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25 - Set - 2021

XXVI Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Num 11,25-29   Sal 18   Giac 5,1-6   Mc 9,38-43.45.47-48)
Domenica 26 Settembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia della parola di oggi ci mette di fronte al pericolo che ciascuno/a corre di essere di ostacolo all’opera di Dio. Lo scandalo – come è noto – va compreso proprio come una specie di trappola che impedisce di camminare o che fa cadere, bloccando la persona. Similmente nella prima lettura troviamo la tentazione da parte di Giosuè di impedire ad alcuni (Eldad e Medad) di profetizzare. Giosuè serve Mosè fin da quando era piccolo, si è identificato con Mosè: non solo crede che sia il profeta di Dio, ma in qualche modo è diventato per lui tutto (già intuisce forse che ne sarà il successore, quindi ciò che lui sarà dipende da chi è Mosè). Sembrerebbe che se anche altri possono profetizzare, allora l’importanza di Mosè venga ridimensionata e di conseguenza ciò che sta facendo Giosuè non sarebbe più così importante: non è il servo più vicino all’unico profeta, ma un servo di uno di quelli – per quanto grande – che Dio chiama a profetizzare. “Impediscili!” è ciò che d’istinto Giosuè dice a Mosè. E similmente Gesù risponde nel Vangelo ai suoi che volevano impedire a uno di fare il bene – liberava dai demoni! –, bisognava fermarlo a loro parere solo perché non era dei loro.

Sei geloso tu per me? Così risponde Mosè a Giosuè ben consapevole che l’opera di Dio travalica infinitamente le sue povere possibilità e che ogni profezia è una benedizione, perché ciò che conta non è che Mosè veda riconosciuto il proprio ruolo o la propria importanza, ciò che conta è invece che il popolo ascolti la parola di Dio e di questa lui è solo un servitore, solo uno dei servitori. E anche Gesù è su questa linea: chiunque fa qualcosa nel nome di Gesù – cioè chiunque fa qualcosa con il suo stile che libera e fa vivere – non può essere contro di lui. E – aggiungiamo – quanti più sono meglio è.

Al contrario (continua il Vangelo di Marco) guai a chi scandalizza. Guai a chi impedisce di camminare, a chi allontana da Dio e dalla vita. Non c’è che da rallegrarsi per chi fa il bene (perché anche se non è dei nostri è per noi), invece per chi impedisce il bene, per chi schiaccia l’altro, per chi gli mostra un volto di Dio che non è quello del Padre, per questi (anche se dice di essere dei nostri) sarebbe meglio la morte (le parole di Gesù sono durissime, per far comprendere la gravità di questo atteggiamento). Per questo Gesù ci insegna a fare attenzione a ciò che può diventare per noi motivo di scandalo: se anche una mano, un occhio, o il proprio compito al servizio di Dio (come per il giovane Giosuè) diventa un motivo di scandalo, qualcosa che fa bloccare il cammino dell’altro, meglio tagliarlo via. Se per difendere il proprio ruolo o la propria importanza, o le proprie ragioni, bisogna impedire che qualcuno faccia il bene o profetizzi, si sta correndo il pericolo di perdere se stessi, perché non si segue più la logica di Dio: tutto ciò che viene da Dio infatti favorisce la vita altrui e mai si ingelosisce di chi fa il bene, anche se ci togliesse il centro della scena.

L’ammonimento della lettera di Giacomo riguardante i soldi può allora essere esteso a tutte le ricchezze (talenti, lavoro, ruoli sociali o ecclesiali, relazioni…): facciamo attenzione che le nostre ricchezze non siano marce o mangiate dalle tarme, facciamo attenzione cioè a non investire le nostre risorse per gratificare noi stessi lasciando gli altri più poveri di prima. Facciamo attenzione che i doni di Dio non vengano consumati dalla misera ricerca di noi stessi e dell’affermazione di noi stessi, perché questo ci farà perdere tutto. Meglio tagliare via tutto quello che ci mette su questa strada – ci avvisa il Signore – per avere la libertà di godere della salvezza e della liberazione che lui prepara per tutti, in ogni modo e tramite chiunque gliene dia la possibilità.

25 - Set - 2020

XXVI Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XXVI Domenica T.O. (A)

(Ez 18,25-28   Sal 24   Fil 2,1-11   Mt 21,28-32)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Quando Dio guarda i suoi figli e le sue figlie, quando guarda ciascuno di noi, non emette mai un giudizio, né ci dà un’etichetta che ci classifichi. Quando Dio ci guarda vede il nostro cammino, vede i nostri slanci, le nostre cadute, il bene che abbiamo saputo fare, i tradimenti. Quando ci guarda Dio vede la trama della nostra storia e non dà per scontato il finale, anche quando noi non siamo nemmeno capaci di pensare che possiamo cambiare o aprici al nuovo. Così (rileggendo la prima lettura del profeta Ezechiele) Dio spera che il malvagio si converta trovando la via che lo fa vivere e quando vede che il giusto invece se ne allontana, comincia a sperare che si ravveda, indicandogli (come canta il salmo) la via giusta: continuamente, insistentemente, senza stancarsi.

Nel Vangelo questo modo di essere di Dio ci viene dipinto nell’immagine del Padre che dice ai figli di lavorare nella propria vigna (richiamandoci la parabola di domenica scorsa). Un figlio dice di no al padre, ma poi si pente e va. L’altro invece dice di sì, ma poi non va a lavorare. Ogni genitore ha fatto questa esperienza, sentendo il cuore allargarsi quando trova il proprio figlio o la propria figlia a fare ciò che prima si era rifiutato di accogliere. A volte lo fanno quando ci sembrava di non crederci più, ma poi quando li vediamo compiere il bene ci accorgiamo che in fondo l’avevamo sperato, perché sappiamo che i nostri figli hanno la capacità di scegliere il bene. Così dobbiamo immaginare il cuore di Dio, colmo di compiacimento per quelli che ama quando si pentono di averlo rifiutato. Sembra di sentirlo mormorare sollevato: lo sapevo…discreto e felice come un genitore che piano si allontana dalla porta, dopo aver visto il proprio figlio immerso nel compito che aveva detto non avrebbe fatto. Dio crede in noi. Sempre. E spera sempre che il nostro no diventi sì.  Anche il rimprovero duro di Gesù ai sacerdoti e agli anziani dice tutta la speranza del Padre: li scuote perché si accorgano che non stanno lavorando nella sua vigna e nel fare questo aspetta che il no diventi un sì.
Egli vuole infatti (e qui merita di essere letta e meditata con cura la seconda lettura che ci comincia a proporre la lettera ai Filippesi) che abbiamo gli stessi sentimenti di Cristo, che non si è mai rifiutato di lavorare nella vigna del Padre (così potremmo rileggere la sua obbedienza senza limiti fino alla morte di croce), non preoccupandosi del proprio interesse o di voler primeggiare, quanto invece di amare e di chinarsi sull’altro. Lavorare nella vigna del Padre, infatti, altro non è che assumere la postura di Cristo, che si fa più piccolo dei suoi fratelli e delle sue sorelle per poterli servire in modo che essi possano vivere. Per questo Dio lo ha esaltato, perché il suo sì è stato tale da condurre alla vita chiunque lo voglia. A lui possiamo guardare e lui possiamo seguire, per essere figli e figlie capaci di lavorare nella vigna del Padre. E se il suo sì è stato pieno e senza cedimenti al contrario del nostro così inaffidabile e stentato, il suo amore e il suo mettersi al nostro servizio ci mostrano ciò che il Padre vede e cioè che nessuna storia è già decisa, nessun no è definitivo, nessun cammino impedisce di fare il prossimo passo in un’altra direzione. Il Padre lo sa, lo spera e ci attende. “Fammi conoscere Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri”.
28 - Set - 2019

XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Commento della nostra parrocchiana Simona Segoloni Ruta – Teologa

Anche il Vangelo di questa domenica torna sul tema del corretto rapporto con la ricchezza e anche questa volta abbiamo una parabola, che ha come scopo di aiutare a riflettere su che cosa convenga davvero. Il ricco della parabola infatti prospera in un lusso descritto con dovizia di particolari ed è talmente immerso nel suo mondo da non accorgersi nemmeno delle sofferenze disumane di chi gli sta davanti alla porta e che quindi vede ogni volta che esce ed entra in casa. Questo personaggio si accosta a quelli che il profeta Amos chiama “gli spensierati di Sion” che banchettano, bevono, si ricoprono di unguento e improvvisano sulla cetra come fossero Davide (sembra di cogliere una sfumatura ironica che rimarchi come questi si pensino ben più di quello che sono, perché la ricchezza spesso fa sovrastimare chi la possiede). La colpa di questi, come del ricco della parabola, non sembra essere la ricchezza in sé ma il fatto che non si preoccupano gli uni della rovina di Giuseppe (cioè del popolo) e l’altro del povero che ha davanti casa.

Come già notato altre volte scorrendo il terzo Vangelo, si deve sottolineare che non è la ricchezza ad essere un problema, ma che facilmente può diventarlo, perché il cuore dell’uomo si attacca ad essa e pur di goderne e mantenerla non si cura più di chi soffre, perdendo la misura di sé e della propria vita. Ci si inganna, pensando di bastare a se stessi e di salvarsi grazie al denaro che si possiede, senza bisogno che gli altri vivano e senza preoccuparsene. Il monito di Amos è terribile: finiranno in esilio. L’immagine di Gesù è ancora più dura: il povero sperimenterà la pace e la gioia nella vita di Dio, il ricco privo di ogni pietà sarà nei tormenti. La storia finisce così con un “rovesciamento” delle sorti, tipico del Vangelo di Luca. Chi ha sofferto ora è nella gioia e chi ha goduto soffre, perché non ha saputo privarsi nemmeno delle briciole di cui l’altro si sarebbe accontentato.
Magari questo rovesciamento non riguarda solo la vita in Dio, ma anche il momento presente. Forse si può essere nei tormenti anche mentre si godono i lussi, perché in fondo il prezzo da pagare in disumanità è pesantissimo. Per vivere in questa condizione infatti bisogna arrivare ad ignorare le sofferenze altrui, a non percepire più l’ingiustizia, a non pensare più di se stessi se non in termini economici e di benessere. Chi vive così perde molto di sé e delle possibilità che la vita offre.
D’altra parte, sembra di sentire parlare delle nostre società, così ineguali e ingiuste e del sistema economico mondiale. Quanti popoli sono insensibili alle sofferenze di quelli che non hanno altre possibilità che soffrire? Quanti governi e aziende sono insensibili ai danni causati dall’inquinamento che già colpiscono tantissimi e rischiano di colpire tutti? Quanti benestanti ignorano le fatiche dei poveri e quanti che hanno risorse economiche in abbondanza sfruttano chi non ne ha tramite rapporti di lavoro non dignitosi?
A volte ci dà fastidio anche che ci chiedano le briciole. Ma il prezzo da pagare per questa insensibilità è l’isolamento, la paura, la distruzione dell’ambiente, l’incapacità di provare compassione e di soccorrere. Perdiamo molto, per guadagnare un banchetto o un coppa larga o per far sfoggiare ricche vesti? Ma tutto questo non dura e non salva.
L’invito di Gesù è a convertirsi, ad ascoltare la Parola per vivere secondo la logica dell’amore e della condivisione. Come se ci dicesse, usando le parole della prima lettera a Timoteo: “tu, donna o uomo di Dio, evita queste cose e tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza”. Così infatti combattiamo la buona battaglia della fede e non scambiamo una ricchezza che dura poco per quello che ci può salvare. Invece davanti ai bisognosi che incontriamo ciò che possediamo (denaro, tempo, capacità, affetto) diventa una vera ricchezza, perché possiamo investirla per far vivere.
Ci accorgiamo di questo però solo se crediamo alla Parola di Dio, perché questa, che sembra così fragile e leggera, è capace di aprirci gli occhi per poter vedere la realtà più profondamente fino a trasformarla e farci scoprire nei bisognosi la risorsa che non ci fa sciupare i nostri beni. Accogliere questa Parola ci salva, perché ci cambia la comprensione del mondo, la valutazione delle cose e lo stile di vita. Se il ricco della parabola avesse ascoltato la legge non avrebbe confidato in un’illusione e non avrebbe inflitto sofferenze. Una parola sembra niente ma fa la differenza fra l’entrare nella vita o rimanerne fuori.