra una presa in giro: abbiamo tutto questo bisogno e Dio chiede a noi?
Ma se noi conoscessimo il dono di lui e chi è che ci chiede da bere, avremmo già chiesto. Avremmo chiesto lo Spirito riversato nei cuori per sperare, per sostenere i nostri cari, per crescere nella responsabilità, per lavorare, per inventarci mille strategie per alleggerire chi fatica, ognuno a suo modo, per fronteggiare la sofferenza. Avremmo chiesto lo Spirito che già muove i medici e i sanitari generosi e impagabili, che asciuga le lacrime e sostiene il dolore di chi è nel lutto, che promette resurrezione a chi la perde la vita e che spinge i cuori di molti a pensare come fare del bene, come unirci, come amarci, come far vivere tutti. Avremmo chiesto anche noi questa acqua e con questa acqua avremmo dissetato Gesù presente in quelli che amiamo e in quelli che hanno paura o soffrono e che non possiamo toccare, forse, ma raggiungere sì.
Ma noi non rispondiamo così. Noi facciamo questioni: chi sei tu? Perché un Dio che ci vuole liberi e adulti, coinvolti, generosi, protagonisti, è molto scomodo. Meglio il Dio tappabuchi che ci può lasciare nella nostra irresponsabilità, che non ci chiede di domandarci come vivere al meglio queste tenebre e come migliorare il mondo dopo, come combattere con la stessa forza con cui proviamo a contrastare questa malattia ogni ingiustizia e ogni male. Ma Gesù ha pazienza e vuole insegnarci, come alla donna, a non porre attenzione solo alla sete di questo momento, ma a quella arsura profonda che tormenta il nostro cuore e di cui troppo spesso non ci accorgiamo. Esiste un’acqua che fa passare ogni sete.
Allora dammi quest’acqua: dice la donna (e noi con lei). Ma per averla bisogna andare a fondo, voler mettere la vita intera davanti a Dio (va a chiamare tuo marito! Non ho marito…), perché quest’acqua è Dio presente nel cuore, riversato in noi. E qui poco vale questionare di massimi sistemi, verità morali, questioni sociali o altro: è venuto il momento, faccia a faccia con Dio in questa quaresima così dura (le spighe già biondeggiano: è ora di raccogliere i frutti), per cominciare ad adorare Dio in Spirito e verità, non nelle parole e nei gesti rituali e nemmeno nella correttezza formale o morale, ma con una vita mossa solo dall’amore di lui, con un cuore riempito dallo Spirito e così capace di testimoniare che questo uomo mite che chiede da bere è il messia, una vita capace di far vedere a tutti che Dio è presente e che non c’è bisogno di metterlo alla prova.
Nostro cibo, come per Gesù, deve essere fare la volontà del Padre. Abbiamo tempo e silenzio in questi giorni: domandiamoci come cambiare noi stessi, la chiesa, la società e il mondo perché la volontà di Dio accada e tutti possano vivere. Siamo in quaresima, in questa quaresima così dura, magari è il tempo favorevole per convertici davvero. Il Signore è in mezzo a noi: l’acqua non mancherà.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

06 - Mar - 2020

II Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

II Domenica di Quaresima (A)

(Gen 12,1-4   Sal 32   2Tm 1,8-10   Mt 17,1-9)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La prima domenica di quaresima abbiamo notato il contrasto fra i mitici “progenitori” che divorano anche ciò che non avrebbero dovuto, incapaci di rispettare il proprio limite, e Gesù che sceglie di non mangiare, di non appropriarsi del potere di convincere nessuno né di governare su qualcuno. Gesù accoglie il proprio limite per ricevere la vita, ogni cosa e persino se stesso dal Padre e così vivere di questa relazione.

Nella prima lettura di questa domenica incontriamo Abram, nel momento in cui Dio lo invita a lasciare la sua terra, i suoi parenti e la casa di suo padre. Prima di questo momento Abram ha visto morire il padre e prima di lui il proprio fratello, inoltre Abram non ha figli e sua moglie è sterile. In poche parole la famiglia di Abram è segnata dalla morte. Quando però non si conosce un’altra logica, si può rimanere attaccati anche alla morte. In fondo questa è la mia terra, le mie relazioni, la mia storia. Meglio la morte – sembriamo spesso ragionare così – che perdere ciò che ci dà sicurezza, ciò su cui abbiamo investito e per cui abbiamo sofferto, ciò che è nostro. Si tratta di un altro modo di divorare – come quello di Adamo ed Eva – perché non si riesce ad accettare il proprio limite e il proprio fallimento per aprirsi a rinnovate possibilità di vita, preferendo accanirsi su ciò che porta solo morte ma che ormai abbiamo addentato. Dio, però, provoca Abramo e, con lui, provoca ciascuno di noi: lascia ciò che fino ad ora non ha portato vita e vai altrove perché Dio prepara per te una benedizione che ricadrà su molti.
Anche nel Vangelo si parla di un viaggio, breve e meno impegnativo, ma comunque decisivo. Gesù porta Pietro, Giacomo e Giovanni su un alto monte. Nel deserto è andato solo, ora porta i suoi, porta noi con sé. Vuole che vediamo qualcosa, che scopriamo una bellezza capace di farci abbandonare ogni morte, da farci desiderare di restare lì per sempre (facciamo tre tende), come gli innamorati della prima ora stregati dall’essersi incontrati e reciprocamente scelti. E davanti ai nostri occhi, per un po’, dopo aver lasciato ai piedi del monte le nostre sofferenze e i nostri fallimenti, le malattie, i virus, le minacce di violenza e di ingiustizia, le catastrofi ambientali o qualsiasi altra morte, lontani da tutto questo per qualche momento, Gesù si mostra a noi brillante come il sole e vestito di luce: bellissimo e splendente proprio per l’amore del Padre che lo avvolge. La promessa di vita fatta ad Abramo si compie in lui, anzi in lui prende carne, tanto che la possiamo guardare, ascoltare, vedere realizzata e allo stesso tempo rilanciata, perché in lui tutti gli uomini e le donne sono salvati e chiamati ad una vocazione santa (per usare le parole della seconda lettera a Timoteo).
La luce che fa risplendere lui raggiunge anche noi proprio quando riconosciamo nella vita e nella parola di lui ciò che Dio ama e in cui si compiace. Così vivendo come lui e con lui scopriamo che “egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo”. Questa è la notizia buona e lieta che abitandoci ci avvolge come una nube luminosa che rischiara le tenebre intorno a noi.
Come il viso dei bambini ci rivela subito se sono felici, se hanno in mente qualcosa, se stanno male o se hanno paura, così il volto di Cristo rivela la bellezza dell’amore che c’è fra lui e il Padre, nel quale ciascuno di noi è invitato ad entrare. Infatti Gesù è stato dato a noi (ascoltatelo!), proprio perché potessimo entrare in questo amore illimitato che ci fa luminosi, capaci di abbandonare la morte o il peccato, per aspettare dal Padre ogni benedizione e sperare persino nella resurrezione.
Col salmista invochiamo allora l’amore del Signore perché ci avvolga come una nube, facendoci vivere come figli suoi, amati, custoditi e in cammino verso una vita tale da non potersi nemmeno immaginare.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

28 - Feb - 2020

I Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

I Domenica di Quaresima (A)

(Gen 2,7-9; 3,1-7   Sal 50   Rm 5,12-19   Mt 4,1-11)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La seconda lettura, tratta dal celeberrimo capitolo quinto della lettera ai Romani, mette a confronto due esseri umani che hanno vissuto la propria umanità in modo opposto: da una parte Cristo e dall’altra Adamo, ovvero ciascuno di noi, perché i racconti della Genesi non parlano di una persona storica ma svelano le dinamiche profonde che segnano la vita di ciascuno/a. Paolo dice che alla caduta di Adamo è legata la morte di tutti, mentre dall’obbedienza di Cristo è venuta la vita per tutti. Pur senza addentrarci nelle complesse dottrine che stanno dietro questo brano dell’apostolo, comprendiamo però con chiarezza che c’è un modo di vivere (il nostro) che semina morte e c’è un modo di vivere (quello di Cristo) che dona vita a tutti. Quale sia la differenza fra i due ci viene illustrato nel brano della Genesi (prima lettura) e nel Vangelo, che ora mettiamo a confronto.

In entrambi i testi si ha a che fare con il cibo. L’essere umano è stato plasmato dal suolo bagnato dall’acqua, è stato posto in un giardino per coltivarlo e custodirlo, gli è stato chiesto di dare il nome agli animali (ovvero di usare la parola proprio come Dio per ordinare il mondo) e gli è stato dato in cibo ogni erba verde: l’essere umano non mangia gli animali, dunque, ponendo un limite al proprio potere, e, per espresso ordine di Dio, non può mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dio, che ha creato tutto, limitando il proprio potere e se stesso per fare spazio ad altro da sé, chiede all’essere umano di diventare come lui (a sua immagine e somiglianza), limitando se stesso per fare spazio ad altri esseri viventi. E un limite è anche quello dato al mangiare dell’essere umano: c’è un albero che non può essere mangiato. Adamo ed Eva non possono restare bambini (nudi nel giardino senza distinguere il bene dal male), ma il loro cammino verso la vita adulta e responsabile non dovrebbe passare per la bramosia di divorare mangiando tutto quello che trovano, come se questo potesse garantirgli la vita senza aver più bisogno di Dio. Nel loro atteggiamento riconosciamo immediatamente il nostro mondo: divoratore di risorse, di natura, di aria, di acqua, di esseri viventi e di persone. Gli esseri umani, senza onorare il limite che gli permette di essere come Dio, miti e vivificanti, divorano e distruggono, fino a distruggere se stessi.
Nel Vangelo, all’estremo opposto, troviamo Gesù che digiuna per quaranta giorni e sta nella fame, in mezzo al deserto, avvinto dalla debolezza e dalla solitudine, che sempre ci fanno perdere sicurezza e identità. In questo momento, posto di fronte al proprio limite, viene tentato: perché non vincere il limite e finalmente saziarsi? Perché non cominciare i miracoli procurandosi il pane che poi avrebbe usato per sfamare le folle? Perché non operare qualche spettacolare prodigio davanti agli occhi di tutti, per dimostrare senza ombra di dubbio che Dio è con lui, in modo che tutti credano? Perché non farsi fare re di tutta la terra, in modo da instaurare la giustizia e la pace? Perché non fare tutte queste cose, desiderabili e buone come il frutto che la donna vede appeso all’albero?
Gesù sa che la bramosia, che fa dimenticare il proprio limite, è dannosa anche quando si volge a cose buone (anzi sempre si volge a cose buone: persone, benessere, ricchezze, beni, riposo, salute…) e quindi non la asseconda. Egli sa bene che la via che conduce alla vita è quella che chiede di accettare la fame, il fallimento e l’impotenza, perché solo così si stringono relazioni che non rapinano e non distruggono, ma curano e fanno crescere. L’accoglienza del limite infatti porta con sé il bisogno costitutivo di relazionarsi con Dio e con gli altri: ci serve ogni parola che Dio dice, non vogliamo tentarlo perché se si incrina la fiducia con lui non possiamo vivere, non vogliamo onorare nessun altro, perché lui solo ci custodisce. E stando in questa relazione con Dio, viviamo e facciamo vivere.
Il nostro limite va riconosciuto, dunque, come un dono capace di farci accedere alla vita condivisa con Dio, con gli altri e con il creato: per questo Gesù lo onora fin dall’inizio e lo vivrà fino al paradosso della croce dove fame, fallimento e impotenza saranno portate all’estremo. Cominciamo la quaresima nel deserto, allora, posti di fronte alla nostra fragilità (basta un virus o l’assenza della pioggia a far crollare tutto il nostro sistema), benedicendo Dio per ogni parola che dice, certi che non abbiamo bisogno di metterlo alla prova ma solo di onorarlo per la vita che sempre rinnova per noi e per tutti.
 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani
23 - Feb - 2020

Mercoledì delle ceneri

Mercoledì delle ceneri

Mercoledì delle ceneri

(Gl 2,12-18   Sal 50   2Cor 5,20-6,2   Mt 6,1-6.16-18)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Neanche a farlo apposta, il Vangelo del mercoledì delle ceneri riprende da dove abbiamo lasciato domenica scorsa: così cambia il tempo liturgico (entriamo in quaresima) ma continuiamo a leggere ciò che stavamo meditando.

E notiamo così che, come tutti quelli che amano, Dio non è interessato ai gesti esteriori se a questi non corrisponde il cuore, l’interiorità profonda della persona. Si può vivere un matrimonio formalmente corretto, senza azioni contrarie ad esso, ma senza amare, invalidandolo. Si può essere ministri di Dio, facendo tutto ciò che si deve fare, senza amare la porzione di popolo che si deve servire e quindi senza vivere il proprio ministero. Si può fare qualunque cosa (anche religiosa o ecclesiale, o comunque buona) solo per se stessi, per sentirsi bravi, per sentirsi ammirati dagli uomini, per un benessere psichico o sociale: per stare bene, contenti di sé. A Dio tutto questo, anche fosse fatto di opere di carità e preghiere, non interessa.

Per questo ogni anno, tutta la chiesa celebra un tempo che è sacramento della conversione, perché la vita cristiana non consiste nel compiere gesti corretti o nell’impegnarsi in ciò che si fa (queste cose possono darsi come accessorie), ma consiste piuttosto nel consegnare il proprio cuore a Dio e quindi al prossimo. Il punto è che questa consegna non è mai definitiva, non è mai abbastanza, perché più amiamo Dio e gli altri, più ci accorgiamo della pochezza del nostro amore. Da qui – dall’accorgerci di non amare Dio e gli altri come meritano – viene il dolore cui Dio ci invita nella prima lettura di questo giorno solenne: cosa ci fa lacerare il cuore, piangere e lamentare, se non il prendere coscienza di non corrispondere all’amore di chi ci ama o di chi ci è affidato? Se ci lamentassimo per la nostra imperfezione, se il peccato ci ferisse perché ci umilia e non per il male fatto all’altro, questo pianto non avrebbe alcun valore.
Piangere il peccato porta frutto dentro una relazione in cui vogliamo consegnare a Dio il cuore, dove soffriamo la rottura dell’amicizia con lui e con i fratelli e, così, sofferenti per i legami spezzati non avremo bisogno di farci supplicare troppo a lungo per riconciliarci con Dio.
In questo giorno, brutalmente, come un innamorato sfinito dai tradimenti, il Signore viene a chiederci dove sta il nostro cuore, perché lui non si accontenta di niente di meno. Da dove viene la giustizia che pratichiamo? Dal bisogno di essere ammirati? Dall’abitudine? Dalla paura? Oppure viene dall’amore per cui ci è intollerabile non agire secondo il sentire di Dio? E le opere di carità che facciamo sono un vanto per noi? Ci vantiamo di avere una vita moralmente migliore di altri? Oppure queste opere vengono dalla tenerezza verso la sofferenza altrui, intuendo le contrazioni del grembo di Dio appassionato per i suoi figli? Se così fosse, non solo non le sbandiereremmo, ma ci sembrerebbero ben poca cosa, impossibilitati come siamo ad alleviare tanta sofferenza e tanta ingiustizia.
La preghiera, poi, nasce dal bisogno di ascoltare chi amiamo e di sentirci dire l’amore, o è un’abitudine, un modo per rassicurarci, o – nei confronti degli altri – uno scaricarci la coscienza se non, addirittura, un’ostentazione? E lo stesso vale per il digiuno: privarsi di ciò che serve per vivere può essere un’esaltazione narcisistica di sé, perché ci si sente forti, capaci di vivere senza cibo o affetti o altro. Ma non è questo il digiuno che Dio cerca, perché non nasce dall’amore. Il digiuno che lui ci insegna è quello di cui gli altri non si accorgono (per cui non possono nutrire il nostro ego con la loro ammirazione) e che facciamo non per sentirci autonomi e forti (autocompiacendoci), ma – al contrario – per ricordare a noi stessi che senza Dio e il prossimo non viviamo, perché l’amore e le relazioni sono il cibo che ci sostiene. Come ci sentiamo deboli e malinconici quando non mangiamo (così dovremmo sentirci interiormente senza darlo a vedere), così dovremmo sentirci senza l’amore di Dio e del prossimo: il digiuno serve a sentire nel corpo che non viviamo senza Dio perché il nostro primo bisogno è Dio stesso.
Approfittiamo della quaresima per porre il cuore davanti a Dio, dunque, così come è, nella ricerca ossessiva non di fare cose buone, né di essere migliori degli altri, né di piangere le nostre imperfezioni, ma di consegnare a Dio ciò che siamo e lasciare che lui, riconciliandoci a sé, ci plasmi nella sua amicizia nel segreto del cuore: là dove si gioca ogni amore

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

21 - Feb - 2020

VII Domenica del T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

VII Domenica T.O. (A)

(Lv 19,1-2.17-18   Sal 102   1Cor 3,16-23)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La sapienza di Dio non è paragonabile a quella umana: di fronte alla prima quest’ultima, incapace di reggere il confronto, appare come una stoltezza. Così Paolo nella prima lettera ai Corinzi. E in questa domenica, continuando la lettura del discorso della montagna riportato da Matteo, ci viene illustrata di nuovo la sapienza di Dio riguardo l’amore.

Ad una lettura troppo veloce di questa pagina di Vangelo, potrebbe sembrare che amare chi ci ama sia più facile che amare i nemici e che questa ultima forma di amore sia quella più alta, in quanto si amerebbe senza avere nulla in cambio. Ma l’ultima frase del brano può aiutarci a dare una lettura altra: siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste. Dobbiamo chiederci dunque come ama il Padre, se vogliamo davvero capire cosa sta dicendo Gesù. Il Padre certamente fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi (e quindi non ripaga gli uomini in base a quanto lo amano), ma, altrettanto certamente, è anche colui che vuole essere riamato: l’amore che riversa su di noi è gratuito, ma è dato per essere accolto come un dono e ricambiato.
Dio vuole che l’amiamo e così è evidente che solo l’amore ricambiato è quello veramente perfetto. Se questa è la natura dell’amore, non si può permettere a chi amiamo, benché resti libero di non ricambiare, di non rispettarci, per il valore che abbiamo davanti a Dio (non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? ci ricorda la prima lettera ai corinzi) e per la natura stessa dell’amore. Una relazione vissuta lasciandosi umiliare, infatti, non sarebbe amore, perché l’amore chiede la reciprocità: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Anche Dio fa così con noi, già nei comandamenti. Nella prima lettura, tratta dal Levitico, per esempio, vediamo come Dio chiede agli israeliti di corrispondere al suo amore imitando il suo stile: santi come lui, incapaci di serbare rancore e amorevoli, come lui. Non ama disinteressandosi di come viene amato. Tutto il contrario: mostrando l’ampiezza della sua misericordia e l’abbondanza della sua guarigione, aspetta la lode gioiosa dell’essere umano, perché l’amore si compia e il dono giunga a buon fine.
Accade però che l’altro non ci ami, che sia nemico. In questo caso la sapienza degli uomini – ci ricorda Gesù – porterebbe a trattare l’altro come lui tratta noi, da nemico dunque, altre volte porterebbe a fare qualunque cosa pur di compiacere l’altro per renderlo benevolo fino ad umiliarsi, ma in nessuno dei due casi si vive secondo il cuore generoso e amante di Dio. Quindi, che fare?
L’unica possibilità che è data nella relazione col nemico è non opporsi al male, cioè non rispondere a questo con altro male. Fare tutto il bene possibile, beneficare, pregare, lasciarsi prendere ciò che si ha. L’altro non capirà il bene ricevuto, non amerà, ma almeno saremo riusciti (e questo è l’essenziale per chi ama) a fargli del bene, a portargli vita. Per tale motivo non si restituisce lo schiaffo preso: per non fare del male all’altro e per non offenderlo. Per questo ci si lascia prendere qualcosa di nostro (anzi si è contenti di aggiungere ciò cui il nemico non aveva pensato): perché l’altro goda di questo bene. Per questo si fa la strada che l’altro vuole (e anche di più): perché non resti solo.
Non è ancora la pienezza dell’amore, con i nemici non ci è data, perché non c’è reciprocità, ma è comunque amore e si può misurare sul bene fatto all’altro, sulla vita che ne riceve. Così si consola Dio nei nostri confronti, quando non riesce ad avere il nostro amore e a godersi la nostra amicizia, almeno può farci il bene, far sorgere il sole e far piovere. Può sempre darci vita e continua a farlo, sperando che ci salgano alle labbra le parole del salmista:  Benedici il Signore anima mia, quanto è in me benedica il suo nome santo. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici!
 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani
14 - Feb - 2020

VI Domenica T.O.(A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

VI Domenica T.O. (A)

(Sir 15,16-21   Sal 118   1Cor 2,6-10   Mt 5,17-37)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Scorrendo il brano della prima lettera ai Corinzi, leggiamo che la sapienza di Dio è nascosta. Non si mostra platealmente come la sapienza dei dominatori di questo mondo, ma segretamente viene rivelata a coloro che credono. Lo Spirito, infatti, che conosce le profondità di Dio, viene donato ai credenti, che così conoscono (senza nemmeno sapere come) quelle cose che mai erano entrate nel cuore dell’uomo, quelle che nessuno aveva udito e visto.

Lo Spirito però non solo ci svela ciò che abita il cuore di Dio, ma ci spinge anche ad amarlo, a sceglierlo per avere la vita, riponendo la fiducia in ciò che Dio vuole (così si esprime la prima lettura tratta dal Siracide). Per questo il salmista ci invita a chiedere che Dio ci apra gli occhi per accorgerci della bellezza della legge, che ci dia di comprendere quale sia la sua via e che ci infonda l’intelligenza necessaria a custodirla.
E Gesù, in questo lungo e famoso discorso detto “della montagna” (il primo dei cinque del Vangelo di Matteo), colmato dallo Spirito di Dio, ci mostra proprio ciò che a Dio piace commentando la legge di Israele, e non come qualcosa di passato o di provvisorio, ma come una meraviglia tale da meritare di essere portata alle estreme conseguenze: non basta osservarla – non basta cioè una giustizia o una rettitudine in cui ci si può dire corretti – ma bisogna amarla così tanto, desiderarla così tanto, da spingerla oltre se stessa. Poiché la legge infatti è dominata dalla logica dell’amore (e chi ama sa che non ci si può mai sentire soddisfatti), è la legge stessa a spingere oltre, perché il desiderio e il bene dell’altro ci trovano sempre mancanti.
Così, nell’esporre le esigenze dell’amore, Gesù ci insegna che non solo l’altro non si può uccidere, ma che l’amore non tollera nemmeno di offendere o disprezzare, né sopporta alcuna divisione: se qualcuno che amiamo, infatti, ha qualcosa contro di noi, persino portare doni a Dio dovrebbe apparirci privo di significato (va prima a riconciliarti col tuo fratello).
L’amore può chiederci, inoltre, di perdere qualcosa di noi, persino una parte del corpo (dice paradossalmente Gesù), se questa ci fosse di scandalo, cioè ci bloccasse impedendoci di amare. Tale affermazione è incorniciata dal detto sull’adulterio e da quello sul ripudio, ovvero da due indicazioni riguardanti l’amore dell’uomo verso la donna (ai tempi di Gesù la relazione non era reciproca). E Gesù spiega che è da considerarsi un adulterio anche un desiderio non attuato, perché anche se non si lede il diritto del marito – come accadeva con l’adulterio secondo la mentalità del tempo – si lede comunque la dignità della donna e anch’essa va amata. Sul ripudio invece Gesù sottolinea che non si può ripudiare la moglie perché la si espone ad adulterio, la si getta cioè in una condizione di debolezza, di menzogna e di sofferenza e questo non è tollerato dall’amore. Non si tratta di difendere il valore dell’indissolubilità del matrimonio, ma di custodire l’altra (perché più debole in questa situazione), di fare il suo bene. Rispettare le regole non basta dunque, bisogna desiderare che l’altro viva. Infine l’amore – continua Gesù – chiede di non giurare, di non arrogarsi il possesso della verità, ma di lasciare piuttosto a Dio ogni parola definitiva, per poter in tutta mitezza offrire agli altri la semplicità di ciò che si è e si comprende, senza alcuna pretesa (sia il vostro parlare “sì sì” “no no”).
La sapienza di Dio, forte e potente che scruta ogni cosa, ci è stata dunque rivelata. Il segreto di Dio, cioè la sua passione indomabile per ogni uomo e ogni donna, è stata rivelata ai piccoli. E lo Spirito di lui che ci abita ci spinge come spinge lui stesso ad amare oltre ogni limite, con una giustizia incapace di accontentarsi di ciò che è secondo le regole, perché l’amore non ha altra misura che dare vita a chi si ama.
 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani