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04 - Dic - 2021

II Domenica di Avvento anno C

Avvento

II Domenica di Avvento

Anno C

(Bar 5,1-9   Sal 125    Fil 1,4-6.8-11   Lc 3,1-6)
Domenica 5 Dicembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Che cosa stiamo attendendo? La liturgia di questa seconda domenica di Avvento ci racconta di un popolo su una strada. È un popolo che ha vissuto l’esilio, è stato umiliato e ferito, ha il cuore e i ricordi pieni di lutti e dolore. Ora questo popolo viene ricondotto a casa. Un annuncio di gioia, di ritorno, di guarigione e consolazione profonda. Forse il primo passo di questa domenica è accorgerci che siamo in esilio, guardare senza veli le ferite e i fallimenti che sperimentiamo, i lutti e le paure (personali, ecclesiali e sociali): fare verità senza sconti e senza mezze illusioni. E a questo punto l’annuncio di un ritorno forse ci sembrerà impossibile: come ricominciare, come rallegrarsi di nuovo?

La voce di Giovanni nel deserto però ci provoca. La conversione è sempre possibile: aprire il cuore alla logica di Dio, farsi perdonare l’imperdonabile e accettare dalle sue mani una nuova possibilità di vita, perché – così il brano della lettera ai Filippesi – Dio porterà a compimento l’opera buona che ha iniziato in noi. Non c’è soltanto l’esilio e il fallimento (che pure bisogna guardare e riconoscere), c’è anche l’opera buona che Dio ha iniziato in noi e che si cura di portare a compimento: non possiamo fare nulla che lo distolga dal proposito di condurci alla vita.

E così la bellissima prima lettura, tratta dal profeta Baruc, ci dà qualche dettaglio sul cammino che ci attende. Mentre camminiamo feriti e umiliati lontano dall’esilio, Dio stesso prepara un trionfo, spiana le montagne davanti ai nostri passi perché il cammino sia piano e diritto, colma ogni valle perché si possa andare sicuri, persino le selve invece di minacciare diventano riparo ombroso dal calore. Non siamo abbandonati lungo la strada, il rientro non dipende dalle nostre abilità, partire e decidere di camminare dipende da noi (crescere ad ogni passo nella carità e nel discernimento, ci dice ancora la lettera ai Filippesi), ma il cammino è preparato e custodito e l’esilio ci sta alle spalle.

Davanti a noi l’immagine bellissima di Gerusalemme che come una madre che esce dal lutto, si riveste a festa e si alza ad accogliere i figli che credeva morti. Potremmo vedere in questa immagine la chiesa, che attende di diventare ciò di cui il mondo ha bisogno: il segno visibile ed efficace della comunione che Dio realizza con gli esseri umani e fra gli esseri umani. La chiesa (noi), oggi così affaticata, spesso poco credibile, abbarbicata in difesa di un tempo finito e persino a volte lontana dal Vangelo, si alza in piedi pronta ad accogliere ciascuno di noi che torna per renderla ciò che deve essere: il popolo di Dio in mezzo agli esseri umani, perché tutti possano sperare, trovare pace, vivere. Il segno credibile dell’amore del Padre.

Non importa quanto è stato lungo l’esilio né quanto abbiamo pianto: “Dio ricondurrà Israele con gioia alla luce della sua gloria, con la misericordia e la giustizia che vengono da lui”. Questo attendiamo.

27 - Nov - 2021

I Domenica di Avvento anno C

Avvento

I Domenica di Avvento

Anno C

(Ger 33,14-16   Sal 24   1Ts 3,12-4,2   Lc 21,25-28.34-36)
Domenica 28 Novembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ogni volta che nella vita ci troviamo ad aspettare qualcosa di importante, soprattutto un incontro che sappiamo essere decisivo per noi, nel nostro cuore abitano da una parte l’esaltazione, la speranza, il desiderio che tutto avvenga presto, e dall’altra la paura, la trepidazione, l’angoscia persino. Quando un incontro è decisivo infatti può riempire la nostra vita del bene che speriamo (e da qui la attesa gioiosa e trepidante) oppure può distruggere i nostri desideri (e da qui la paura, la tendenza a spostare in avanti il momento, l’ansia).

Le letture di questa domenica, che aprono il tempo d’Avvento cominciando a farci leggere il Vangelo di Luca, hanno questo sapore agrodolce, perché prendono sul serio l’incontro con Dio che ci aspetta: nel Vangelo i toni apocalittici degli stravolgimenti e della paura, nella prima lettura la bellezza della realizzazione di ogni attesa. Questi pochi versetti del profeta Geremia, dopo aver parlato di giorni in cui si realizzano le promesse di bene fatte da Dio, nominano per bene tre volte la realizzazione della giustizia (giusto, giustizia, Signore-nostra-giustizia) e per due volte fanno riferimento al germogliare (farò germogliare un germoglio giusto). A chi ascolta e – come noi – vive in un mondo ingiusto, questo annuncio apre scenari altri e promette una novità. Il Vangelo, però, sembra riportarci subito con i piedi per terra evocando segni nel cielo e angoscia sulla terra e annunciando una paura da morire davanti a ciò sta per accadere. Invece del compiersi del bene, sembra venirci incontro qualcosa di terribile. E proprio a queto punto Gesù ci sorprende: infatti quando arriva ciò che fa temere ci invita ad alzare il capo perché la nostra liberazione è vicina.

Sembra quasi dirci che il male o gli eventi spaventosi del mondo non sono il segno che Dio è lontano e disinteressato, ma al contrario sono il luogo in cui viene: quando il pericolo si fa più intenso è proprio il momento in cui lui è più vicino. E per questo occorre vegliare, non bisogna lasciarsi distrarre dagli affanni – rimanendo bloccati dalla paura – né dal desiderio di sfuggire la realtà – le ubriachezze – ma non bisogna lasciarsi neppure trascinare a sperperare la vita e ciò che si è (dissipatezze), come se non stessimo aspettando nessuno, come se il Signore non stesse preparando l’incontro con noi, come se la vita fosse senza meta.

Sembrerebbe che il compimento delle promesse di bene e il germogliare della giustizia vadano cercati proprio in mezzo a ciò che più spaventa delle vicende della vita, mentre tutto quello che bisogna fare nell’attesa (ci dice Paolo in questi pochi versetti della lettera ai Tessalonicesi) sembra sia crescere nell’amore. È l’amore infatti che ci permette di vivere nello sconvolgimento di cielo e terra portando vita dove sembra non ci sia, abitando ovunque, anche in quello che sembra un inferno, facendo spazio alla vita e facendola crescere. E così, amando, si sta attenti a se stessi, perché istruiti da Dio su quale sia via giusta e su quali siano i suoi sentieri (Dio si confida con chi lo teme!). In un attesa così vissuta forse proveremo anche timore, ma questo sorgerà solo dall’amore: chi ama non teme di incontrare chi spera gli dirà che vuole passare la vita con lui? E la donna che sta per partorire non teme all’idea di avere il primo figlio? Forse proprio questo santo timore che nasce dall’amore ci libererà dal rischio di perderci altrove, dimenticandoci chi è che ci sta aspettando e cosa sta facendo germogliare. Ecco verranno giorni: questi giorni.

20 - Nov - 2021

Festa di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo anno B

Cristo Re

p. Marko I. Rupnick

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

Anno B

(Dn 7,13-14   Sal 92   Ap 1,5-8   Gv 18,33-37)
Domenica 14 Novembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’immagine di Cristo re (per noi ancora più lontana di quella del pastore o del seminatore) ci parla di sovranità e di potere, ma nel caso di Cristo questa regalità è legata indissolubilmente e paradossalmente alla sconfitta della croce, costringendoci a ripensare l’idea stessa che abbiamo di potere. In che modo Cristo regna e su chi?

Davanti a Pilato che rappresenta i poteri di questo mondo Gesù sta inerme. Viene consegnato da altri e non ha possibilità di liberarsi perché – dice – il suo regno non è di questo mondo. Il suo potere cioè non si gioca sullo stesso piano di quello di Pilato e non ha le stesse regole: non per niente la prima lettura ci dice che si tratta di un potere eterno, di un regno che non finirà mai. Viene sulle nubi (così ancora nella prima lettura tratta dal libro di Daniele) e non dalla terra. Non bisogna  intendere però questo potere come qualcosa che non ha a che fare con il mondo e la storia in cui viviamo (che buona notizia sarebbe?) ma piuttosto come un potere altro, diverso da quello che siamo abituati a conoscere eppure più forte, più decisivo.

Difficile credere che ci sia un altro potere da quelli che siamo soliti vedere: egoismo, ricchezza, ingiustizia, sfruttamento, manipolazione, violenza. Gesù, davanti a Pilato, era consapevole che fosse difficile vedere un altro potere, tanto più per un esponente del potere dell’impero romano tutto immerso in una logica dalla quale non era in grado di liberarsi, eppure – poiché era venuto proprio per rendere testimonianza alla verità – Gesù riconosce davanti a Pilato di essere re. Sa che Pilato non può capire, ma questo è il momento della testimonianza ultima e Gesù non si tira indietro.

Gesù dichiara di essere re, ma solo la Pasqua che sta per accadere mostrerà che cosa significa essere re e certo si farà evidente che una tale regalità non è di questo mondo. La seconda lettura – tratta dal libro dell’Apocalisse – ci indica il cuore di questa regalità: egli ci ama e ci ha liberati donando la sua vita (mostrandoci cioè che l’amore è capace di sconfiggere ogni morte). La regalità di Gesù consiste nel far vivere. Non si tratta di un potere che prevarica o fa favori per togliere problemi, ma molto più profondamente, con una mitezza e una fedeltà straordinarie, ci ridona continuamente la vita, dandoci la possibilità di vivere come un regno e sacerdoti. Chi riconosce Gesù come re, infatti, cioè chi sa che da lui è stato liberato e messo in condizione di vivere, sceglie di vivere come lui e così la nostra vita diventa il regno stesso di Gesù: il luogo concreto dove lui può oggi amare e liberare altri, il luogo dove regna una logica che non è di questo mondo. E proprio il nostro vivere facendo spazio al suo amore e alla sua libertà (che ci affranca da tutte le schiavitù che ci opprimono, dalle nostre ferite ai nostri peccati, fino alle cose che non riusciamo a comprendere e ai doni che non riusciamo ad onorare) è il nostro sacerdozio che permette di trasformare la storia in cui viviamo in offerta viva gradita a Dio.

Quella di Gesù è la signoria dell’amore e della vita, davvero è di un altro mondo, eppure niente c’è di più forte e proprio il Risorto, consegnato dai sacerdoti e disprezzato da Pilato, ce lo mostra indefettibilmente. Pilato non poteva capire, ma Gesù ha dato lo stesso la sua testimonianza per noi e ce la ripete oggi colmandoci di speranza: io sono re.

12 - Nov - 2021

XXXIII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXXIII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Dn 12,1-3   Sal 15   Eb 10,11-14.18   Mc 13,24-32)
Domenica 14 Novembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La prima lettura, tratta dal libro di Daniele, e il Vangelo usano un linguaggio apocalittico che ai tempi in cui è vissuto Gesù era usuale, ma che è molto distante dal nostro modo di parlare. Si tratta di un linguaggio fortemente simbolico, pieno di contrasti, volutamente esagerato per colpire l’immaginario e il sentire, perché guarda la storia cercando di coglierne gli elementi decisivi, ciò che va assolutamente visto se non si vuole perdere l’occasione decisiva per vivere. I toni vengono esasperati e si descrive la vita come il teatro di una lotta fra il bene e il male, spingendo chi ascolta a prendere posizione e ad agire perché di conseguenza, perché è ormai giunto il momento decisivo.

È un linguaggio a cui non siamo abituati, ma se ci pensiamo bene, è un linguaggio assolutamente sensato per descrivere la vita umana: non va ogni momento vissuto come se fosse quello decisivo? Come possiamo sapere se quello che sta accadendo è la svolta cruciale della nostra vita o semplicemente l’ultima cosa che ci è data di vivere? E non sono forse tutte le generazioni di fronte al fatto che potrebbero essere l’ultima (così come dice Gesù nel Vangelo) e di fronte ad un tempo di grande angoscia (così come dice il libro di Daniele)? La crisi ambientale, la crisi economica, la pandemia, non ci mettono di fronte all’urgenza di agire come se questi fossero gli ultimi tempi che abbiamo a disposizione? Non lo sono forse davvero?

Guardando lo scorrere del tempo ci è chiesto di riscoprire che questo è il momento decisivo, perché proprio ora, quando angoscia (prima lettura) e tribolazioni (Vangelo) si fanno più intense, Dio sta venendo a salvare il suo popolo. Come quando vediamo intenerirsi il ramo degli alberi e spuntare le prime foglie noi sappiamo che arriva la bella stagione, così quando si staglia all’orizzonte quello che più spaventa, le minacce per la vita e per l’umanità intera, proprio ora bisogna cogliere la presenza del Figlio dell’uomo, del Risorto, che indica la via della vita da seguire, proprio ora si fa più vicina la salvezza. Lui (così ci guida la seconda lettura ancora tratta dalla lettera agli Ebrei) ha già attraversato angoscia e morte, mostrandoci la loro sconfitta e ora attende che ogni nemico – ogni morte cioè – venga sottomessa ai suoi piedi. Guardando lui, tenendo fisse nel cuore le sue parole che non passeranno, possiamo attraversare la tribolazione e lo sconvolgimento del mondo (indicato da Marco con l’immagine dei corpi celesti che perdono luce e altezza), certi con il salmista che il Signore è nostra parte di eredità, che la nostra vita è nelle sue mani e che per questo possiamo gioire e riposare, perché Dio ci indicherà il sentiero della vita in fondo al quale ci aspetta gioia piena e dolcezza senza fine. È questo, infatti, il momento in cui Dio salverà il suo popolo.

05 - Nov - 2021

XXXII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXXII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(1Re 17,10-16   Sal 145   Eb 9,24-28   Mc 12,38-44)
Domenica 7 Novembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia di questa domenica ci aiuta ad avere i criteri di giudizio di Dio, ad imparare come lui valuta le cose e che cosa ritenga davvero prezioso. Pare infatti che la sua unità di misura sia diversa dalla nostra: non conta il peso del metallo prezioso, né le dimensioni dello spazio occupato, né dimostra alcun interesse per i numeri che si possono vantare. Tutto questo – sempre ricoperto da un insidioso velo di innocenza soprattutto quando abbiamo soldi, potere o numeri per fare il “bene” – rischia di nutrire solo il nostro meschino bisogno di farci guardare, di essere distinti dagli altri perché importanti (gli scribi passeggiano in lunghe vesti per ricevere saluti e vogliono i primi posti nelle sinagoghe) o buoni (pregano nelle piazze), a prescindere da ciò che facciamo davvero (gli stessi scribi divorano le case delle vedove). Davanti a Dio non conta niente che possa essere quantificato (beni, risultati, numeri), la sua scala di valori è totalmente altra. Gesù siede nel tempio davanti al tesoro. Guarda la fila di coloro che gettano nel tesoro le proprie offerte. Tutti guardano e vedono le quantità grandi che luccicano e fanno rumore cadendo in mezzo alle monete e ai beni: ognuno viene visto e si fa guardare, ricevendo lode e ammirazione in base alla ricchezza della propria offerta. In tutto questo scambio mercantile di offerte e riconoscimento, Dio non è nemmeno considerato: conta il valore di chi riesce a offrire molto e conta l’ammirazione di chi pubblicamente riscontra questo valore. Poi arriva una vedova. Povera. Quando è il suo turno, forse da dietro le ricche vesti di chi lascia cadere ben altro peso, getta nel tesoro due monetine, un’offerta di nessun valore. Con buona probabilità, disprezzo o pena sono sorti nel cuore di chi l’ha vista: non ha arricchito di nulla il tesoro, perché non ha nulla di valore. Non è nessuno. E non è neanche saggia, perché si è privata del poco che le poteva procurare un pezzo di pane. Ma uno, Gesù, in mezzo alla folla ha visto altro. Chiama i discepoli, come fa di fronte agli eventi importanti, e addita loro la vedova come maestra di vita: quello che lei ha messo nel tesoro valeva più di quello che hanno messo gli altri. Loro hanno messo del loro superfluo e hanno ricevuto come ricompensa la lode effimera e volubile degli esseri umani, lei – ignorata e disprezzata – ha offerto più di tutti perché ha dato tutto quello che aveva per vivere.

Il gesto di lei, però, non ha più valore soltanto perché è totale, ma proprio perché agli occhi degli altri vale poco. Ciò che lei fa non è stimato, non le porta onore, né primi posti, né saluti o sguardi ammirati: il suo gesto quindi viene solo dall’amore di Dio, dal desiderio di onorarlo con tutto quello che lei è, oltre e al di là di qualsiasi vantaggio o onore per sé. L’amore la domina, l’amore folle che fa dare anche quello che ti serve per vivere. E Gesù, che sta per essere ucciso come uno la cui vita sarà stimata un nulla, comprende bene ciò che lei fa: anche lui per amore getterà se stesso e nessuno lo stimerà niente. Solo il Padre stimerà il suo dono come il più prezioso, un’offerta così preziosa che non ci sarà più bisogno di offrirne un’altra (come ci dice la lettera agli Ebrei).

È la logica dei piccoli che il Signore predilige, la logica di chi non accumula ricchezze di alcun tipo per garantirsi la vita, ma di chi getta la propria vita amando Dio, le sorelle e i fratelli. È la logica di chi non considera alcun tornaconto e non misura il guadagno del proprio offrire, ma è dominato dal bisogno dell’altro e così, come la vedova di cui si narra nel primo libro dei Re, quando qualcuno chiede di condividere il poco che ha per vivere, non esita e finisce del tutto sorprendentemente a trovarsi a moltiplicare – con la propria generosità – i beni poveri che aveva e che finiscono per nutrire molti in abbondanza.

È una logica altra. E quel giorno, nella calca odorosa del tempio, fra i rumori e la confusione, il Signore ne è rimasto completamente sedotto, contemplandola in una vedova povera. E questa bellezza ha offerto ai suoi come il tesoro più prezioso del tempio.

30 - Ott - 2021

XXXI Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXXI Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Dt 6,2-6   Sal 17   Eb 7,23-28   Mc 12,28-34)
Domenica 31 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Se domenica scorsa i pochi versetti della lettera agli Ebrei (seconda lettura) riprendevano la condizione umana di Gesù e quindi la sua capacità di comprendere tutte le nostre debolezze, perché anch’egli ha vissuto questa stessa debolezza, oggi, continuando la lettura della stessa lettera, Gesù ci viene descritto come senza macchia e perfetto, diverso dai sacerdoti umani (il confronto è fatto con i sacerdoti del culto ebraico) che devono offrire sacrifici anzitutto per le proprie mancanze. In che cosa consiste questa perfezione, però, dal momento che sappiamo che anch’egli conosce bene la debolezza, la sofferenza e persino la morte?

Gesù stesso ce lo rivela nel momento in cui questo scriba (siamo arrivati al dodicesimo capitolo del Vangelo di Marco) lo interroga: quale è il primo di tutti comandamenti? Questa domanda potrebbe essere, forse, riformulata così: a cosa ti dedichi? Di che cosa ti preoccupi sempre? Per che cosa vivi? E Gesù risponde non con un comandamento, ma con due. E non risponde seguendo l’ordine dei dieci comandamenti (certamente i più importanti fra i tanti che la tradizione ebraica conosceva e conosce) ma risponde dalla pienezza del suo cuore: il primo dei comandamenti è amare Dio con tutto ciò che si è e si ha, con l’intelligenza (mente), le azioni (forza) e con ogni respiro (l’anima). Aggiunge poi che questo amore non è mai solo, perché quando si vive amando Dio, si ha – proprio come Gesù – un cuore appassionato e compassionevole, e quindi l’amore di Dio si accompagna sempre all’amore del prossimo che viene amato come se stessi. L’altro infatti non è Dio e non può essere amato come Dio, come senso di ogni respiro, ma nemmeno si può amare se stessi così, perché nemmeno noi siamo Dio: Dio va amato sopra tutto, con tutto quello che siamo, e in questo amore, che diventa come l’aria che respiriamo, possiamo appassionarci all’altro, dedicarci a lui e a noi stessi, senza che nessuno di questi amori prenda il sopravvento sull’altro. Si scopre così, come lo scriba, che l’amore vale più di tutti i sacrifici, perché l’amore di Dio, del prossimo e di se stessi vissuti insieme conduce alla vita, non alla morte né all’immolazione di sé.

Mantenere l’equilibrio non è facile: dedicarsi ad amare Dio senza curarsi di sé e del prossimo fa della nostra vita qualcosa di disincarnato e non vero, perché Dio stesso è amore che spinge verso l’altro: solo chi ama conosce Dio. D’altra parte amare il prossimo come se fosse più importante di Dio e della nostra stessa vita può portarci a fare dell’altro un padrone (perché lo trattiamo come Dio ma non lo è) facendoci perdere libertà e vita. Amare infine solo se stessi – anche se si parla di Dio e si fanno opere buone – è solo la caricatura dell’essere umani, perché l’essere umano – creato ad immagine di Dio – è definito dall’amore. Si scopre così che per amarsi, per farsi del bene e custodire la propria vita, occorre avere un cuore capace di passioni, di affetti, di dedizione, di legami: per amarsi (per darsi vita) occorre trascorrere il proprio tempo nell’amore di Dio e del prossimo.

Così, ascoltando le Parole di Dio che ci insegnano l’amore – ci dice la prima lettura tratta dal Deuteronomio – si prolungheranno i nostri giorni, saremo felici e numerosi in una terra piena di delizie. La pienezza della vita riposa nell’amore dunque, proprio come è per Dio è anche per noi: questa è la roccia sicura, il baluardo, la potente salvezza che ci viene offerta contro ogni nemico. E questa è la via che conduce al regno di Dio, da cui secondo Gesù lo scriba non è lontano, al luogo cioè in cui solo la vita di tutti e tutte viene favorita e custodita, dove niente altro che non sia amore ha diritto di cittadinanza e spazio da occupare, un luogo che possiamo abitare già ora, proprio come Gesù, dediti all’amore che conduce alla pienezza della vita.

22 - Ott - 2021

XXX Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXX Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Ger 31,7-9   Sal 125   Eb 5,1-6   Mc 10,46-52)
Domenica 24 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il brano del Vangelo di questa domenica è l’ultimo miracolo raccontato dall’evangelista Marco. Gesù oramai è alle porte di Gerusalemme: deve ancora insegnare e poi vivere la Pasqua, ma non compirà più miracoli. Si tratta di un momento importante dunque in cui vengono tirate le somme di quanto è successo fino a qui. Siamo di fronte ad un cieco mendicante, di cui sappiamo alcuni dettagli, per cui si può ipotizzare che sia rimasto poi nella cerchia dei discepoli (d’altra parte il racconto si conclude con il cieco guarito che segue Gesù). Questo cieco sente dire che passa Gesù e grida forte, al punto da attirare l’attenzione di Gesù che lo chiama.

La scena riprende quella dell’uomo ricco, letta due domeniche fa: entrambi cercano Gesù (anche se in modo diverso) ed entrambi se lo trovano di fronte; il ricco parla con Gesù e viene fissato con amore, il povero cieco balza in piedi e non si fa pregare due volte quando il Signore gli chiede: che cosa vuoi che io ti faccia? Se l’uomo ricco aveva fatto la sua domanda (cosa devo fare per avere la vita eterna?), ma poi non aveva saputo accettare la risposta che gli chiedeva di abbandonare le ricchezze, il povero cieco viene interrogato e non ha dubbi su cosa vuole, anzi vede in Gesù una tale ricchezza per sé da abbandonare il mantello, cioè l’unico bene che avesse al mondo.

Ad entrambi il Signore offre la vita, cioè la possibilità di seguirlo, ma mentre il ricco rifiuta l’offerta esplicita di diventare un discepolo, il povero cieco non ha bisogno nemmeno di essere invitato. Si comprende allora che ciò che egli cercava non era solo riavere la vista, ma la pienezza della vita. Non è Gesù che guarda stavolta (come era accaduto con il ricco), ma è il cieco a vedere e, una volta guardato il Signore, non se ne vuole più andare. Paradossalmente sembra che la salvezza di Dio, la vita di lui, sia più alla portata di coloro che tutti considerano esclusi. La prima lettura (libro di Geremia) ci descrive questa salvezza come un’esplosione di vita che riguarda proprio ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti, tutti coloro – insomma – che sono fragili e sanno bene di non potersi salvare da soli.

La loro condizione è così favorevole alla relazione con Dio che il Signore ha scelto per sé – così nella seconda lettura tratta dalla lettera agli Ebrei – proprio la loro debolezza e la loro fragilità. Potendo scegliere non ha voluto essere un ricco e un potente, ma un fragile e un povero, uno che – come questo povero cieco – si troverà spogliato a gridare sulla croce perché il Padre lo salvi. Bartimeo ha la sapienza necessaria per abbandonare il mantello, che paragonato a Gesù non vale nulla, e per seguirlo sulla via della fragilità, per questo Gesù lo dichiara salvato, usando per lui le stesse parole che aveva detto alla donna emorroissa tanto tempo prima. Entrambi questi campioni di fragilità hanno saputo riconoscere Dio che si faceva presente per donare loro la vita e così non se ne sono andati via tristi, ma esultanti come chi contempla il rovesciamento della propria sorte e non perché ora sono diventati forti, ma perché essere forti non ha più alcuna importanza. Ciò che conta è la vita, fragile eppure indomita, che gli viene continuamente offerta. E così possono dire col salmista “la nostra bocca si apri al sorriso, il Signore ha fatto grandi cose per noi”. Se ne andavano piangendo, ma ora tornano con le braccia colme di beni. Dove sia rimasto il mantello abbandonato in fretta e in furia, non importa davvero.

15 - Ott - 2021

XXIX Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXIX Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Is 53,10-11   Sal 32   Eb 4,14-16   Mc 10,35-45)
Domenica 17 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Domenica scorsa il papa ha aperto il Sinodo dei vescovi sulla sinodalità (cioè su come dare alla chiesa una forma istituzionale e delle prassi che permettano di discernere, decidere e camminare insieme) e in questa domenica lo stesso Sinodo viene aperto nelle diocesi. Provvidenzialmente dunque il Vangelo di oggi ci parla di come dovrebbe essere connotata ogni responsabilità cristiana, all’interno della chiesa e fuori di essa, perché uno dei temi centrali del Sinodo è proprio come vivere l’autorità nella chiesa.

Il Vangelo ci invita a questo proposito a rovesciare la mentalità del mondo: se i potenti delle nazioni le dominano e le opprimono, per i discepoli di Cristo non deve essere così. Chi vuole essere il più grande, cioè quello che ha responsabilità, deve farsi il più piccolo, perché il compito di chi riceve un qualsiasi incarico o ministero è spendersi perché quelli che gli sono affidati vivano di più e meglio. Lo stile di chi è responsabile di altri somiglia, dunque, a quello dei genitori: curare, far crescere, farsi da parte, non ricevere alcun onore per quello che si fa, ma lasciare in primo piano quelli che sono da curare e far crescere. Il potere cristiano – abbiamo detto altre volte – è quello di dare la vita ad altri ed ha la logica della madre Terra, che più è fertile più scompare sotto i frutti che le crescono addosso. Così dovrebbe essere nella chiesa per chi ha una qualche responsabilità e così dovrebbe essere per ogni cristiano che ha responsabilità anche al di fuori della chiesa: far vivere, favorire la crescita e la realizzazione di tutti e tutte, senza preoccuparsi di quale posto ci viene assegnato (qui Giacomo e Giovanni vorrebbero addirittura sedere alla destra e alla sinistra di Gesù nel suo regno!), di quali titoli ci vengono rivolti o di quali vantaggi ci possano venire dalla responsabilità ricevuta.

Solo così tramite prassi che, concretamente e non solo a parole, ci mostrano i responsabili come quelli che continuamente si occupano della vita altrui, il potere sarà cristiano, cioè rifletterà lo stile di Gesù che, dopo aver condiviso ogni nostra debolezza (così nella lettera agli Ebrei) è arrivato a offrirsi in sacrificio purché noi vivessimo (bellissimi i pochi versetti del profeta Isaia). La vita di Gesù è diventata così nutrimento, come la Terra che fa crescere ciò che si radica su di lei, e persino la sua morte ha portato frutti sovrabbondanti di vita. Questo è l’unico modo di governare, guidare o avere responsabilità nella chiesa che possa dirsi cristiano, dunque, mentre ogni oppressione o dominio degli altri, nonché ogni esaltazione o affermazione di se stessi sarebbero l’esatto contrario, anche se poi le persone (così nella versione del Vangelo di Luca) ci chiamassero benefattori.

Farsi piccoli, mettersi in ascolto, favorire la vita altrui, condividere le responsabilità, questo è lo stile dell’autorità che trova spazio in una chiesa sinodale. Si tratta di un cammino lungo ma affascinante e pieno di speranza, per il quale con il salmista preghiamo: su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo.

08 - Ott - 2021

XXVIII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Sap 7,7-11   Sal 89   Eb 4,12-13   Mc 10,17-30)
Domenica 10 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Se domenica scorsa la liturgia della parola ci illuminava sul rapporto viziato fra maschi e femmine, oggi ci conduce a riflettere sul rapporto con le ricchezze: il denaro, certamente, ma anche la tranquillità sociale, l’affermazione di sé, il ruolo, il prestigio, la sicurezza affettiva. La ricchezza dell’uomo protagonista di questo incontro con Gesù può essere identificata con tutto ciò su cui si può poggiare solidamente, ciò che ci fa sicuri. Ma proprio perché – nella fin troppo evidente precarietà della vita – sentirsi sicuri e forti ha un’attrattiva prepotente, quanto le braccia tese della mamma per un bambino impaurito, la prima lettura (dal libro della Sapienza) ci ammonisce a considerare come un po’ di sabbia o di fango tutta la ricchezza del mondo se paragonata alla Sapienza di Dio: questa è una ricchezza incalcolabile, al confronto con la quale tutto il resto è una miseria. Pensiamo in fondo di saperlo, sappiamo che niente ci può garantire la vita o la felicità (tanto meno i soldi o la considerazione degli altri), ma se per noi è davvero così, lo sappiamo solo alla prova dei fatti, quando la vita ci chiede di scegliere, come avviene per il protagonista del Vangelo di oggi.

Si tratta di un uomo religioso, devoto, un’ottima persona che osserva i comandamenti di Dio fin dalla giovinezza. E, come se questo non bastasse, ha il desiderio di avere di più, vuole sapere cosa fare per guadagnare la vita eterna. Forse anche questa domanda denota il bisogno di una sicurezza. Ha osservato i comandamenti ma non è sicuro di avere la vita per questo. C’è da domandarsi se non dovrebbe essere già un così fedele ascolto della parola di Dio a dargli la pace necessaria per vivere e sperare. Perché cerca altro? Oppure, magari, è spinto da un sincero desiderio di andare oltre: proprio la pratica dei comandamenti l’ha aperto a cercare una maggiore intimità con Dio, una vita che sia pienamente sua. Comunque sia, arriva davanti a Gesù: che cosa devo fare? Chiede questo.

Dopo aver detto a Gesù di aver osservato i comandamenti, riceve in cambio lo sguardo fisso del Signore e il suo amore. Gesù viene preso dal desiderio (l’amore è un desiderio) che questo uomo, capace di fare la volontà di Dio e di chiedere ancora altro, diventi uno dei suoi. Vuole che faccia il passo di chi esce dalle sicurezze date dalla posizione sociale, dalla famiglia, dal denaro, per fare di Gesù stesso (e di quelli e quelle che lo seguono) il suo riferimento, ciò al confronto del quale tutto il resto va considerato spazzatura. Quando l’uomo se ne va triste, incapace di rinunciare ai propri beni, Gesù incolpa la ricchezza: chi poggia sicuro su qualche ricchezza, infatti, fatica di più a fare Dio la roccia su cui trovare riparo. Chi sta annaspando in mare si afferra ad ogni pezzo di legno che vede, ma chi è galleggia anche solo dentro una barchetta malandata fa fatica a gettarsi in mare verso il salvagente gettato dalla nave venuta a salvarlo: e se non arrivo in tempo? E se non mi tirano su? E se poi non ce la faccio? E si resta lì, perduti in mezzo al mare, ma come se fossimo in salvo.

Davanti alla parola di Gesù (viva ed efficace, capace di penetrare fino al punto di divisione dell’anima, fino alle giunture e alle midolla, nonché di discernere i sentimenti e i pensieri) quest’uomo si scopre aggrappato alla propria ricchezza, come se questa fosse davvero capace di dargli la vita. Sentiva il desiderio di cercare la vita eterna, ma forse in realtà sperava di essere confermato di averla già trovata, o forse, semplicemente, non ha avuto il coraggio di cercarla più se il prezzo era perdere ciò che lo rendeva sicuro. Alla prova dei fatti ha scoperto su che cosa realmente sperava per vivere. Se invece avesse avuto il coraggio di andare con Gesù, avrebbe scoperto che ciascuno di quelli che fanno di Dio l’unica solida roccia su cui poggiare ricevono, subito, cento volte tanto di tutto quello che pensavano di perdere e, poi, la vita eterna. Gesù non promette a chi lo segue una vita priva di affetti (cento volte tanto in fratelli, sorelle, figli e madri) né di beni (campi), ma ci mette in guardia: fondare la propria vita sulle ricchezze (siano queste soldi o prestigio o anche ruoli sociali o ecclesiali) ci rende schiavi delle stesse ricchezze che abbiamo. Esse non saranno più il dono prezioso che ci parla dell’amore del Padre, ma ciò da cui dipendiamo e così perderemo libertà e pace. Saremo ricchi, allora, certamente, ma tristi, magari portando con noi la nostalgia di quello sguardo pieno di amore con cui il Signore ci implorava di seguirlo, desideroso di essere per noi così prezioso da valere tutto il resto. In fondo quando si ama, non è questo che si vuole essere per chi si sceglie?

01 - Ott - 2021

XXVII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Gen 2,18-24   Sal 127   Eb 2,9-11   Mc 10,2-16)
Domenica 3 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia della Parola di questa domenica mette al centro la relazione fra maschi e femmine, in modo particolare la relazione affettiva e sponsale che si può dare fra loro. Questa non è idilliaca, ma minacciata fin dall’inizio. Nel racconto della Genesi infatti l’autore sacro ci descrive l’essere umano ancora asessuato (né maschio né femmina) che viene addormentato per dar vita a due diverse modalità di essere umani: la femmina e il maschio. Quest’ultimo però quando si sveglia dal sonno, dichiara che ciò che vede (la femmina) è uscita da lui ed è sua: la prima affermazione è falsa (la femmina non è fatta con una parte del maschio, ma è l’essere umano asessuato che viene diviso in maschio e femmina, anche se la traduzione che leggiamo non ci aiuta subito a capirlo) e la seconda affermazione è una pretesa violenta, perché senza nemmeno rivolgerle la parola e senza farla parlare, l’uomo decide e dichiara che la donna è per lui. L’autore della Genesi ci rende così l’ambiguità dell’esperienza delle relazioni fra maschi e femmine: un dono offerto gli uni alle altre per essere un aiuto reciproco con il rischio, però, che uno prenda l’altro per sé, per il proprio comodo.

Non è strano che sia il maschio a compiere questa violenza, perché le società antiche, come ancora la nostra, non sono paritarie e non danno alle donne le stesse possibilità di disporre di sé che hanno gli uomini, per cui sono questi ad essere nella posizione di fare violenza (anche se poi le donne hanno saputo e sanno trovare altre vie per divorare a loro volta chi dovrebbe essere per loro un aiuto reciproco). Nei tanti femminicidi che accadono, queste dinamiche vengono drammaticamente alla luce; quando infatti un uomo perde il controllo su una donna o questa non fa quello che lui si aspetta, questi può arrivare persino ad uccidere, perché imbevuto di una cultura e di una logica che fanno di lui quello che ha il diritto di dirle: tu sei uscita da me e sei fatta per me.

Gesù (che, nei pochi versetti della lettera agli Ebrei che costituiscono la seconda lettura, è indicato come solidale nelle sofferenze degli esseri umani, tanto da essere per loro un fratello) conosce bene le fatiche delle relazioni fra uomini e donne e quando gli viene posta la questione del ripudio (che non è il divorzio, cioè una separazione paritaria, ma un abbandono della moglie ridotta per questo molte volte in una condizione sociale ed esistenziale terribile) insegna un’altra logica, quella originaria, cioè quella del progetto di Dio che parlava di dono reciproco e di custodia reciproca. Nessuno dei due può avere il potere di ridurre l’altro/a in una condizione di abbandono, ma devono imparare a riconoscersi carne l’uno dell’altra, qualunque cosa accada. Potremmo arrivare a dire che, anche nel caso in cui una relazione matrimoniale diventasse impossibile, marito e moglie dovrebbero continuare a favorire la vita dell’altro/a in ogni modo umanamente possibile, senza abbandoni e senza umiliazioni, come invece prevedeva il ripudio (anche se avveniva solo nei confronti della donna).

Il modello che Gesù offre per vivere così sono (di nuovo) i bambini. Questi infatti non sono mai in posizione di potere, non possono umiliare o abbandonare, ma stanno di fronte agli altri come chi attende la vita ed è pronto a ricambiare il dono ricevuto con una dedizione assoluta. I bambini sanno di non essere autonomi e di non essere più grandi di nessuno: questa piccolezza che li fa aprire alla fraternità è ciò che Gesù insegna per ogni relazione, compresa quella – tanto affaticata – tra maschi e femmine. La logica del regno è sempre la stessa: farsi i più piccoli perché la vita di nessuno sia impedita.