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05 - Nov - 2021

XXXII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(1Re 17,10-16   Sal 145   Eb 9,24-28   Mc 12,38-44)
Domenica 7 Novembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia di questa domenica ci aiuta ad avere i criteri di giudizio di Dio, ad imparare come lui valuta le cose e che cosa ritenga davvero prezioso. Pare infatti che la sua unità di misura sia diversa dalla nostra: non conta il peso del metallo prezioso, né le dimensioni dello spazio occupato, né dimostra alcun interesse per i numeri che si possono vantare. Tutto questo – sempre ricoperto da un insidioso velo di innocenza soprattutto quando abbiamo soldi, potere o numeri per fare il “bene” – rischia di nutrire solo il nostro meschino bisogno di farci guardare, di essere distinti dagli altri perché importanti (gli scribi passeggiano in lunghe vesti per ricevere saluti e vogliono i primi posti nelle sinagoghe) o buoni (pregano nelle piazze), a prescindere da ciò che facciamo davvero (gli stessi scribi divorano le case delle vedove). Davanti a Dio non conta niente che possa essere quantificato (beni, risultati, numeri), la sua scala di valori è totalmente altra. Gesù siede nel tempio davanti al tesoro. Guarda la fila di coloro che gettano nel tesoro le proprie offerte. Tutti guardano e vedono le quantità grandi che luccicano e fanno rumore cadendo in mezzo alle monete e ai beni: ognuno viene visto e si fa guardare, ricevendo lode e ammirazione in base alla ricchezza della propria offerta. In tutto questo scambio mercantile di offerte e riconoscimento, Dio non è nemmeno considerato: conta il valore di chi riesce a offrire molto e conta l’ammirazione di chi pubblicamente riscontra questo valore. Poi arriva una vedova. Povera. Quando è il suo turno, forse da dietro le ricche vesti di chi lascia cadere ben altro peso, getta nel tesoro due monetine, un’offerta di nessun valore. Con buona probabilità, disprezzo o pena sono sorti nel cuore di chi l’ha vista: non ha arricchito di nulla il tesoro, perché non ha nulla di valore. Non è nessuno. E non è neanche saggia, perché si è privata del poco che le poteva procurare un pezzo di pane. Ma uno, Gesù, in mezzo alla folla ha visto altro. Chiama i discepoli, come fa di fronte agli eventi importanti, e addita loro la vedova come maestra di vita: quello che lei ha messo nel tesoro valeva più di quello che hanno messo gli altri. Loro hanno messo del loro superfluo e hanno ricevuto come ricompensa la lode effimera e volubile degli esseri umani, lei – ignorata e disprezzata – ha offerto più di tutti perché ha dato tutto quello che aveva per vivere.

Il gesto di lei, però, non ha più valore soltanto perché è totale, ma proprio perché agli occhi degli altri vale poco. Ciò che lei fa non è stimato, non le porta onore, né primi posti, né saluti o sguardi ammirati: il suo gesto quindi viene solo dall’amore di Dio, dal desiderio di onorarlo con tutto quello che lei è, oltre e al di là di qualsiasi vantaggio o onore per sé. L’amore la domina, l’amore folle che fa dare anche quello che ti serve per vivere. E Gesù, che sta per essere ucciso come uno la cui vita sarà stimata un nulla, comprende bene ciò che lei fa: anche lui per amore getterà se stesso e nessuno lo stimerà niente. Solo il Padre stimerà il suo dono come il più prezioso, un’offerta così preziosa che non ci sarà più bisogno di offrirne un’altra (come ci dice la lettera agli Ebrei).

È la logica dei piccoli che il Signore predilige, la logica di chi non accumula ricchezze di alcun tipo per garantirsi la vita, ma di chi getta la propria vita amando Dio, le sorelle e i fratelli. È la logica di chi non considera alcun tornaconto e non misura il guadagno del proprio offrire, ma è dominato dal bisogno dell’altro e così, come la vedova di cui si narra nel primo libro dei Re, quando qualcuno chiede di condividere il poco che ha per vivere, non esita e finisce del tutto sorprendentemente a trovarsi a moltiplicare – con la propria generosità – i beni poveri che aveva e che finiscono per nutrire molti in abbondanza.

È una logica altra. E quel giorno, nella calca odorosa del tempio, fra i rumori e la confusione, il Signore ne è rimasto completamente sedotto, contemplandola in una vedova povera. E questa bellezza ha offerto ai suoi come il tesoro più prezioso del tempio.

06 - Nov - 2020

XXXII Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXXII Domenica T.O. (A)

(Sap 6,12-16   Sal 62   1Ts 4,13-18   Mt 25,1-13)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nelle ultime tre domeniche dell’anno liturgico leggeremo l’intero capitolo 25 di Matteo che riporta l’ultimo grande discorso di Gesù (secondo il racconto del primo evangelista). Proveremo quindi a commentare le letture di queste settimane seguito, come se fossimo in un’unica lunga domenica, lasciando aperte domande e prospettive che tenderanno all’ultima domenica che, con la solennità di Cristo Re, chiuderà l’anno liturgico.

Questa domenica il Vangelo ci propone la parabola delle dieci vergini. Dieci ragazzine (perché le vergini erano le ragazze che non erano mai state sposate, quindi poco più che bambine, considerate le usanze del tempo) aspettano di notte che arrivi lo sposo per entrare alla festa. Che si addormentino (con la facilità e la serenità dei giovanissimi oltretutto!) è più che normale. In modo del tutto simile può accadere che noi, travolti dalle vicissitudini della vita, dagli impegni, dal tumulto interiore, dagli eventi del nostro tempo, ci assopiamo, smettiamo di pensare allo sposo che viene, non teniamo presente che stiamo aspettando il Regno, non scrutiamo la realtà per cogliere la presenza di Dio, piangiamo per i morti (come ci dice Paolo nella seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Tessalonicesi) come fanno quelli che non conoscono la resurrezione (non solo soffrendo la mancanza, come è ovvio, ma non sperando nulla). Può succedere a tutti, anzi, seguendo la parabola delle dieci ragazzine, succede proprio a tutti.

Poi lo sposo arriva e qui si vede la differenza fra le ragazzine sagge e quelle stolte, si scopre cioè se il nostro vivere, pure a volte inevitabilmente assopito, è stato saggio o stolto. Sembra che l’unica differenza sia come le ragazzine si sono attrezzate per andare ad aspettare lo sposo: cinque hanno pensato a ciò che stavano facendo, l’hanno valutato, hanno impiegato tempo ed intelligenza per decidere cosa poteva servire e quali potevano essere gli imprevisti, altre – per leggerezza o per scarsa considerazione di ciò che stavano per fare – sono andate così come erano, senza pensare ciò che stavano facendo né ricercare ciò che poteva essere di aiuto per riuscire nell’impresa.
Viene mostrato con questa immagine quale atteggiamento esistenziale (cioè quale sapienza) bisogna avere: vivere desiderando di capire, impegnandoci per provvedere ciò che può servire per il bene che ci viene chiesto. La sapienza, in fondo, altro non è che un modo di guardare la vita capace di scoprire le tracce del bene possibile e ciò che serve per farlo crescere. Nella prima lettura (tratta dal libro della Sapienza) si dice che per chi desidera raggiungere questo atteggiamento, per chi lo desidera, è facilissimo trovarlo. Non è richiesta alcuna fatica: è la sapienza stessa ad andare loro incontro in ogni progetto, a farsi trovare per la strada o seduta alla porta.
Chi la cerca, dunque, trova la sapienza, e così non va ad aspettare lo sposo senza olio, cioè vive procurandosi ciò che serve per l’incontro essenziale della vita, per scoprire Dio nell’oggi, nelle persone, nell’interiorità e un giorno nella pienezza del Regno. Anche si addormentasse o perdesse di vista, nella frenesia dei giorni, quale è il motivo per cui viviamo e cosa ci attende, chi ha cercato la sapienza l’ha trovata certamente e così si è procurato ciò che è essenziale per vivere ed entrare alla festa. Basta svegliarsi dal torpore e andare.
La parabola non ci dice che cosa sia quest’olio che bisogna procurarsi (le interpretazioni sono le più disparate), forse non era nell’intenzione dell’evangelista indicare cosa esso rappresenti, forse l’intento della parabola è semplicemente suscitare in noi il desiderio della sapienza che ci fa vivere consapevoli di che cosa stiamo aspettando e ci istruisce a non rimanere sprovvisti del necessario. Credo sarà la parabola che leggeremo domenica prossima a dirci quale olio non dobbiamo trascurare di portare sempre con noi. Per oggi invece ci viene insegnato (usando le parole del salmo) a cercare, ad avere sete, a desiderare, a vegliare per pensare come prepararci all’incontro con Dio che ci attende sempre, un incontro colmo di benedizioni, cibi e gioia, perché la sua grazia vale più della vita. Oggi dobbiamo lasciarci colmare dal desiderio dell’incontro: solo così non trascureremo di avere con noi l’essenziale perché ciò che tanto attendiamo si realizzi.
09 - Nov - 2019

XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nel Vangelo di questa domenica alcuni sadducei (un gruppo di credenti che non sperava nella resurrezione dai morti) mette alla prova Gesù con un caso paradossale: una donna sposa sette fratelli di seguito che muoiono uno dopo l’altro senza lasciare figli. Di chi sarà moglie nella resurrezione, chiedono i sadducei, visto che è stata moglie di tutti? Prima di vedere la risposta di Gesù è bene sottolineare che non a caso i sadducei contrappongono la resurrezione, per loro impossibile, alla procreazione, che per le culture antiche (ma in parte per tutti) è il modo in cui i padri continuano a vivere. Morire senza figli per un uomo era una sventura, perché voleva dire l’annientamento della propria esistenza, per questo la legge ebraica prevedeva che il fratello sposasse la moglie del morto e considerasse il primo figlio che sarebbe nato da questa unione come un figlio del defunto, in modo che questo continuasse a vivere. Nel caso limite presentato a Gesù questo accade per sette volte.

Gesù sposta completamente l’asse del discorso e prima di parlare della resurrezione si ferma sulla procreazione. Quelli che sono giudicati degni della vita futura, dice Gesù, non prendono moglie e le mogli non vengono prese (questa sarebbe la traduzione corretta del testo, che mette bene in evidenza la posizione impari in cui le donne sono fatte oggetto di possesso), infatti non possono più morire. Che cosa sta dicendo? Rispondendo ai sadducei che avevano esposto il caso (disgustoso) di una donna passata da un uomo all’altro e usata da tutti con il solo scopo di dare un figlio a qualcuno, dichiara la fine di questo commercio: i mariti non prendono moglie e le mogli non vengono prese. Per quelli che sono giudicati degni della vita futura, il matrimonio diventa una relazione fraterna e reciproca e fare figli cessa di essere l’egoistico prolungamento della propria esistenza, per diventare un riflesso dell’amore fontale e custodente del Padre.
Solo dopo aver fatto piazza pulita di tali devianze, Gesù parla della resurrezione: i morti risorgono (non c’è più bisogno di escogitare un modo per sopravvivere) perché Dio è il Dio dei vivi. Possiamo sperare cioè nella resurrezione perché Dio si lega a noi, si è legato ad Abramo, ad Isacco e a Giacobbe, ma anche a ciascuno di noi. Questa alleanza che lui ha scelto di vivere è il pegno della nostra resurrezione: non ci lascerà nella morte perché non vuole vivere senza di noi.
Nella seconda lettura leggiamo infatti che il Signore è fedele, ci confermerà e ci custodirà. Questa esperienza, già iniziata nel cammino della vita e sperimentata nelle difficoltà e nelle morti che tutti affrontiamo, si compirà con la nostra resurrezione, perché lui che ci ha voluti e custoditi, ci ridarà la vita per sempre.
Solo la potenza di Dio (già evidente nella gloria del creato e nella salvezza degli uomini) e la sua fedeltà ci possono far sperare che la vita ci verrà restituita e questa speranza è capace di trasformare fin d’ora la nostra vita, perché, come ci ricorda la seconda lettera ai Tessalonicesi, viviamo alla luce di questa speranza, lontano dal male, dentro un cammino che ci conduca “all’amore di Dio e alla pazienza di Cristo”.
Tutto si fonda sulla fedeltà di Dio: lui che ci ama, ci ha chiamati alla salvezza e ci ha legati a sé non ci lascerà nella morte, ma ci ridarà la vita in modo del tutto gratuito e pieno, come è stato per Gesù. Questa sua fedeltà però ci dona una speranza che diventa ciò che fa essere fedeli noi: non ci sottrarremo dal glorificarlo con la nostra vita, anche se questo ci costasse moltissimo (fino alla morte per i fratelli di cui racconta il libro dei Maccabei), perché sappiamo che lui è capace di ridarci sempre la vita. Allora diciamo col salmista: “tieni saldi Signore i nostri passi sulle tue vie” perché queste conducono alla vita. Infallibilmente fino alla resurrezione.