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11 - Feb - 2022

VI Domenica T.O. anno C

Tempo Ordinario

VI Domenica Tempo Ordinario

Anno C

(Ger 17,5-8   Sal 1   1Cor 15,12.16-20   Lc 6,17.20-26)
Domenica 13 Febbraio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Tutti cerchiamo la vita e perciò, visto quanto siamo fragili ed esposti, cerchiamo qualcosa di solido su cui fondarla, qualcosa che ci garantisca nutrimento e serenità. Questa tensione è sana (chi cerca la morte e di farsi del male è malato o distorto), ma non sempre ci porta a riporre la nostra fiducia in ciò che davvero può garantire la vita.

Può capitare infatti che ci accontentiamo di un nutrimento superficiale, che rassicuri il nostro io anche in ciò che non andrebbe incoraggiato, oppure che aspettiamo la salvezza da chi non è in grado di darcela (persone o cose per esempio, fragili come noi). Può capitare anche che pur di sentirci bene, senza conflitti, vitali, ci accontentiamo di beni provvisori incapaci di arrivare alle profondità delle nostre domande e del nostro bisogno di vivere. Può capitare cioè, per dirlo in sintesi, che pur di sentirci vivi, ci affidiamo totalmente a ciò che muore o fa morire.

Credo che tale dinamica possa essere colta nelle letture di questa domenica. Nel brano del profeta Geremia, che riprende molto da vicino il primo salmo proposto come salmo responsoriale, abbiamo da una parte la sorte di chi confida nell’uomo e finisce per trovarsi in terre aride e salmastre, in cui nessuno può vivere, e dall’altra la sorte di confida nel Signore ed è fecondo anche nella siccità. Se il malvagio si ferma in compagnia degli stolti, la persona beata è quella si allontana da ciò che è male per radicarsi in Dio, continuando così ad attingere vita anche quando le condizioni si fanno avverse. Il problema non è la siccità (che può venire e anzi verrà certamente), il problema è dove affondano le nostre radici, su cosa veramente fondiamo noi stessi.

Nel Vangelo Gesù ci aiuta a verificare dove ci siamo radicati. Riusciamo ad attingere la vita quando siamo poveri, affamati, tristi e ingiustamente perseguitati? Riusciamo a portare frutti anche in queste condizioni? Se questo accade vuol dire che non ci siamo fatti ingannare. Vuol dire che sappiamo che la ricchezza non è indispensabile e che può essere persino una minaccia perché ci insinua l’idea che non abbiamo più bisogno nemmeno di Dio. Vuol dire anche che sentirci soddisfatti (sazi) e contenti non sarà più importante di ogni cosa e così saremo in grado di condividere, rinunciando a ciò che abbiamo, e saremo in grado di sopportare la tristezza, se dovesse capitare, senza per questo smettere di rallegrare altri. Se riusciamo, infine, a portare frutto anche nelle persecuzioni, vuol dire che la giustizia ci interessa di più del nostro benessere. Tutto questo significa che siamo liberi di cercare la vita sempre e comunque, senza che niente possa ingannarci, convincendoci che se avremo la ricchezza (o la salute? O il buon nome? O qualsiasi altra cosa) certamente non avremo bisogno di altro.

E se abbiamo questa libertà, la vita che viene da Dio, nel quale affondiamo le radici con qualsiasi tempo e in qualsiasi condizione, non verrà meno, nemmeno di fronte alla morte (la resurrezione di cui ci parla Paolo nella prima lettera ai Corinzi riguarda proprio la sconfitta di questo ultimo nemico). Confidare in Dio non vuol dire mortificarsi rinunciando a ciò che la vita può dare se ci diamo da fare o troviamo gli agganci giusti, ma – al contrario – confidare in Dio significa lasciare che lui ci faccia vivere sempre e portare frutto anche nelle condizioni peggiori. Beati davvero quelli e quelle che vivono così, perché nessuna fame, nessun dolore, nessuna privazione e nessuna persecuzione potrà minacciarli davvero. Beati.

12 - Feb - 2021

VI Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

VI Domenica T.O. (B)

(Lv 13,1-2.45-46   Sal 31   1Cor 10,31-11,1   Mc 1,40-45)
Domenica 14 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Domenica scorsa abbiamo visto Gesù decidere di allontanarsi dal luogo dove in tanti avevano gustato la guarigione e la vita che usciva da lui. Aveva scelto di andare oltre, di lasciare un assoluto protagonismo alla parola del Padre che poteva salvare e liberare molto di più dei prodigi che lui poteva compiere. Ora però si trova davanti un lebbroso.

Aveva capito ciò che doveva fare, cominciava anche ad intuire il rischio che lo cercassero per i segni che compiva (quante volte nei Vangeli se ne lamenterà!), ma tutto questo si infrange davanti a questo uomo malato che lo supplica in ginocchio. La prima lettura, dal libro del Levitico, ci fa immaginare ciò che gli occhi di Gesù vedono: le vesti strappate, il volto coperto, le piaghe, la solitudine, l’impossibilità di stare con qualcuno, di partecipare alla preghiera. Ai suoi piedi un uomo sfigurato dalla sofferenza, diventato informe e invisibile, come se fosse morto eppure condannato a vivere, senza riposo.
E Gesù prova compassione. Il verbo che viene usato qui indica proprio la contrazione delle viscere (materne) che ci prende quando vediamo qualcuno del quale intuiamo il dolore, una compassione che ci fa sentire in qualche modo la sua fatica e ci fa muovere per alleviarla perché è come se quella fatica gravasse su di noi, proprio come accade alle madri (e ai padri) con i loro bambini, il dolore dei quali non possono tollerare. Neanche Signore può resistere a quel dolore e guarisce il lebbroso. Questa guarigione, però, si rivela subito un errore strategico in ordine a quello che Gesù aveva deciso di fare, perché non può entrare più in nessuna città e quindi la sua predicazione è ostacolata.
La guarigione di questo lebbroso diventa per Gesù un intralcio sulla via dell’annuncio, che invece doveva avere l’assoluto primato.
Nelle parole che Paolo scrive ai corinzi troviamo una dinamica simile: Paolo si raccomanda di non scandalizzare le persone con comportamenti che potevano essere presi per immorali o antisociali (ovviamente in base ai codici morali e sociali del tempo), perché questa “buona fama” dei credenti era fondamentale per poter annunciare. Non importava quale libertà i cristiani avessero raggiunto, ma non dovevano porre inciampi agli altri sulla via del Vangelo e quindi non dovevano far pensare loro che essere cristiani distruggesse ciò che loro ritenevano decoroso e buono. Si trattava in fondo di una compassione, cioè di un farsi vicini ai fratelli e alle sorelle ancora ignari della libertà del Vangelo, un atteggiamento opposto alla tentazione che a volte prende la chiesa quando si ritiene un clan di giusti che sanno sempre che cosa va fatto e guardano gli altri dall’alto verso il basso, senza alcuna reale comprensione per le fatiche e le bellezze della loro vita, senza la compassione che invece piega Gesù verso questo lebbroso.
Non ci è dato sapere se Gesù si sia pentito di questo gesto di pietà, ma se Marco ce lo racconta vuol dire che la prima comunità cristiana ha colto anche in questo episodio una buona notizia. D’altra parte lasciarsi toccare dal grido di chi soffre è ciò che Dio ha fatto fin dall’inizio dell’alleanza e così Dio viene reso presente proprio in questo coinvolgersi di Gesù con la sofferenza e il Vangelo, che per ora non può annunciare perché braccato dalle folle, si alza potente dalla dalla bocca del lebbroso e dalla vita che gli è stata restituita. E così, dopo aver deciso di dare spazio più che ai prodigi alla Parola, Gesù ne contempla la potenza: se anche lui non può parlare (anche quando non potrà più parlare), altri lo faranno per lui, altri la cui carne sanata in mille modi diversi mostrerà la compassione di lui, nella quale bellissimo si disegna il volto del Padre e si dipana il racconto dell’amore viscerale che lo abita.
21 - Feb - 2020

VII Domenica del T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

VII Domenica T.O. (A)

(Lv 19,1-2.17-18   Sal 102   1Cor 3,16-23)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La sapienza di Dio non è paragonabile a quella umana: di fronte alla prima quest’ultima, incapace di reggere il confronto, appare come una stoltezza. Così Paolo nella prima lettera ai Corinzi. E in questa domenica, continuando la lettura del discorso della montagna riportato da Matteo, ci viene illustrata di nuovo la sapienza di Dio riguardo l’amore.

Ad una lettura troppo veloce di questa pagina di Vangelo, potrebbe sembrare che amare chi ci ama sia più facile che amare i nemici e che questa ultima forma di amore sia quella più alta, in quanto si amerebbe senza avere nulla in cambio. Ma l’ultima frase del brano può aiutarci a dare una lettura altra: siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste. Dobbiamo chiederci dunque come ama il Padre, se vogliamo davvero capire cosa sta dicendo Gesù. Il Padre certamente fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi (e quindi non ripaga gli uomini in base a quanto lo amano), ma, altrettanto certamente, è anche colui che vuole essere riamato: l’amore che riversa su di noi è gratuito, ma è dato per essere accolto come un dono e ricambiato.
Dio vuole che l’amiamo e così è evidente che solo l’amore ricambiato è quello veramente perfetto. Se questa è la natura dell’amore, non si può permettere a chi amiamo, benché resti libero di non ricambiare, di non rispettarci, per il valore che abbiamo davanti a Dio (non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? ci ricorda la prima lettera ai corinzi) e per la natura stessa dell’amore. Una relazione vissuta lasciandosi umiliare, infatti, non sarebbe amore, perché l’amore chiede la reciprocità: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Anche Dio fa così con noi, già nei comandamenti. Nella prima lettura, tratta dal Levitico, per esempio, vediamo come Dio chiede agli israeliti di corrispondere al suo amore imitando il suo stile: santi come lui, incapaci di serbare rancore e amorevoli, come lui. Non ama disinteressandosi di come viene amato. Tutto il contrario: mostrando l’ampiezza della sua misericordia e l’abbondanza della sua guarigione, aspetta la lode gioiosa dell’essere umano, perché l’amore si compia e il dono giunga a buon fine.
Accade però che l’altro non ci ami, che sia nemico. In questo caso la sapienza degli uomini – ci ricorda Gesù – porterebbe a trattare l’altro come lui tratta noi, da nemico dunque, altre volte porterebbe a fare qualunque cosa pur di compiacere l’altro per renderlo benevolo fino ad umiliarsi, ma in nessuno dei due casi si vive secondo il cuore generoso e amante di Dio. Quindi, che fare?
L’unica possibilità che è data nella relazione col nemico è non opporsi al male, cioè non rispondere a questo con altro male. Fare tutto il bene possibile, beneficare, pregare, lasciarsi prendere ciò che si ha. L’altro non capirà il bene ricevuto, non amerà, ma almeno saremo riusciti (e questo è l’essenziale per chi ama) a fargli del bene, a portargli vita. Per tale motivo non si restituisce lo schiaffo preso: per non fare del male all’altro e per non offenderlo. Per questo ci si lascia prendere qualcosa di nostro (anzi si è contenti di aggiungere ciò cui il nemico non aveva pensato): perché l’altro goda di questo bene. Per questo si fa la strada che l’altro vuole (e anche di più): perché non resti solo.
Non è ancora la pienezza dell’amore, con i nemici non ci è data, perché non c’è reciprocità, ma è comunque amore e si può misurare sul bene fatto all’altro, sulla vita che ne riceve. Così si consola Dio nei nostri confronti, quando non riesce ad avere il nostro amore e a godersi la nostra amicizia, almeno può farci il bene, far sorgere il sole e far piovere. Può sempre darci vita e continua a farlo, sperando che ci salgano alle labbra le parole del salmista:  Benedici il Signore anima mia, quanto è in me benedica il suo nome santo. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici!
 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani
14 - Feb - 2020

VI Domenica T.O.(A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

VI Domenica T.O. (A)

(Sir 15,16-21   Sal 118   1Cor 2,6-10   Mt 5,17-37)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Scorrendo il brano della prima lettera ai Corinzi, leggiamo che la sapienza di Dio è nascosta. Non si mostra platealmente come la sapienza dei dominatori di questo mondo, ma segretamente viene rivelata a coloro che credono. Lo Spirito, infatti, che conosce le profondità di Dio, viene donato ai credenti, che così conoscono (senza nemmeno sapere come) quelle cose che mai erano entrate nel cuore dell’uomo, quelle che nessuno aveva udito e visto.

Lo Spirito però non solo ci svela ciò che abita il cuore di Dio, ma ci spinge anche ad amarlo, a sceglierlo per avere la vita, riponendo la fiducia in ciò che Dio vuole (così si esprime la prima lettura tratta dal Siracide). Per questo il salmista ci invita a chiedere che Dio ci apra gli occhi per accorgerci della bellezza della legge, che ci dia di comprendere quale sia la sua via e che ci infonda l’intelligenza necessaria a custodirla.
E Gesù, in questo lungo e famoso discorso detto “della montagna” (il primo dei cinque del Vangelo di Matteo), colmato dallo Spirito di Dio, ci mostra proprio ciò che a Dio piace commentando la legge di Israele, e non come qualcosa di passato o di provvisorio, ma come una meraviglia tale da meritare di essere portata alle estreme conseguenze: non basta osservarla – non basta cioè una giustizia o una rettitudine in cui ci si può dire corretti – ma bisogna amarla così tanto, desiderarla così tanto, da spingerla oltre se stessa. Poiché la legge infatti è dominata dalla logica dell’amore (e chi ama sa che non ci si può mai sentire soddisfatti), è la legge stessa a spingere oltre, perché il desiderio e il bene dell’altro ci trovano sempre mancanti.
Così, nell’esporre le esigenze dell’amore, Gesù ci insegna che non solo l’altro non si può uccidere, ma che l’amore non tollera nemmeno di offendere o disprezzare, né sopporta alcuna divisione: se qualcuno che amiamo, infatti, ha qualcosa contro di noi, persino portare doni a Dio dovrebbe apparirci privo di significato (va prima a riconciliarti col tuo fratello).
L’amore può chiederci, inoltre, di perdere qualcosa di noi, persino una parte del corpo (dice paradossalmente Gesù), se questa ci fosse di scandalo, cioè ci bloccasse impedendoci di amare. Tale affermazione è incorniciata dal detto sull’adulterio e da quello sul ripudio, ovvero da due indicazioni riguardanti l’amore dell’uomo verso la donna (ai tempi di Gesù la relazione non era reciproca). E Gesù spiega che è da considerarsi un adulterio anche un desiderio non attuato, perché anche se non si lede il diritto del marito – come accadeva con l’adulterio secondo la mentalità del tempo – si lede comunque la dignità della donna e anch’essa va amata. Sul ripudio invece Gesù sottolinea che non si può ripudiare la moglie perché la si espone ad adulterio, la si getta cioè in una condizione di debolezza, di menzogna e di sofferenza e questo non è tollerato dall’amore. Non si tratta di difendere il valore dell’indissolubilità del matrimonio, ma di custodire l’altra (perché più debole in questa situazione), di fare il suo bene. Rispettare le regole non basta dunque, bisogna desiderare che l’altro viva. Infine l’amore – continua Gesù – chiede di non giurare, di non arrogarsi il possesso della verità, ma di lasciare piuttosto a Dio ogni parola definitiva, per poter in tutta mitezza offrire agli altri la semplicità di ciò che si è e si comprende, senza alcuna pretesa (sia il vostro parlare “sì sì” “no no”).
La sapienza di Dio, forte e potente che scruta ogni cosa, ci è stata dunque rivelata. Il segreto di Dio, cioè la sua passione indomabile per ogni uomo e ogni donna, è stata rivelata ai piccoli. E lo Spirito di lui che ci abita ci spinge come spinge lui stesso ad amare oltre ogni limite, con una giustizia incapace di accontentarsi di ciò che è secondo le regole, perché l’amore non ha altra misura che dare vita a chi si ama.
 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani