XXIII Domenica T.O. (A)

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04 - Set - 2020
Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXIII Domenica T.O. (A)

(Ez 33,1.7-9   Sal 94   Rm 13,8-10   Mt 18,15-20)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Questa domenica (purtroppo cominciando dalla metà) leggiamo il quarto discorso del Vangelo di Matteo, dedicato alle relazioni che si danno fra i credenti. Al cuore di questo discorso leggiamo “dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”, come a dire che le relazioni vissute nel nome di Gesù, cioè secondo la sua logica, sono capaci di renderlo presente.

Per capire quale sia questa logica il brano ci parla delle situazioni di conflitto, quando qualcuno pecca contro di noi. In questo caso (similmente a quanto si legge nella prima lettura secondo la quale è nostra responsabilità andare dal malvagio ad avvisarlo che sta facendo il male) ciò che muove coloro che si riuniscono nel nome di Gesù non è la vendetta, né la difesa di se stessi, né l’allontanamento del male, ma ciò che muove i discepoli è fare di tutto perché l’altro non si perda.

Per questo quando un altro mi fa del male, mentre soffro il male subito, soffro anche per l’altro (perché ha fatto il male e perché questo male ci allontana) e, poiché non voglio perderlo né che si perda, lo vado ad ammonire. Sappiamo, però, che spesso le parole non vengono ascoltate. Il salmo grida lo sconforto di tante parole di Dio cadute nel vuoto: se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore! C’è da aspettarsi allora che la correzione di chi pecca contro di noi fallirà, ma non bisogna arrendersi. Il Vangelo (ricalcando alcune prassi ebraiche) suggerisce di cercare qualcun altro che si unisca a noi e renda il nostro richiamo più convincente per chi ci ha fatto del male. E se anche questo non bastasse, suggerisce di chiamare tutta la comunità, rendere pubblico il dolore e la vergogna (nostra e altrui) pur di aiutare l’altro e di riguadagnarlo nella relazione, perché solo il riconoscimento del male fatto e il perdono possono sciogliere chi ha fatto il male e chi l’ha subito dal laccio che quanto accaduto ha stretto intorno a loro, impedendo la relazione. Se poi anche il coinvolgimento della comunità dovesse risultare inutile, allora occorre allontanare chi pecca, ma solo per poterlo cercare di nuovo (come Gesù faceva con i pubblicani), accordandosi con gli altri nella preghiera perché Dio ci restituisca il fratello che abbiamo perduto (abbiamo allontanato lui ma non il desiderio che ci venga restituito).
Perché una tale ossessione nel cercare chi fa il male, nel non volerlo perdere, nel voler recuperare l’intimità e l’unità? Così fa Dio, così ha fatto Gesù, così deve fare la chiesa se vuole renderlo presente. Ma perché?
Perché (e qui prendiamo spunto dalla seconda lettura) l’unico debito sensato da avere con l’altro è l’amore. Un amore vicendevole (perché ciascuno di noi è ora vittima e ora carnefice) che si misura sul bene concreto che facciamo agli altri (non sulla correttezza dei nostri comportamenti, che l’osservanza di regole e comandamenti ci può garantire, ma sulla vita che diamo a quelli che diciamo di amare) e sul desiderio che abbiamo di loro. L’amore è vedere la bellezza di qualcuno e per questa bellezza volere che viva e che condivida con noi il suo cammino. Chi ama desidera l’altro e il bene dell’altro e per questo si fa piccolo di fronte all’amato, bisognoso e umile, al punto che se quello pecca contro di lui, prende l’iniziativa per correggerlo, non per rimproverare o insegnare, ma solo per non perdere l’altro e ritrovare quell’accordo fra fratelli che solo è capace di rendere presente il Signore Risorto. Vivendo così si realizza quello stesso amore che Dio ha per ciascuno, un amore che contempla sempre la bellezza dell’amato e di fronte ad ogni rottura chiede il riconoscimento della colpa solo per ritrovare l’accordo e l’intimità. Alla nostra capacità di vivere secondo questa logica è consegnata la possibilità per gli esseri umani di vedere come Dio li ama, proprio dentro il concreto, ferito, umanissimo amore di chi non si rassegna a perdere il proprio fratello.
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