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15 - Ott - 2021

XXIX Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Is 53,10-11   Sal 32   Eb 4,14-16   Mc 10,35-45)
Domenica 17 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Domenica scorsa il papa ha aperto il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità (cioè su come dare alla chiesa una forma istituzionale e delle prassi che permettano di discernere, decidere e camminare insieme) e in questa domenica lo stesso Sinodo viene aperto nelle diocesi. Provvidenzialmente dunque il Vangelo di oggi ci parla di come dovrebbe essere connotata ogni responsabilità cristiana, all’interno della chiesa e fuori di essa, perché uno dei temi centrali del Sinodo è proprio come vivere l’autorità nella chiesa.

Il Vangelo ci invita a questo proposito a rovesciare la mentalità del mondo: se i potenti delle nazioni le dominano e le opprimono, per i discepoli di Cristo non deve essere così. Chi vuole essere il più grande, cioè quello che ha responsabilità, deve farsi il più piccolo, perché il compito di chi riceve un qualsiasi incarico o ministero è spendersi perché quelli che gli sono affidati vivano di più e meglio. Lo stile di chi è responsabile di altri somiglia, dunque, a quello dei genitori: curare, far crescere, farsi da parte, non ricevere alcun onore per quello che si fa, ma lasciare in primo piano quelli che sono da curare e far crescere. Il potere cristiano – abbiamo detto altre volte – è quello di dare la vita ad altri ed ha la logica della madre Terra, che più è fertile più scompare sotto i frutti che le crescono addosso. Così dovrebbe essere nella chiesa per chi ha una qualche responsabilità e così dovrebbe essere per ogni cristiano che ha responsabilità anche al di fuori della chiesa: far vivere, favorire la crescita e la realizzazione di tutti e tutte, senza preoccuparsi di quale posto ci viene assegnato (qui Giacomo e Giovanni vorrebbero addirittura sedere alla destra e alla sinistra di Gesù nel suo regno!), di quali titoli ci vengono rivolti o di quali vantaggi ci possano venire dalla responsabilità ricevuta.

Solo così tramite prassi che, concretamente e non solo a parole, ci mostrano i responsabili come quelli che continuamente si occupano della vita altrui, il potere sarà cristiano, cioè rifletterà lo stile di Gesù che, dopo aver condiviso ogni nostra debolezza (così nella lettera agli Ebrei) è arrivato a offrirsi in sacrificio purché noi vivessimo (bellissimi i pochi versetti del profeta Isaia). La vita di Gesù è diventata così nutrimento, come la Terra che fa crescere ciò che si radica su di lei, e persino la sua morte ha portato frutti sovrabbondanti di vita. Questo è l’unico modo di governare, guidare o avere responsabilità nella chiesa che possa dirsi cristiano, dunque, mentre ogni oppressione o dominio degli altri, nonché ogni esaltazione o affermazione di se stessi sarebbero l’esatto contrario, anche se poi le persone (così nella versione del Vangelo di Luca) ci chiamassero benefattori.

Farsi piccoli, mettersi in ascolto, favorire la vita altrui, condividere le responsabilità, questo è lo stile dell’autorità che trova spazio in una chiesa sinodale. Si tratta di un cammino lungo ma affascinante e pieno di speranza, per il quale con il salmista preghiamo: su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.

16 - Ott - 2020

XXIX Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXIX Domenica T.O. (A)

(Is 45,1.4-6   Sal 95   1Ts 1,1-5   Mt 22,15-21)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Chi è l’unico Signore, colui al di fuori del quale non c’è alcun dio? Potremmo riscrivere così le parole della prima lettura (tratta dal profeta Isaia) e porle come una domanda che risuoni in ciascuno di noi: chi è l’unico cui riconosciamo il diritto di regnare su di noi?

I farisei, che tengono consiglio per cogliere in fallo Gesù e gli mandano i propri discepoli con gli erodiani perché gli tendano una trappola, pensano di avere Dio come unico Signore, tanto è vero che scelgono come banco di prova per Gesù una questione tecnica “da gente religiosa”, una disputa relativa alla legge. Si chiedevano se fosse lecito maneggiare denaro che ha impressa l’immagine di un uomo che si fa Dio e se bisognasse riconoscergli il diritto di riscuoterlo. Non si trattava solo di una questione politica (già grave perché pagare le tasse voleva dire in qualche modo collaborare con gli invasori) ma religiosa: riconoscere un altro come signore significava tradire la fede in Dio.
I farisei erano convinti di avere Dio come unico Signore eppure hanno la moneta in tasca e sono pronti a complottare contro Gesù per metterlo in difficoltà con l’inganno. Chi è veramente il loro unico Signore? Perché da quello che fanno non sembra essere Dio.
Facciamoci anche noi la stessa domanda. Per sapere chi è il nostro unico Signore non dobbiamo guardare le nostre convinzioni e i nostri buoni sentimenti, né il nostro ruolo civile o ecclesiale, ma le nostre azioni. Ciò che facciamo dice chi siamo molto più di tutto il resto. Nella prima lettura Ciro è al servizio di Dio senza nemmeno saperlo, quasi a dire che Dio può esercitare il suo regno di vita sul mondo tramite ogni essere umano che viva secondo giustizia e faccia bene ciò che è chiamato a fare, anche se questa persona nemmeno lo conosce. Al contrario saranno gli uomini devoti e dediti alla legge a volere e ottenere la morte ingiusta di Gesù.
Ciò che facciamo ci fa vedere chi serviamo. L’esordio della prima lettera ai Tessalonicesi (seconda lettura) ce lo conferma: che il Vangelo sia stato accolto da questi credenti con potenza dello Spirito e profonda convinzione si vede nella operosità della loro fede (dal fatto cioè che il loro credere in Dio si traduce in opere), nella fatica della loro carità (perché chi crede ama e amare non è mai una dichiarazione di intenti ma un fattivo affaticarsi per il bene altrui) e nella lotta che si deve fare per tenere ferma la propria speranza in mezzo alle diverse vicissitudini, scegliendo di comportarsi come chi davvero attende la pienezza della vita.
A questo punto proviamo ad ascoltare la risposta di Gesù alla domanda che gli viene fatta: è lecito pagare il tributo a Cesare? Prima di rispondere Gesù chiede loro di mostrargli la moneta. Quando la tirano fuori, Gesù fa loro una domanda: di chi è l’immagine che è impressa sulla moneta? L’immagine è di Cesare, rispondono. Allora ridategli ciò che è suo, ma non dimenticate di dare a Dio ciò che invece appartiene a lui. Gesù sposta la questione dalle dispute politiche o religiose al cuore dell’esistenza umana: mette tutti davanti a Dio perché si chiedano chi vogliono servire, di chi portano impressa l’immagine.
Poiché uno solo è il Signore di tutta la terra, non è un problema dare ad altri ciò che spetta loro (tasse, rispetto delle leggi, lavoro, ecc…) purché si dia a Dio ciò che invece spetta a lui, anzi purché tutto ciò che si dà ad altri si dia come servi di Dio: cercando la giustizia, prendendosi cura degli altri, rispettando il bene di tutti, testimoniando la bellezza dell’amore. Dio non è geloso di ciò che diamo agli altri (al contrario: vuole che diamo loro tutto di noi), purché lo diamo tenendo lui come Signore e, quindi, donando tutto nel modo in cui lo farebbe lui. Non si tratta di essere impeccabili o inappuntabili, ma di spendersi (come una moneta) amando (cioè portando impressa nel nostro povero vivere quotidiano l’immagine dell’amore di lui), così come ha fatto Gesù, che ha reso a Dio tutto se stesso, amando i suoi fino alla fine, e così ci ha mostrato l’immagine del Padre impressa in ogni fibra della sua carne e spesa in ogni attimo della sua vita.
19 - Ott - 2019

XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Dopo due domeniche di riflessione sulla fede – seguendo l’andamento del racconto di Luca – la liturgia si ferma ora sulla preghiera. Leggevamo nel Vangelo di domenica scorsa che di dieci lebbrosi guariti solo uno si salva, perché solo uno è capace di cogliere dentro il dono della guarigione l’amore del Padre e così torna da Gesù per rendere gloria a Dio. Potremmo dire che non tutti si accorgono che la salute, gli affetti, le capacità, la bellezza che abbiamo intorno, i sentimenti, l’intelligenza, le possibilità quotidiane, la vita insomma non è fine a se stessa, ma rimanda a Colui che (come dice il salmo) continuamente ci custodisce, non ci fa vacillare, ci fa da riparo. La fede è la condizione di chi non fa tanto attenzione ai doni, che pure sono importanti, ma al volto di Colui che nei doni ci ama.

La preghiera segue la stessa dinamica. Non prega veramente chi si aspetta qualcosa. Chi prega in questo modo smetterà, perché i doni che chiediamo molto spesso non arrivano e altre volte è facile e giusto procurarseli con l’impegno e l’intelligenza. La preghiera non consiste nel chiedere a Dio ciò di cui abbiamo bisogno. Questo è un istinto naturale che somiglia all’atteggiamento dei nove lebbrosi che cercano la salute, ma la preghiera che viene dalla fede va compresa in altro modo.
Questa infatti, possibile solo a chi crede e per lui inevitabile, consiste nello stare costantemente davanti a Dio, senza coperture, aprendogli completamente la nostra interiorità mentre impariamo a guardarla proprio così come la guarda lui. Pregare quindi non significa chiedere ossessivamente qualche bene quanto piuttosto porsi continuamente davanti a Dio per ottenere la giustizia del nostro cuore, del cuore altrui e della realtà intorno a noi. Poiché si tratta di un atteggiamento continuo, non di qualche momento, l’insistenza della vedova nella parabola raccontata da Gesù è istruttiva: persino se chi ci può aiutare è malvagio non si smette di stargli davanti se si ha davvero bisogno, figuriamoci se sappiamo che egli ci ama infinitamente!
Se il cuore non si nasconde, non teme la conversione e l’amore, perché come la vedova sa che da questo dipende la sua vita (infatti ciò di cui abbiamo un bisogno estremo è solo vivere secondo la logica di Dio), Dio prontamente fa giustizia. Si tratta di una lotta, come ci ricorda la prima lettura: ci stanchiamo, abbiamo bisogno di sederci e di altri che ci aiutino. Non è facile reggere la verità della nostra storia e del nostro cuore (vale per i singoli, per la chiesa e per il mondo intero), vorremmo essere migliori, diversi, abbiamo paura di dove l’amore e la giustizia ci possono condurre, ma perseverare ci porterà alla vittoria.
La seconda lettura ci dice infine quale sia concretamente lo strumento che ci permette di fare tutto questo e quindi mettere il nostro vissuto davanti a Dio per essere resi giusti: la Scrittura. Quando si chiede qualcosa a Dio (anche di buono, come i nove lebbrosi) non si ascolta lui: la nostra vita e il nostro cuore restano quello che sono, sia che otteniamo il dono, sia che non lo otteniamo. Quando invece si scrutano le Scritture (beati quelli che come Timoteo l’hanno fatto fin dall’infanzia!), queste istruiscono, guidano, correggono, cambiano le prospettive, aprono percorsi, rinnovano…in un lavorio che rende “l’uomo (e la donna) di Dio completo e ben preparato in ogni opera buona”. E così la preghiera non diventa mai la copertura per le ingiustizie, una celebrazione di noi stessi o la frustrazione legata ai doni che non abbiamo, si mescola invece con la vita e con il cuore, perché l’ascolto credente delle Scritture trasforma i sentimenti, le idee e le azioni, innescando nella storia quel dinamismo di vita infallibile che conduce il mondo verso il Regno.