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17 - Ago - 2019

XX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIX Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nel Vangelo di oggi, che riprende pochi versetti più avanti il capitolo dodicesimo di Luca che stiamo leggendo da qualche domenica e che contiene una serie di insegnamenti per i discepoli, ascoltiamo una parola che sulle labbra di Gesù non ci aspetteremmo mai, perché parla di divisione. Gesù pone una domanda: pensate che sia venuto a portare la pace sulla terra? Noi risponderemmo sì o almeno vorremmo rispondere di sì e invece lui dichiara che proprio per ciò che lui porta tutti si divideranno: non conteranno più nemmeno i legami familiari, il Vangelo sarà motivo di divisione comunque.

Si tratta di una parola inquietante, che continua l’insegnamento sulla fede che abbiamo già visto nelle domeniche passate. La fede, infatti, determina una tale ridefinizione della persona che chi diventa credente è immediatamente individuabile e si distingue dagli altri, non certo perché li disprezzi o se ne separi (al contrario), ma perché ciò che lo guida è il Vangelo, l’amore di Dio e del prossimo e niente altro. Le logiche usuali – relazioni familiari, interessi economici, benessere fisico, influenze politiche, sociali o quant’altro – non sono più criteri di riferimento, al contrario tutto viene ridefinito alla luce del Vangelo che diventa l’unico criterio da seguire e questo fa una differenza decisiva.

Ora, la differenza può arrivare a dividere o persino portare guerra o persecuzione come accade a Geremia nella prima lettura. Geremia non può dire ciò che fa contento il popolo e i capi, perché è spinto solo dal desiderio di servire Dio e la sua parola, ma questo gli costa la libertà e mette a rischio la sua vita, fino a che Dio, tramite un uomo, lo libera. Se Geremia avesse agito spinto dall’istinto di preservarsi o dalla volontà di farsi accettare e onorare dal popolo, non sarebbe stato separato dagli altri e imprigionato, ma il fuoco che lo abita – quel fuoco che Gesù desidera vedere acceso – gli impedisce di comportarsi in modo da tutelare se stesso, brucia invece dal desiderio di dire e vivere la parola di Dio. Al capitolo 20 del libro di Geremia così viene descritto l’animo del profeta: “La parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo”(Ger 20,8-9). Questo fuoco, l’amore di Dio in noi che ci spinge, non può essere trattenuto e stravolge tutte le logiche umane che ripongono speranze e cercano vita altrove.
Come si fa a vivere tutto questo, quando vediamo che concretamente ci danneggia? Se vivere la fede ci dovesse impoverire, togliere tempo per il riposo e per la salute, oppure farci perdere occasioni sociali o affetti? Quando la lotta si fa dura, quando sentiamo la fatica della vita e anche del nostro peccato che ci fa scoraggiare di fronte all’impresa (perché ci dice che non siamo in grado di vivere il Vangelo e che quindi non è per noi), possiamo ricordare, come leggiamo nella seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei, che non siamo soli in questa impresa, perché intorno a noi c’è un popolo di testimoni, molti che hanno vissuto spinti solo dall’amore di Dio e del prossimo, molti che ci confermano che è possibile e che questo porta alla vita. Non corriamo soli dunque, ma siamo trascinati da una folla e in questa situazione è più difficile stare fermi che camminare. Inoltre abbiamo davanti agli occhi Gesù, su cui tenere fisso lo sguardo. La sua vicenda, come quella di Geremia nella cisterna, ci dice che Dio libera e salva e che la fatica che ci minaccia non può danneggiarci.
Si tratta allora di lasciarsi prendere dall’amore del Padre, per  vivere, come Gesù, totalmente consegnati ad esso. E se questo dovesse costarci molto o ci toccasse resistere fino al sangue, non ci scoraggeremo: quelli cui dobbiamo mostrare l’amore del Padre ci interessano di più, per cui lasceremo ardere il fuoco che il Vangelo ci ha acceso dentro e questo ci condurrà alla vita.
13 - Ago - 2019

Festa di Maria Assunta in cielo

Dal Piccolo Eremo delle Querce Caulonia (RC)

Dal Piccolo Eremo delle Querce Caulonia (RC)

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Festa di Maria Assunta in Cielo

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Uno degli errori più comuni che facciamo nelle feste mariane è pensare che ciò che celebriamo non ci riguardi: ammiriamo ciò che è accaduto a Maria, ma non pensiamo ci riguardi perché noi viviamo tutta un’altra storia da quella di lei. Guardiamo così a Maria come si guarda ad una diva del cinema con cui poco abbiamo da spartire: rischiamo persino di sentirla distante. Ogni festa mariana, invece, anche questa, celebra il mistero della salvezza che Dio compie in noi come in lei: benedetta fra le donne (e fra gli uomini), non benedetta lei sola.
Il Vangelo bellissimo – e troppo ricco di particolari per essere commentato adeguatamente – vede questa ragazzina incinta ergersi come profetessa e cantare la venuta di Dio, capace di rovesciare le sorti del mondo. Quelli che vengono sempre schiacciati verranno alzati e quelli che si innalzano verranno abbassati, così che tutti potranno guardarsi negli occhi e vivere da fratelli e sorelle; chi non mangia sarà saziato e i ricchi avranno le mani vuote, perché dopo aver mangiato non terranno per sé ma condivideranno, sconfiggendo così la fame e la miseria.
Maria profetizza il rovesciamento di quel destino che riteniamo ineluttabile, perché in fondo pensiamo che la sofferenza e l’ingiustizia siano ineliminabili. Questa profezia ora espressa nelle sue parole poi sarà scritta alla fine della sua vita sul corpo di lei, nel quale sarà evidente il rovesciamento del più ineluttabile dei destini: la morte. Infatti Maria, concluso il suo cammino terreno, entra nella vita di Dio senza che la morte sia per lei quel dramma che tutti conosciamo troppo bene. Sappiamo così che la morte non è irrimediabile (nemmeno è necessaria perché forse Maria non è neppure morta ma è passata da un vita all’altra) e che il destino ineluttabile che ci attende è la resurrezione, perché – come leggiamo nella prima lettera ai Corinzi – se tutti muoiono in Adamo (cioè tutti quelli che vivono la condizione umana muoiono), tutti riceveranno la vita in Cristo. La sorte di tutti viene rovesciata: non siamo destinati alla morte, ma alla vita. Tutto questo accade prima a Cristo, poi a quelli che sono di Cristo, ma fra questi accade per prima a Maria, perché lei è “la prima e la più perfetta discepola di Cristo”(Paolo VI).
Le accade ciò che è accaduto a Cristo e che accadrà a noi. Ci aspetta come una sorella maggiore. Aspetta noi che siamo ancora nel travaglio del parto, immagine con la quale la prima lettura tratta dall’Apocalisse descrive la lotta che la chiesa vive nella storia. Maria ha lottato contro il male e ha vinto persino la morte, forte della vicinanza di Dio. La chiesa invece ancora soffre nel travaglio, ma sa che la vittoria è certa. Lo sa in Cristo e lo contempla in Maria, la prima dei credenti in cui la salvezza di Dio si compie.
Mentre travagliamo allora, possiamo alzare gli occhi su questa sorella che ha già attraversato quanto ancora ci spaventa: lei è la prova che Dio è più forte della morte. Quando le donne non partorivano in ospedale (e ancora oggi nei tanti luoghi del mondo dove non c’è assistenza medica al parto), si affiancavano ad esse in questo momento terribile, che troppo spesso portava alla morte, altre donne esperte, donne che avevano partorito e avevano fatto partorire. In questo modo ogni volta che una donna in travaglio pensava di aver perso, di non riuscire più ad andare avanti, di non avere le forze, la presenza di quelle che avevano già vinto questa lotta la sosteneva, le ricordava che poteva vincere. Esse erano l’anticipo dell’esultanza finale, la prova che la morte non vincerà, anche quando nemmeno il fiato non esce più: loro sanno cosa succede dopo, sanno che questi dolori non sono l’ultima parola. Sono donne che incoraggiano le altre a fare la loro parte, non si possono sostituire a loro, ma possono dare la speranza che serve per non lasciarsi sconfiggere. Così fa Maria con ciascuno e con la chiesa intera: si fa prossima, ostetrica coraggiosa nel nostro travaglio, per ricordarci che siamo per la strada giusta, per spingerci a fare la nostra parte con coraggio, per annunciarci che stiamo solo aspettando che Dio metta tutti i nemici sotto i suoi piedi.
Questa è la festa della prima delle discepole che gode di questa vittoria, la prima di una grande schiera: la nostra.
10 - Ago - 2019

XIX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIX Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

La seconda lettura di questa domenica (tratta dalla lettera agli Ebrei) ci può aiutare a riprendere quanto la Parola di Dio ci ha detto nelle ultime settimane per permetterci di comprendere come essere credenti cambia concretamente la nostra vita: il modo in cui guardiamo la realtà, i nostri giudizi e i nostri gusti, le scelte e le azioni. Nell’insegnamento di Gesù sulla preghiera abbiamo colto la possibilità di vivere davanti al Padre attendendo il dono dello Spirito che invadendoci può farci vivere da figli, mentre nell’insegnamento sul denaro abbiamo compreso come usare dei beni della terra (ogni tipo di beni) in modo saggio: come strumenti, cioè, per costruire vita condividendo senza sciocche pretese di accumulare, come se questo potesse salvare la nostra vita.

Il brano della lettera agli Ebrei proclamato in questa domenica torna proprio sulla fede e ci porta l’esempio di uomini e donne che hanno vissuto, desiderato, scelto solo sulla base della loro fede e così hanno generato vita, anche se non hanno visto il frutto delle promesse che erano state fatte loro. Non vedevano il frutto, ma sperandolo per la fede e vivendo di conseguenza, è stato come se godessero già di ciò che ancora non c’era. Sarebbe come se una giovane coppia in difficoltà perché senza lavoro, ricevesse la promessa di una occupazione e quindi di uno stipendio e cominciasse allora a regolare scelte e azioni sulla base della nuova condizione, non ancora in atto, ma già operante nelle loro vite, perché capace di cambiarne la prospettiva.

La promessa che ciascuno di noi ha ricevuto, non ancora in atto, ma già operante, è la pienezza della vita: la beatitudine di incontrare Dio e di entrare nel Regno.

Come questa promessa di cui ancora non vediamo i frutti, perché sperimentiamo la sofferenza, il fallimento e il peccato, può cambiare la nostra vita? Come si può vivere agendo come se avessimo già quanto ci è promesso? Prendendo consapevolezza di non attraversare il tempo allo sbaraglio, ma come un popolo in attesa (così la prima lettura) che attende l’aiuto del Signore che nutre in tempo di fame e libera dalla morte (salmo 32).
Il nostro tempo, le nostre giornate non sono un semplice susseguirsi di momenti o di occasioni, sono un’attesa. Hanno dunque una direzione e sono riempite di significato dalla promessa di chi ci ha detto di aspettarlo. Pensate come cambia la nostra prospettiva se siamo alla stazione per salire soli sul solito treno o se stiamo aspettando chi amiamo e che magari non vediamo da molto: se la noia o la fretta caratterizzano il tempo di chi ha molto da fare ma non aspetta nulla, la gioia, il desiderio, la nostalgia, l’impegno invadono le giornate di chi attende qualcuno che ama.
Come si fa, allora, a non stare pronti? Come si fa ad addormentarsi, eccitati dall’imminente arrivo di chi ci dona la vita e se stesso?
Il peggio che potremmo fare è – magari proprio noi che celebriamo tutte le domeniche o abbiamo ricevuto tanti doni e tante responsabilità – dimenticarci chi stiamo aspettando e vivere il tempo e ciò che Dio ci affida come un’occasione per accaparrare e spadroneggiare. Davvero sarebbe un buttare via la vita, che invece va vissuta nell’eccitata attesa di Dio che si fa presente ogni volta che il Regno viene: nell’amore, nella condivisione, nel perdono, nella Parola, nella pace, nella consolazione e nella morte. Questa sigillerà ciò che avremo vissuto e, forse, se avremo atteso davvero non sarà più un dramma che ci strappa alla vita, ma l’ultimo sospiro appagato di chi entra per sempre nel grembo del Dio vivente.
03 - Ago - 2019

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

C’è un modo saggio e un modo stolto di vivere. In entrambi i casi quello che le persone cercano, ciò che ciascuno di noi cerca, è avere vita in abbondanza, la differenza sta però in ciò che scegliamo come fonte di vita. La saggezza sta proprio nel saper distinguere ciò che dona la vita da ciò che la promette solamente o che la dona in modo del tutto provvisorio e ingannevole. Nel libro del Qoelet tutte le cose “sotto il sole” vengono descritte come vane e dichiarate come inconsistenti. Per quanto belle e gradevoli, sono come un soffio, qualcosa che non dura, su cui non si può costruire in modo solido. “Sotto il sole”, ripete Qoelet, tutto è vano, niente procura vita davvero. Non è sotto il sole che si deve cercare, quindi, ma nei cieli, come invita a fare la lettera ai Colossesi. Non nel senso di estraniarsi dalla realtà per rifugiarsi in chissà quale spiritualismo alienante, ma nel senso di guardare le cose della terra dalla giusta prospettiva, con la sapienza che ci viene dalla fede (una prospettiva dall’alto perché guarda il mondo a partire dalla consapevolezza dell’amore di Dio) e che ci fa riconoscere che cosa ci dà vita. L’uomo nuovo, il credente, non si fa ingannare dalla cupidigia che arraffando e violando pensa di salvarsi dalla morte, ma rinnova la propria mente e si riveste della novità del Vangelo che riconosce solo nell’Amore del Padre la fonte di ogni vita.

È saggio dunque chi pensa che questo amore sia il tesoro da accumulare: non soldi o beni che non durano né garantiscono la vita piena, ma l’amore del Padre. Questo tesoro di amore si accumula condividendo ogni bene che si possieda, vivendo non per sé, ma per chi si ama, proprio come fa Dio. Chi ha questa saggezza non si lascia ingannare nel perdere tempo, progetti ed energie per ciò che non dura, darà ad ogni cosa il giusto valore e il giusto peso, riconoscendo spessore e consistenza solo all’Amore del Padre e del prossimo. Solo questo porteremo sempre con noi, in questa vita e nell’altra.
Da questa prospettiva potremo dare il giusto peso ad ogni bene, non riponendo in esso le nostre speranze, quanto piuttosto vedendolo come uno strumento utile a favorire la vita nostra e di tutti. Non riporremo così speranze in ciò che non può salvare, saremo saggi e vedremo Dio rendere solido il nostro cammino qualunque cosa accada. A lui ci rivolgiamo con le parole del salmista:
“Saziaci al mattino con il tuo amore, esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni. Sia su di noi la dolcezza del Signore nostro Dio, rinsalda l’opera delle nostre mani”.
27 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XVII T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

In molte culture l’ospitalità è un d

Ad una precisa richiesta dei discepoli, che possiamo indubbiamente fare nostra, Gesù insegna che cosa significhi pregare. L’inizio dell’insegnamento (l’invocazione “Padre”) e la fine (il detto sui genitori che, anche se cattivi, danno cose buone ai figli) racchiudono come in una cornice preziosissima il senso della preghiera cristiana, che consiste nel porsi davanti a Dio come si pongono i figli di fronte ai genitori. Siamo davanti a Dio consapevoli che lui è il Padre/Madre buono, che sempre ci ascolta e sempre vuole farci vivere. Non dobbiamo convincerlo a farci il bene, non dobbiamo insegnargli cosa darci, non dobbiamo ingraziarcelo o averne paura: è il Padre buono. Questa certezza incrollabile nell’amore di lui viene resa dal racconto sull’amico importuno che bussa di notte alla casa dell’altro: non si sarebbero alzati tutti, si alza solo l’amico che tiene davvero all’altro…l’insistenza funziona solo con chi ha il cuore aperto e Dio ha il cuore e l’orecchio teso verso di noi, tanto che non può resistere alle nostre insistenze.

Da qui l’atteggiamento caratterizzante la preghiera cristiana e fondato proprio sulla certezza di essere figli amati: la fiducia. Possiamo chiedere, bussare, cercare, perché dall’altra parte c’è il Padre buono. Ma di fronte a questo Padre e pieni di fiducia, che cosa dobbiamo chiedere? La preghiera del Padre nostro e la chiusa del Vangelo di questa domenica “il Padre darà lo Spirito santo a coloro che glielo chiedono” si illuminano a vicenda e ci spiegano che qualunque cosa noi chiediamo (e come i figli siamo legittimati a chiedere tutto) riceveremo un dono più grande: lo Spirito. Infatti, di fronte a tutte le nostre domande, grida, sofferenze, paure, desideri, gioie e speranze, di fronte a tutto quello che viviamo e che mettiamo – o dovremmo mettere – davanti a Dio (in fondo la preghiera consiste nel mettere la propria interiorità e il proprio vissuto al cospetto di Dio in ogni momento), di fronte a tutto questo – qualunque sia la nostra richiesta e il nostro bisogno – Dio dona lo Spirito santo. Non risolve le questioni, non cancella le malattie o la morte, non procura il cibo né fornisce facili soluzioni: Dio non è il grande mago che manda ad alcuni il bene e ad alcuni il male. Dona, invece, in ogni situazione lo Spirito, perché si affermi sempre la vita. Viene cioè a vivere con noi tutto ciò che ci capita, donandoci il suo Amore. Questo Amore ci fa vivere in modo che il nome di Dio sia riconosciuto come santo (questo modo di vivere chiediamo dicendo “sia santificato il tuo nome”), ci fa lavorare in modo che il Regno si realizzi (chiediamo che la nostra vita diventi un germe del Regno quindi quando invochiamo il Regno), ci dà la possibilità di saziarci ogni giorno di quello che basta (chiediamo cioè di avere quello che ci serve per vivere e nulla più), ci fa scoprire perdonati e capaci di perdono (chiediamo dunque a Dio che lui giudichi tutti e doni a noi la capacità che ha lui di dimenticare il male fatto da noi e da altri) e non ci fa soccombere di fronte ad una prova troppo grande. Nel Padre nostro, in una parola, noi chiediamo lo Spirito, che ci permette di vivere non come i bambini a cui i genitori aggiustano tutto, ma come figli adulti e responsabili, spinti dall’Amore del Padre e decisi a scegliere la vita per sé e per tutti, fiduciosi che questo Spirito effuso conduca infallibilmente il mondo al Regno.
Questa è la logica della preghiera che spinge Abramo a voler salvare Sodoma e Gomorra ed è la logica che Dio condivide: amare e far vivere. Potrebbe sembrare persino ingiusto che per pochi si salvino molti malfattori, ma non è così perché la giustizia per Dio consiste nel dare continuamente nuove possibilità di vita. Non è giusto restituire a ciascuno il male fatto, ma dare a ciascuno la possibilità di vivere e far vivere. Così è stato anche per noi, ci ricorda la lettera ai Colossesi, perché anche noi eravamo morti a causa delle colpe (che lo sapessimo o meno poco conta), ma Dio ha annullato ogni documento scritto contro di noi per farci rivivere. Davanti a questo Dio della vita possiamo porci come figli fiduciosi e responsabili, perché su qualsiasi cosa ci capiti o ci passi nel cuore lui riversi il suo Spirito e questo ci spinga ad amare e dare la vita, finendo così per assomigliargli: tale Padre, tali figli e figlie.
20 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XVI T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XVI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

In molte culture l’ospitalità è un dovere sacro, qualcosa cui non è possibile sottrarsi. L’immagine di Abramo affaccendato per accogliere gli ospiti a Mamre, pronto a preparare il cibo e a chiedere a Sara di fare altrettanto, volendo coinvolgersi di persona e non delegando ai servi il lavoro, dice come fosse considerata l’ospitalità: non si tratta di essere gentili o di fare bella figura offrendo qualcosa di buono, si tratta di un’urgenza cui si deve rispondere in prima persona con tutto l’impegno possibile. Perché? Chi è straniero ha perduto il proprio orizzonte, non conosce i luoghi, non conosce la lingua, non sa come procurarsi sostentamento e riparo, per quanto possa essere forte e capace è diventato debolissimo, perché ha perduto ogni punto di riferimento culturale, economico, affettivo, esistenziale. Non si può fare a meno di prendersi cura di persone in queste condizioni, perché in chi li accoglie trovino un primo punto di riferimento per cominciare a ricostruire il proprio orizzonte, per poter essere se stessi, per poter vivere.
Non ci si può sottrarre a questo dovere perché l’ospite porta impressa l’immagine di ciascuno di noi: ciascuno di noi privato della sua lingua, della sua casa, dei luoghi che conosce, del lavoro che può fare, dei diritti di cittadinanza, sarebbe perduto. L’ospite ci ricorda quindi che senza gli altri siamo perduti: nessuno può procurarsi vita isolatamente o perseguendo meschini interessi di parte, siamo vivi solo se ci stringiamo gli uni agli altri.
Diventando punto di riferimento dello straniero, accogliendolo, stringendosi a lui, condividendo con lui le risorse, servendolo, Abramo riceve un dono: una parola, uno sguardo che lui e Sara non potevano avere, qualcosa che può vedere solo chi viene da fuori e non ha gli occhi velati dall’abitudine o da ciò che è sempre stato così. L’ospite può annunciare la nascita di un figlio a dei vecchi che forse non ci speravano più: uno sguardo diverso può ringiovanire tutto ciò che pensavamo avesse fatto il suo corso. Vale per Abramo, vale per ciascuno di noi, vale per le famiglie che accolgono figli, vale per le società che sanno accogliere i poveri e gli stranieri.
L’ospite privo di ogni riferimento, senza luogo e senza nulla perdere, è libero di vedere la novità possibile in una situazione che per noi è chiusa e sterile. Anche Gesù si comporta così: alle sorelle che chiama per nome, perché è loro amico, e che lo hanno ospitato, dona una parola nuova, uno sguardo altro che solo lui, che ha scelto di non avere un posto dove posare il capo, poteva avere. In modo particolare insegna alle sue amiche che è più importante farsi discepole, ascoltando la parola, che occuparsi delle faccende domestiche, per quanto sacre perché rivolte all’accoglienza dell’ospite. Sta dicendo a delle donne, in sintesi, che ciò che conta di più per loro non è far funzionare la casa (faccende e cura dei bambini), ma ascoltare la parola di Dio. Nessun capofamiglia avrebbe potuto dire questo perché sarebbe stato sconveniente per la gestione della propria casa e neppure alcuna donna cui non avessero dato alternativa, perché il ruolo di gestione della casa dava loro identità e importanza. Solo un ospite, uno straniero, uno senza casa, può dire questa parola nuova.
E questa parola viene portata a compimento dall’annuncio e dalla testimonianza della chiesa, nella vita della quale si manifesta il mistero nascosto dai secoli. Il ministero di questa parola ora è affidato noi, al punto che che il mondo può scoprire di essere stato visitato da Dio solo se gli lasciamo vedere Cristo in noi. Sediamoci dunque ai piedi del maestro, amico e ospite, per ascoltare ciò che di nuovo la Parola ci può insegnare, lasciandoci istruire con ogni sapienza per diventare perfetti in Cristo e testimoniarlo così ad ogni essere umano.
Magari ai piedi del maestro scopriremo che ciò per cui ci affanniamo (difendere i nostri interessi? avere qualche garanzia economica? far funzionare la nostra famiglia? stare in salute? farci valere?) non è la parte migliore e avremo la possibilità di scegliere una vita nuova, costruita sul Vangelo che non ci verrà tolto.

13 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XV T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

La legge, come giustamente risponde questo dottore che voleva mettere alla prova Gesù, ha il proprio culmine nell’amore di Dio e del prossimo, che sono solo due diversi lati della stessa medaglia. Per spiegare però che cosa significhi farsi prossimo di qualcuno, Gesù racconta la parabola del buon samaritano,  nella quale si comprende che prossimo è chi è capace di ascoltare il grido del fratello, colui che si fa commuovere dal suo bisogno. Gesù nel racconto usa un verbo che noi traduciamo con “ebbe compassione”, ma che nella lingua originale significa: senti contrarsi le viscere. Si tratta di un verbo che indica quella pena e quella tenerezza che ci prendono la pancia, che fanno stare male, che ci impediscono di passare oltre: è la sensazione che provano i genitori per i loro piccoli che soffrono e che provano tutti coloro che si portano dentro qualcuno, la cui sofferenza ci diventa intollerabile. Il buon samaritano non va oltre il ferito non perché è un santo o un eroe, né perché ha paura di Dio, non va oltre perché non può farlo: il dolore che sente dentro, la compassione, non gli permette di abbandonarlo.
La compassione ci fa sentire dentro il dolore dell’altro, che diventa il nostro dolore, per cui ci chiniamo su di lui non per fare beneficenza o dare prova della nostra magnanimità, ma perché abbiamo bisogno di alleviare il suo dolore per alleviare il nostro.
Gesù aveva provato questo sentimento di fronte alla vedova di Nain che aveva perso l’unico figlio. Solo in quel momento il Vangelo di Luca (siamo al capitolo sette) usa per Gesù questo verbo che indica la contrazione delle viscere: di fronte alla madre vedova disperata per la morte del suo bambino, di fronte alle viscere contratte di lei in un dolore intollerabile, Gesù prova compassione, sente cioè le proprie viscere maschili contrarsi come quelle materne, sente la stessa pena di lei e non può che fermarsi per ridare la vita al ragazzo perché altrimenti vivere non sarebbe stato più tollerabile.
Questa compassione, che ci fa sentire dentro la sofferenza dell’altro come fosse nostra, è quella che prova Dio per i suoi figli, per questo Gesù la vive e per questo ci chiede di fare altrettanto. In questo modo, chinandoci su chi ha bisogno, ci convertiremo a Dio, perché allevieremo le sofferenze di quelli che lui si porta dentro e per i quali ha compassione. Chinandoci sul prossimo, ci chiniamo quindi su Dio, ci volgiamo a lui: ci convertiamo a lui. Questo comandamento non è difficile, è vicino a noi come vicini a noi sono tutti coloro che Dio ama e hanno bisogno. Vivendo in ascolto del loro grido, rendiamo presente nella storia l’amore del Padre, così come ha fatto Gesù che ne è la perfetta immagine e che ora ha nei suoi che lo amano un corpo capace di commuoversi e di farsi prossimo di tutti quelli che incontra lungo la strada.
06 - Lug - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XIV T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Fra tutte le buone notizie che possiamo ascoltare, ce n’è una sola che è capace di trasformare il lutto in gioia e di consolare da ogni sofferenza. Una sola buona notizia dona una pace piena, come quella che conoscono i piccoli quando passano dal pianto disperato al seno della mamma che con il latte fa succhiare sicurezza, riparo, affetto. Chi ha visto un neonato passare dal pianto disperato e inconsolabile alla più totale serenità solo per essersi attaccato al seno materno, sa di cosa è capace la buona notizia del Vangelo.

Il pianto diventa pace, il lutto gioia, il mare terraferma. Queste sono le opere terribili di Dio che il salmo ci invita a glorificare e riconoscere: credendo in Gesù e facendo nostra la sua vita veniamo liberati da tutto ciò che ci minaccia. Questo ha sperimentato Paolo che, nel breve brano della lettera ai Galati di questa domenica, testimonia come non ci sia più nulla che conti davvero se non essere nuova creatura e cioè essere stati rigenerati dalla buona notizia del Vangelo: il mondo può anche essere crocifisso, perché promette felicità e vita senza darne davvero, ma noi ci vantiamo solo della croce di Gesù, il cuore del racconto del Vangelo che ci mostra come Dio trasformi la morte in vita.
Poiché però gli uomini e le donne soffrono molto, nessun cristiano può tenere per sé questa gioia. Invece, come i discepoli inviati da Gesù, deve andare ovunque annunciando la pace e la vicinanza di Dio, guarendo chi soffre con la consolazione che viene dal Vangelo, che una volta accolto sottomette il male rendendolo innocuo. Non esiste una buona notizia come questa, capace di placare il pianto disperato, di saziare e spegnere la sete, capace di lenire il dolore e far scoprire l’intensità dell’amore e della vita. Solo il Vangelo può questo e ascoltandolo: “voi sarete allattati e portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati” e il nome che vi verrà mormorato con tenerezza non risuonerà solo sulla terra, ma sarà scritto nei cieli.
29 - Giu - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- XIII T.O.

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XIII Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

 Il Vangelo di Luca è segnato in modo netto dalla decisione di Gesù di andare a Gerusalemme. Dal momento in cui Gesù decide di fare questo viaggio infatti, il racconto viene ambientato tutto sulla strada, che diventa una lunghissima immagine della vita credente: essere cristiani è camminare con Gesù verso la sua Pasqua. Lungo il cammino, quello raccontato dal Vangelo e il nostro, si fanno incontri, si dicono parole, accadono eventi. Un addestramento per poter arrivare anche noi a consegnare la nostra vita per amore, come ha fatto Gesù alla fine del proprio cammino.
Per poter fare questo Gesù ci invita a staccarsi da ciò che ci fa sentire al sicuro: il padre da seppellire, come i cari da salutare rappresentano le sicurezze e le relazioni che ci danno identità. Il discepolo deve ricevere la propria identità dalla relazione con Cristo, quindi tutto ciò che sentiamo di essere va rivisitato. Accade come quando ci si innamora: tutto ciò che viviamo cambia significato, ordine di importanza, modalità. Siamo sempre noi stessi, ma il nostro mondo viene riorganizzato. Allo stesso modo Gesù non ci invita ad una disumana dimenticanza di chi amiamo, ma ad accettare che tutta la nostra vita, comprese le relazioni fondamentali, i mezzi di sussistenza, la salute, il lavoro, il ruolo ecclesiale, tutto, prenda senso solo dal nostro seguire Gesù.
Tutto ciò che siamo e facciamo, come anche la nostra storia, viene posto sotto una nuova luce, l’amore del Padre, che diventa l’unico luogo in cui posare il capo e l’unico riferimento per ogni nostro bene e ogni nostro amore.

Accade a ciascun credente quanto successo ad Eliseo: mentre facciamo la nostra vita (Eliseo è in casa sua, fra i suoi familiari e fa il suo lavoro) l’incontro con il Dio vivo ci trasforma. Non tutti cambiamo attività o casa o relazioni, come accade al profeta, ma tutti cambiamo vita, perché la fede trasfigura tutto di noi, rendendoci, qualunque cosa facciamo, una profezia vivente. Magari resta tutto uguale ma niente lo è più, come quando ci si innamora, come quando nascono i figli.

Unica legge di questo cammino, che significa tutto di noi, è l’amore del prossimo, perché si può andare dietro a Gesù solo facendo come lui, amando, guarendo, beneficando, chinandosi cioè sul bene di chi ci è posto di fronte e accanto, pronti a tutto purché viva, anche ad andare decisamente verso Gerusalemme.
20 - Giu - 2019

dalla mente al cuore, dall’orecchio alle mani …- Corpus Domini

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

Domenica del Corpus Domini

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nella festa del Corpus Domini siamo abituati a concentrarci sul pane eucaristico, quasi come fosse un oggetto in cui Dio entra facendolo diventare speciale (con una idea che non è troppo lontana da quella del talismano)…una specie di porta aperta sul sacro che ci permetta di toccare Dio perché ci faccia del bene.
Le letture che proclamiamo in questa domenica ci chiedono un altro sguardo. La prima lettura ci parla di pane e vino offerti da Abramo ad un misterioso sacerdote, Melchisedek; la seconda lettura ci spiega che il gesto eucaristico che facciamo ad ogni messa è una memoria di quello fatto dal Signore, cioè della sua morte per noi. Per spiegare il significato della propria morte Gesù stesso nella sua ultima cena aveva scelto il gesto dello spezzare il pane e di condividere il vino, un gesto che poi i discepoli avrebbero dovuto ripetere per fare memoria di lui, ma il spezzare il pane e bere il vino sono solo l’inizio e il riposo a cui tornare, perché poi è nel dare se stessi ogni giorno che si fa memoria della morte del Signore. Il Vangelo, infine, ci ricorda uno dei racconti della moltiplicazione dei pani.
Come stanno insieme queste letture? Come ci aiutano a comprendere questa festa? Ci ricordano anzitutto che il Corpo di Cristo non sta in un una cosa, cioè nel pane, come fosse un oggetto a sé, ma il Corpo di Cristo si può vedere e toccare in un gesto che la chiesa fa quando si raduna per condividere il pane facendo memoria di Gesù, cioè facendo quello che ha fatto lui: offrire se stessi (un gesto sacerdotale che richiama la prima lettura sul misterioso Melchisedek) perché tutti possano avere la vita, perché ciascuno cioè, mettendo tutti insieme quel che abbiamo, possa essere sfamato.
Non festeggiamo un rito sacro che ci garantisce un po’ di aiuto divino legato ad un pezzo di pane, ma un memoriale, capace di rendere presente il Risorto perché lo Spirito (che invochiamo solennemente non solo sul pane ma anche sul popolo radunato) ci fa ripetere i gesti di lui: radunarsi, benedire Dio, condividere il pane e il vino (cioè tutto), offrire se stessi fino alla morte perché altri vivano. Da qui una vita abbondante, per noi e per tutti: avanzarono infatti ben 12 ceste dopo che tutti erano già sazi.