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20 - Nov - 2021

Festa di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo anno B

Cristo Re

p. Marko I. Rupnick

Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

Anno B

(Dn 7,13-14   Sal 92   Ap 1,5-8   Gv 18,33-37)
Domenica 14 Novembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’immagine di Cristo re (per noi ancora più lontana di quella del pastore o del seminatore) ci parla di sovranità e di potere, ma nel caso di Cristo questa regalità è legata indissolubilmente e paradossalmente alla sconfitta della croce, costringendoci a ripensare l’idea stessa che abbiamo di potere. In che modo Cristo regna e su chi?

Davanti a Pilato che rappresenta i poteri di questo mondo Gesù sta inerme. Viene consegnato da altri e non ha possibilità di liberarsi perché – dice – il suo regno non è di questo mondo. Il suo potere cioè non si gioca sullo stesso piano di quello di Pilato e non ha le stesse regole: non per niente la prima lettura ci dice che si tratta di un potere eterno, di un regno che non finirà mai. Viene sulle nubi (così ancora nella prima lettura tratta dal libro di Daniele) e non dalla terra. Non bisogna  intendere però questo potere come qualcosa che non ha a che fare con il mondo e la storia in cui viviamo (che buona notizia sarebbe?) ma piuttosto come un potere altro, diverso da quello che siamo abituati a conoscere eppure più forte, più decisivo.

Difficile credere che ci sia un altro potere da quelli che siamo soliti vedere: egoismo, ricchezza, ingiustizia, sfruttamento, manipolazione, violenza. Gesù, davanti a Pilato, era consapevole che fosse difficile vedere un altro potere, tanto più per un esponente del potere dell’impero romano tutto immerso in una logica dalla quale non era in grado di liberarsi, eppure – poiché era venuto proprio per rendere testimonianza alla verità – Gesù riconosce davanti a Pilato di essere re. Sa che Pilato non può capire, ma questo è il momento della testimonianza ultima e Gesù non si tira indietro.

Gesù dichiara di essere re, ma solo la Pasqua che sta per accadere mostrerà che cosa significa essere re e certo si farà evidente che una tale regalità non è di questo mondo. La seconda lettura – tratta dal libro dell’Apocalisse – ci indica il cuore di questa regalità: egli ci ama e ci ha liberati donando la sua vita (mostrandoci cioè che l’amore è capace di sconfiggere ogni morte). La regalità di Gesù consiste nel far vivere. Non si tratta di un potere che prevarica o fa favori per togliere problemi, ma molto più profondamente, con una mitezza e una fedeltà straordinarie, ci ridona continuamente la vita, dandoci la possibilità di vivere come un regno e sacerdoti. Chi riconosce Gesù come re, infatti, cioè chi sa che da lui è stato liberato e messo in condizione di vivere, sceglie di vivere come lui e così la nostra vita diventa il regno stesso di Gesù: il luogo concreto dove lui può oggi amare e liberare altri, il luogo dove regna una logica che non è di questo mondo. E proprio il nostro vivere facendo spazio al suo amore e alla sua libertà (che ci affranca da tutte le schiavitù che ci opprimono, dalle nostre ferite ai nostri peccati, fino alle cose che non riusciamo a comprendere e ai doni che non riusciamo ad onorare) è il nostro sacerdozio che permette di trasformare la storia in cui viviamo in offerta viva gradita a Dio.

Quella di Gesù è la signoria dell’amore e della vita, davvero è di un altro mondo, eppure niente c’è di più forte e proprio il Risorto, consegnato dai sacerdoti e disprezzato da Pilato, ce lo mostra indefettibilmente. Pilato non poteva capire, ma Gesù ha dato lo stesso la sua testimonianza per noi e ce la ripete oggi colmandoci di speranza: io sono re.

20 - Nov - 2020

Solennità di Cristo Re (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

Solennità di Cristo Re (A)

(Ez 34,11-12.15-17   Sal 22   1Cor 15,20-26.28   Mt 25,31-46)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Siamo così arrivati alla fine del venticinquesimo capitolo del Vangelo di Matteo che ci ha accompagnato in queste domeniche. Siamo stati portati in mezzo alle dieci ragazze che attendono lo sposo per chiederci se viviamo la vita intenti a procurarci ciò che serve per l’incontro: se abbiamo con noi l’olio per riaccendere le lampade. Poi siamo stati messi in mezzo ai servi che, ricevute le monete da amministrare, attendono il ritorno del padrone, per scoprire che ciò che serve per attendere l’incontro con Dio è il coraggio di vivere la vita spendendo se stessi in ciò che Dio ci mette tra le mani perché porti frutto e si moltiplichi. Oggi, veniamo portati davanti al giudizio finale.

In realtà una forma di giudizio si aveva anche nelle altre domeniche: sei una ragazza stolta o saggia? sei un servo buono o infedele? Oggi per parlare del giudizio, però, veniamo portati in mezzo al gregge (bellissima l’immagine della prima lettura del profeta Ezechiele) e veniamo passati in rassegna: ogni pecora conosciuta e guardata, recuperata da dove si era dispersa, fatta riposare, curata e scrutata per cogliere la verità di ciascuna. Il giudizio, così, non è presentato come qualcosa di terribile, ma come una cura di Dio che lenisce le ferite che ci siamo fatti e mostra la verità su quelle che abbiamo inferte ad altri.

Questo giudizio, il suo sguardo cioè, rivela se ciò che abbiamo vissuto, se il modo in cui abbiamo impiegato i talenti, ha portato frutto oppure è stato un seppellire ciò che ci era stato affidato e quindi ora ci ritroviamo con le lampade spente. Per sapere questo però Dio ci spinge a guardare fuori di noi. Non sappiamo infatti se siamo stati saggi e ci siamo spesi per far fruttificare quanto ci è stato affidato (piccolo o grande non importa: solo Dio lo sa) se non guardando gli altri. La nostra bontà (servo buono, benedetto) non si scopre guardando se siamo stati moralmente corretti, quali intenzioni avevamo, quali doti o capacità, se abbiamo avuto successo o se abbiamo rispettato le regole, la bontà dei servi, la differenza fra le pecore e le capre, si misura su come stanno gli altri che ci sono affidati. Se le persone che abbiamo avuto intorno a noi, a cominciare dai più piccoli, hanno avuto modo di nutrirsi e dissetarsi (di avere cioè la possibilità di una vita dignitosa), di trovare casa e vestiti (di essere cioè riconosciute nella loro dignità per vivere le indispensabili relazioni umane) e di essere consolate nella malattia e nella colpa (di poter toccare con mano cioè che non c’è condizione in cui Dio non ami e non si faccia presente), se le persone intorno a noi hanno, in una parola, ricevuto un po’ di vita dal nostro ordinario e persino inconsapevole (quando Signore?) operare, il giudizio di Dio rivelerà che abbiamo fatto fruttare i nostri talenti, che siamo servi buoni e fedeli, saggi tanto da trovarci una lampada colma d’olio come se la notte non fosse nemmeno iniziata.
Il giudizio infatti è condotto secondo i criteri di Dio e quindi secondo l’amore che inevitabilmente ci spinge a far vivere quelli chi amiamo, liberandoli in ogni modo dal male. Per questo chi vive combattendo il male che fa soffrire gli esseri umani e cercando di alleviare le loro fatiche, condivide lo stesso regno di Cristo che è re proprio in questo suo dominio sul male, realizzato con il servizio, la cura, il dono silenzioso e misconosciuto di sé. E questo suo regno, che si diffonde e si rafforza in quelli che credono in lui, conduce contro il male una lotta senza quartiere quanto nascosta in cui l’ultimo nemico ad essere sconfitto (così san Paolo nella seconda lettura) sarà la morte.
Davanti a questo Signore dobbiamo comparire, per questo conviene andare ad incontrarlo non con le mani pulite di chi si è preso cura di sé, ma con le mani sciupate di chi allevia le fatiche altrui arrivando a sporcarsi con il male che li minaccia. Allora sarà evidente che siamo state pecore docili che si sono fatte condurre sulla stessa via che il pastore ha scelto per sé e con lui, una volta fasciate le ferite e sconfitti tutti i nemici, entreremo in quella vita che noi stessi abbiamo cercato di moltiplicare per quelli che ci erano stati affidati.
23 - Nov - 2019

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Cristo Re

p. Marko I. Rupnick

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXXIV Domenica del Tempo Ordinario

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nell’ultima domenica del tempo ordinario, celebriamo la solennità di Cristo re. Forse per noi la regalità è qualcosa di distante, ha il sapore antico della storia passata, se non quello surreale delle fiabe, per cui prima ancora di comprendere in che modo Cristo possa dirsi re, lui che non ha voluto esercitare potere su nessuno ed ha esplicitamente respinto la tentazione di regnare su tutti i luoghi della terra, è bene provare ad entrare nel senso di un’immagine così antica.

Il re era certamente un uomo potente, temibile, assimilato alla divinità, se non venerato come tale. Il popolo doveva e voleva stringersi intorno a lui perché lui garantiva l’unità di tutti e in qualche modo ne rappresentava la salvezza. Questa però era vista nella possibilità di far prosperare il popolo e di difenderlo dai nemici, quando non, addirittura, di sottometterli per arricchirsi.
Con questa speranza nel cuore, anche gli israeliti – che già avevano abbandonato la frammentata struttura tribale per stringersi intorno a Saul – cercano Davide perché possa prendersi cura di loro e custodirli. La scelta cade su Davide, però, non per le sue qualità o per la sua capacità di persuadere il popolo a seguirlo, quanto per la scelta che Dio fa e che segue criteri distanti da quelli del successo e del potere.
Il popolo e Davide stringono allora un’alleanza, diventano un corpo solo (siamo tue ossa e tua carne, con un’espressione che richiama l’unione sponsale), perché da questo momento in poi il volere del re sarà quello del popolo e il destino del re quello del popolo.
Anche la regalità di Gesù dipende dalla scelta del Padre su di lui, il figlio prediletto inviato agli uomini per dare loro la vita, ma nel Vangelo che proclamiamo questa domenica appare evidente come dipenda anche da lui, dalla risposta che lui dà alla scelta del Padre.
Nel breve brano di Luca, Gesù è in croce. Per tre volte viene provocato: salva te stesso. Ogni re, d’altra parte, è scelto per salvare e far vivere il popolo, deve essere quindi in grado, anzitutto, di salvare e far vivere se stesso. Gesù però ha scelto un’altra via. Lui non è re per imporsi sugli altri, per mostrare il suo potere e le sue capacità, nemmeno per salvarli, ma solo per rendere evidente che il segreto della vita, la sua logica profonda sta nella consegna al Padre e che questo è colui che fa vivere e salva.
Se si fosse salvato da solo, avrebbe avvalorato la logica del mondo per cui vince chi ha potere, chi ottiene risultati, chi ha influenza, chi trova modi più o meno leciti per mandare le cose come vuole lui. A fin di bene magari, ma chi agisce in questo modo testimonia che la vita dipende da noi e autorizza tutti a cercare di salvare se stessi, piegando la realtà e gli altri se serve, perché prima di tutto occorre garantirsi la vita.
Gesù sceglie un’altra via. Si consegna al Padre perché lui lo salvi e tutti vedano così che c’è un solo modo per entrare nella vita e nella pace: lasciarsi amare dal Padre. Così non risponde alle provocazioni e decide di non salvare se stesso.
Il malfattore crocifisso alla destra di Gesù intuisce che lui è liberato dalla paura della morte, non perché non la senta o perché la sofferenza sia meno dura, ma soltanto perché sa di riceversi continuamente e allora può sperare di essere richiamato alla vita. Il ladrone intuisce che in questo modo di morire c’è una sapienza altra che lo fa sperare, una sapienza che inaugura un regno, perché ci si può stringere a questo re, facendo alleanza con lui in modo da entrare nella vita e nella pace di cui lui sembra conoscere la via.
“Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.
“Oggi sarai con me in paradiso”. Questa è la risposta di Gesù, con la quale lui sancisce l’alleanza con il primo fratello che forma il popolo di quelli che sperano in lui: sarai con me. Gesù si sceglie come compagno di vita quello che aveva saputo stare con lui nella morte, che aveva saputo riconoscere una bellezza nel suo essere sfigurato, tanto da difenderlo. Non si scandalizza del peccato, che pure il ladrone riconosce (noi giustamente), perché questo non lo porta a giustificarsi e a disprezzare Gesù che muore anche se non ha fatto niente di male (l’altro ladrone invece sembra confermato nel male fatto: in fondo perché fare il bene se la fine è la stessa?). Gesù vede, forse, nello sguardo intelligente del ladrone che sa andare oltre la condanna di Gesù e lo riconosce come re, una consolazione del Padre, una conferma di essere nel giusto. “Oggi sarai con me in paradiso”: ricorda e spera ciò che attende e promette al ladrone che sarà anche per lui, perché lo vuole con sé, come l’amico che ha saputo consolarlo mentre tutti lo disprezzavano.
Noi vediamo, come il malfattore, la bellezza di questa morte fatta per amore e nella speranza? Scegliamo un re che non vince, che non ha potere, che non ha influenza su nessuno, che non ci ottiene favori, ma ci mostra quanto è solido e fedele l’amore del Padre, chiedendoci di vivere solo per questo? La tentazione di instaurare un regno qui, dove gli altri ci riconoscano valore, dove possiamo ottenere risultati e vittorie (sempre a fin di bene, per carità!) è fortissima anche per i credenti e per la chiesa. Così facendo però non siamo più nel Regno di Gesù, di questo re, ma di altri. Non tutti sono cattivi, ma non sono lui.
Noi invece (come ci ricorda lo splendido brano della lettera ai Colossesi) liberati dal potere delle tenebre (che ci spinge sempre a cercare di salvarci ottenendo ciò che ci sembra ci procuri la vita) possiamo goderci il perdono ed entrare nella famiglia di quelli che, come il primo malfattore, stringono alleanza con Gesù e così entrano nel suo regno. Egli è l’immagine di Dio, dell’Amore che lui è, ed è anche il senso di tutto ciò che esiste, perché tutto è fatto per entrare in una relazione filiale con il Padre: tutto esiste per essere, come il Figlio e stretto a lui, abbandonato all’amore del Padre che salva. Lui è anche il capo del corpo che è la chiesa, cioè il popolo che ha fatto alleanza, fino ad essere una sola carne con lui ed è capace così di renderlo presente perché tutti possano vederlo, ascoltarlo e sperare. In lui l’alleanza con Dio è perfetta, perché possiamo stringerci a Cristo che mentre si lega a noi ci lega al Padre suo con il quale vive un’unica vita.
Un re di un altro mondo, con un’altra logica e un’altra forza. Un re consegnato a Colui che tutto sostiene e fa vivere. “Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”.