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22 - Ott - 2021

XXX Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXX Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Ger 31,7-9   Sal 125   Eb 5,1-6   Mc 10,46-52)
Domenica 24 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il brano del Vangelo di questa domenica è l’ultimo miracolo raccontato dall’evangelista Marco. Gesù oramai è alle porte di Gerusalemme: deve ancora insegnare e poi vivere la Pasqua, ma non compirà più miracoli. Si tratta di un momento importante dunque in cui vengono tirate le somme di quanto è successo fino a qui. Siamo di fronte ad un cieco mendicante, di cui sappiamo alcuni dettagli, per cui si può ipotizzare che sia rimasto poi nella cerchia dei discepoli (d’altra parte il racconto si conclude con il cieco guarito che segue Gesù). Questo cieco sente dire che passa Gesù e grida forte, al punto da attirare l’attenzione di Gesù che lo chiama.

La scena riprende quella dell’uomo ricco, letta due domeniche fa: entrambi cercano Gesù (anche se in modo diverso) ed entrambi se lo trovano di fronte; il ricco parla con Gesù e viene fissato con amore, il povero cieco balza in piedi e non si fa pregare due volte quando il Signore gli chiede: che cosa vuoi che io ti faccia? Se l’uomo ricco aveva fatto la sua domanda (cosa devo fare per avere la vita eterna?), ma poi non aveva saputo accettare la risposta che gli chiedeva di abbandonare le ricchezze, il povero cieco viene interrogato e non ha dubbi su cosa vuole, anzi vede in Gesù una tale ricchezza per sé da abbandonare il mantello, cioè l’unico bene che avesse al mondo.

Ad entrambi il Signore offre la vita, cioè la possibilità di seguirlo, ma mentre il ricco rifiuta l’offerta esplicita di diventare un discepolo, il povero cieco non ha bisogno nemmeno di essere invitato. Si comprende allora che ciò che egli cercava non era solo riavere la vista, ma la pienezza della vita. Non è Gesù che guarda stavolta (come era accaduto con il ricco), ma è il cieco a vedere e, una volta guardato il Signore, non se ne vuole più andare. Paradossalmente sembra che la salvezza di Dio, la vita di lui, sia più alla portata di coloro che tutti considerano esclusi. La prima lettura (libro di Geremia) ci descrive questa salvezza come un’esplosione di vita che riguarda proprio ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti, tutti coloro – insomma – che sono fragili e sanno bene di non potersi salvare da soli.

La loro condizione è così favorevole alla relazione con Dio che il Signore ha scelto per sé – così nella seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei – proprio la loro debolezza e la loro fragilità. Potendo scegliere non ha voluto essere un ricco e un potente, ma un fragile e un povero, uno che – come questo povero cieco – si troverà spogliato a gridare sulla croce perché il Padre lo salvi. Bartimeo ha la sapienza necessaria per abbandonare il mantello, che paragonato a Gesù non vale nulla, e per seguirlo sulla via della fragilità, per questo Gesù lo dichiara salvato, usando per lui le stesse parole che aveva detto alla donna emorroissa tanto tempo prima. Entrambi questi campioni di fragilità hanno saputo riconoscere Dio che si faceva presente per donare loro la vita e così non se ne sono andati via tristi, ma esultanti come chi contempla il rovesciamento della propria sorte e non perché ora sono diventati forti, ma perché essere forti non ha più alcuna importanza. Ciò che conta è la vita, fragile eppure indomita, che gli viene continuamente offerta. E così possono dire col salmista “la nostra bocca si apri al sorriso, il Signore ha fatto grandi cose per noi”. Se ne andavano piangendo, ma ora tornano con le braccia colme di beni. Dove sia rimasto il mantello abbandonato in fretta e in furia, non importa davvero.

23 - Ott - 2020

XXX Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXX Domenica T.O. (A)

(Es 22,20-26   Sal 17   1Ts 1,5-10   Mt 22,34-40)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Da domenica scorsa il Vangelo di Matteo ci racconta le dispute che Gesù si trova a fare con farisei, sadducei e altri (domenica prossima interromperemo la serie per la solennità dei Santi), ma prima – se ricordiamo – avevamo avuto una serie di parabole che Gesù racconta, usando l’immagine della vigna o del banchetto, per mettere in guardia il suo popolo (ma dobbiamo pensare queste parole rivolte a noi) dal rischio di perdere il dono che veniva loro fatto: dire sì ma non lavorare nella vigna, oppure lavorarci ma come usurpatori che distruggono, oppure ignorare l’invito al banchetto della vita che Dio prepara.

Dopo aver tanto ammonito il suo popolo dal rischio di perdere il dono che viene loro fatto, comincia una serie di tentativi per mettere alla prova Gesù e farlo cadere (il primo domenica scorsa). Questo ci dice che le parabole di Gesù non sono state accolte, anzi, chi le ha ascoltate si è indurito e si è così stancato di sentirsi ammonire in questo modo che vuole zittire Gesù con ogni mezzo. Può succedere anche a noi (come singoli o come chiesa) proprio perché sappiamo che le esigenze del Vangelo sono alte e molto poco rassicuranti, vogliamo che il Signore stia zitto, sappiamo già tutto quello che dobbiamo fare e siamo a posto: casomai i cattivi sono altri.
Nel Vangelo di oggi, però, il trabocchetto del dottore della legge è un dono per noi e per tutti, perché – in mezzo ai tanti dubbi che il mondo ci pone, in mezzo alle difficoltà di una realtà tanto complessa, in mezzo persino alle spaccature ecclesiali su valori e modalità di azione – Gesù stesso ci dice da che cosa dipende tutto, ci dice cosa dobbiamo osservare e seguire se vogliamo vivere secondo Dio.
E ciò da cui dipende tutto è l’amore. Risponde alla domanda su quale sia il più importante dei comandamenti come avrebbe risposto ogni pio israelita: amare Dio con ogni parte di sé, con ogni aspetto della propria vita, cioè passando ogni attimo al suo cospetto e riconoscendo lui come la Bellezza cui tendere e per cui vivere. Gesù però non si accontenta e aggiunge un altro comandamento, che lui dice essere simile al primo. Che comandamento ci può essere anche solo lontanamente paragonabile a quello dell’amore per Dio così totalizzante e pieno? L’amore per il prossimo, cioè per chi ti sta vicino. La citazione è tratta dal Levitico e si riferisce espressamente allo straniero che viene ad abitare nella tua terra, ma si può estendere a tutti coloro che abbiamo di fianco. Gesù dischiude così ai nostri occhi il fondamento stesso della vita cristiana: non si può amare Dio senza amare gli altri, l’amore per lui e l’amore di lui in noi ci spingono verso tutti, ci fanno fermare se hanno bisogno, chinare, soccorrere, condividere.
Non è un’idea, una filantropia, un vago sentire, ma una vita operosa (ne parlavamo domenica scorsa cercando di dire che cosa possa significare dare a Dio quello che è di Dio). La prima lettura ci aiuta ad essere concreti: non molestare lo straniero, non maltrattare quelli che sono in condizione di debolezza, non approfittarti della condizione di bisogno di chi ti chiede per guadagnarci sopra, preoccupati di restituire anche quello che ti spetterebbe tenere se questo permette all’altro di vivere. L’amore si misura sul bene fatto, sui gesti che hanno dato vita, sulle parole che hanno aiutato. L’amore che viviamo si misura sulla vita di chi ci sta di fianco: vive di più o muore accanto a noi?
Credere in Dio e non essere desiderosi ed impegnati ad amare così, equivale ad essere senza Dio. Al contrario (lo vedremo al capitolo 25 del Vangelo di Matteo) chi non crede in Dio ma ama il prossimo, sta servendo Dio stesso e verrà da lui accolto come un amico. D’altra parte (facciamo così un cenno alla seconda lettura) che cosa è che rende credibile il nostro annuncio? Cos’è che fa risuonare la parola senza nemmeno parlarne? La vita vissuta nell’amore dell’altro, vita che sorge dall’amare Dio come unico Signore. Solo chi vede i cristiani amare così, crede che il Vangelo sia vero.
Allora ogni volta che non riusciamo a fare il bene e a far vivere la sorella o il fratello che abbiamo vicino può venirci in aiuto la preghiera del salmista perché possiamo attingere l’amore che ci serve dall’amore per Dio e richiamarlo così al nostro cuore: Ti amo, Signore mia forza, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mia rupe in cui trovo riparo, mio scudo, mio potente baluardo. Concedimi la vittoria di amare come ami tu, di compiere gesti di bene, di dire parole che nutrano, dammi la forza di far vivere tutti, sempre, come te.
26 - Ott - 2019

XXX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXX Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia di questa domenica continua a parlare della preghiera. Se la scorsa domenica ci aiutava a comprendere in che modo una preghiera autentica ci pone davanti a Dio e in che maniera si mescola con la concretezza della vita, questa domenica le letture ci svelano che, diversamente da come molte volte si pensa, una preghiera autentica dipende dalla relazione che abbiamo con gli altri. Essa non è dunque qualcosa che si risolve fra la persona e Dio, ma al contrario qualcosa che è del tutto condizionato dalla relazione con i fratelli e le sorelle. Se così non fosse la preghiera diventa la copertura per rassicurarci di quello che siamo e persino per giustificare devianze, anche terribili, o persino il male che facciamo agli altri, per i quali poi – senza rimediare in alcun modo al danno inferto – diciamo di pregare. La prova che davvero ci mettiamo davanti a Dio consiste nella giusta relazione con il fratello. Senza questa non si dà preghiera alcuna.

Gesù racconta la parabola di un fariseo che sale al tempio. Un uomo rispettoso della legge, un giusto quindi, ma anche un virtuoso perché digiuna due volte a settimana e paga la decima. Questo uomo ringrazia Dio per quello che è, facendo il confronto con l’altro al quale è ben contento di non assomigliare. “Grazie perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri e nemmeno come questo pubblicano”. Sembra di vederlo voltarsi verso l’altro, persino indicarlo con un cenno del capo. Si percepisce il disprezzo che prova per il pubblicano e che gli permette di sentirsi migliore di lui.

In questa condizione non si può pregare. Ciò che impedisce di stare davanti a Dio non sono i peccati commessi – come dimostra proprio la preghiera del pubblicano –  ma il fatto di volersi sentire migliori dell’altro. Ciò che ci preoccupa infatti, in questo caso, non è aprire il nostro cuore perché Dio lo renda giusto, plasmato secondo la sua logica, ma ci preoccupiamo solo di noi stessi e di confermarci in quello che siamo. In fondo Dio, come l’altro che disprezziamo, non ci serve: ci bastiamo.
Quando invece si apre la propria interiorità a Dio senza veli, come fa il pubblicano, si vedono tutte le proprie mancanze e le proprie fatiche ma proprio in queste ci si scopre infinitamente amati e così si entra nella logica di Dio che ci insegna a guardare gli altri come lui guarda noi: amando sempre e comunque.
La prima lettura tratta dal Siracide ci dà una chiave per trovare una posizione che ci impedisca di disprezzare l’altro. Il disprezzo dell’altro infatti si manifesta ogni volta che ci si pone in posizione di forza, anche quando non si fa del male e ci si mostra magnanimi, perché è comunque un tipo di relazione in cui l’altro viene considerato inferiore. Fino a che si sta in questa relazione con il fratello la preghiera non è autentica, non attraversa le nubi, essa resta sulle nostre labbra e non viene ascoltata, perché si sta parlando solo con se stessi, si è soli e non ci si rivolge a nessuno. D’altra parte se davvero il cuore fosse aperto davanti a Dio e lo ascoltasse, non potrebbe che assumere la sua logica e quindi guardare all’altro come profondamente amabile.
Nella seconda lettera a Timoteo, infatti, dopo una vita trascorsa a servire gli altri annunciando il Vangelo e curandosi di loro, al momento di affrontare la morte, l’incontro con Dio viene pensato come una libagione, un vino versato sopra l’offerta preziosa, che sono proprio gli altri, quelli cui ci si è dedicati e per i quali si sono esaurite le forze. Quelli che abbiamo amato, dando loro vita, sono ciò che offriamo al Signore quando preghiamo. Ci sembrerà di aver fatto sempre troppo poco, perché l’altro meritava di più (ci batteremo il petto, forse per i fallimenti e le incapacità nel servirlo), ma comunque lo metteremo davanti a Dio come ciò che abbiamo di più prezioso, perché lui se ne rallegri.
Allora ameremo quelli che Dio ama e potremo benedirlo in ogni tempo, portando sulla bocca una lode autentica che il Signore ascolterà, liberandoci e facendosi vicino.