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02 - Lug - 2021

XIV Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XIV Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Ez 2,2-5   Sal 122   2Cor 12,7-10   Mc 6,1-6)
Domenica 4 Luglio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Alla fede della donna emorroissa che abbiamo incontrato domenica scorsa, fa eco l’incredulità – tanto grande da lasciare stupito anche Gesù – delle persone di Nazareth. Gesù va nella sua patria e proprio lì non riesce a compiere segni perché le persone che lo più lo conoscono – e quindi dovrebbero essere avvantaggiate nel dargli credito – non  credono. Riconoscono la sapienza che esce da lui e vedono i prodigi, ma non riescono ad andare oltre a ciò che già sanno: è il figlio di Maria e il fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone. E così la familiarità diviene per loro un ostacolo, uno scandalo, che impedisce il cammino della fede: anche se i fatti – la sapienza e i prodigi – li provocano a riconoscere in Gesù il profeta, non vogliono farlo. Il Signore si stupisce e dichiara che un profeta non è disprezzato se non fra i suoi, fra quelli che preferiscono tenersi le proprie idee sul loro parente o concittadino, che si accontentano di considerarlo uno di loro e non uno inviato a loro, da ascoltare e seguire.

Accade così per Gesù quello che tante volte i profeti hanno vissuto: vengono inviati da Dio a chi non vuole ascoltare (così i pochi versetti della prima lettura del profeta Ezechiele), ad un popolo indurito, che non vuole cambiare strada. Anche così però – di fronte a questa incredulità – Dio manda coloro che dicono la sua parola. Egli non abbandona il suo popolo perché testardo e incredulo: che almeno sappiano che c’è un profeta, che Dio non li ha abbandonati, che incessantemente offre la parola che può condurre alla vita. E allo stesso modo Gesù compie i pochi segni che gli sono possibili e mostra la propria sapienza anche di fronte agli increduli: che almeno sappiano, o possano sapere quando lo vorranno, che Dio lo ha mandato.

Può capitare anche (o proprio?) a chi più è immerso nel vissuto ecclesiale di indurirsi, per eccesso di familiarità, sicuro di sapere tutto e di essere nel giusto, fino a diventare sordo alla sapienza e cieco ai prodigi che il Signore compie: senza più stupore e senza più accorgersi se l’inautenticità o l’abitudine hanno preso il sopravvento. Quando questo (ci) capita, possiamo sempre ricordare che la parola di Dio non viene meno e ricominciare ad ascoltarla, abbandonando la tracotanza di chi crede già di sapere o di chi presume di essere già sulla strada giusta.

Ma qual è la via più sicura per mantenere il cuore sgombro da ostacoli che impediscano di accogliere e testimoniare la Parola? Nella seconda lettura Paolo testimonia di avere una spina nella carne (una sofferenza? una tentazione?) che gli impedisce di montare in superbia, di assumere cioè l’atteggiamento di chi si sente in alto. La propria debolezza diventa la via privilegiata per conoscere se stesso, gli altri – che non si possono più disprezzare una volta guardato con verità ciò che si è – e Dio, che si fa presente proprio nella fragilità che siamo e che non riusciamo a superare. L’accoglienza della propria debolezza è la via dunque per riconoscere la sapienza di Dio e vederne i prodigi, come anche è la chiave della nostra autenticità personale: se non sapremo accettare la debolezza che ci struttura, cercheremo di essere forti, potenti, di successo, vincitori, riconosciuti e considerati, e così non avremo più la libertà per ascoltare la parola, riconoscere i profeti ed essere a nostra volta profeti.

Gesù accoglie la propria debolezza: senza la fede altrui (che differenza con la donna emorroissa!) non può compiere prodigi. La sua potenza è consegnata alla fede di quelli che incontra, come la sua sapienza è consegnata – nella logica del seme – alla capacità di accoglienza di chi ascolta. Di fronte ai suoi – forse deluso e amareggiato oltre misura perché proprio quelli con cui è cresciuto e cui vuole bene reagiscono così – può solo essere se stesso, il profeta che Dio manda: qualunque cosa gli altri facciano, lui non negherà loro il dono della Parola che il Padre gli ha consegnato. Lo stesso amore caparbio è chiesto ai suoi: dovunque siamo, non importa se gli altri ascolteranno o meno, se ci riconosceranno o meno, se magari perseguiteranno o oltraggeranno, importerà solo che ciò che diciamo (e che facciamo vedere con la vita) siano le parole di Dio e non quelle dettate dall’abitudine o dal ruolo o dalla ricerca di noi stessi in un qualche potere o guadagno. E proprio qui, in questa debolezza disarmata, come Paolo, scopriremo di essere forti, perché in ogni cosa ci basta la sua grazia.

03 - Lug - 2020

XIV Domenica T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

XIV Domenica T.O.(A)

(Zc 9,9-10   Sal 144   Rm 8,9.11-13   Mt 11,25-30)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il giogo è l’attrezzo agricolo che si mette sul collo dei buoi (o di animali da tiro in genere) per far loro tirare l’aratro o altro. Serve a tenerli insieme, ma siccome pesa sul collo e costringe la testa in basso, ha assunto nel linguaggio comune un significato negativo, sinonimo di oppressione. Ma non ogni giogo è così. C’è un giogo oppressivo, che potremmo ricondurre a quello che Paolo in questo brano della lettera ai Romani chiama “dominio della carne”, che conduce alla morte, perché spinge a seguire i desideri che sorgono dalle nostre ferite, dalle nostre devianze e dall’illusione di poter saziare il bisogno di vita che proviamo divorando e accumulando cose e persone (questi sono i desideri carnali che portano alle opere del corpo, nel linguaggio di Paolo). E poi c’è un giogo liberante, qualcosa che ci lega e ci sta addosso non per schiacciarci e condurci alla morte, ma per darci vita e per resuscitarci, qualora dovessimo morire. Questo giogo che fa vivere è la vita secondo lo Spirito, cioè una vita vissuta sotto l’azione dello Spirito, soggiogati dalla sua azione liberante e benefica.

Proprio di questo giogo parla Gesù in questo bellissimo passaggio del Vangelo di Matteo: ci chiede di portare addosso la sua compagnia, la sua parola e il suo stile. “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Portare il suo giogo significa avere il suo cuore, essere dominati dal suo Spirito e quindi vivere la sua umiltà. Fare questo ci porterà ristoro.
Gesù attraversa la storia umile, come il re di cui parla la prima lettura tratta dal profeta Zaccaria. Un re giusto e vittorioso, che spazza via la guerra, che domina, ma con tutta umiltà, a cavallo di un’asina e non di destrieri imponenti. Un re umile che viene a visitare la figlia di Sion, cioè il resto povero e oppresso di Israele. Un re mite che viene per liberare un popolo di affaticati e oppressi e quindi non può spaventarli od opprimerli ulteriormente con manifestazioni di potenza e grandezza. Gesù ha vissuto proprio così e così si offre a noi: capace di dare ristoro a chi si sottomette al suo giogo, che comporta umiltà e mitezza. Egli si mostra come il Figlio che riceve tutto dal Padre: non vanta patrimoni o poteri propri, nemmeno la sua vita gli appartiene, ma tutto riceve dal Padre suo. Egli vive sotto il giogo del Padre, cioè avvinto e avvinghiato al suo amore, e vivendo di Lui e per Lui si offre a noi in tutta umiltà, come colui che nulla può da se stesso, ma tutto riceve e tutto dona.
Perché sono i piccoli a vedere in tutto questo una buona notizia e non i sapienti e i dotti? Perché i piccoli conoscono sulla propria pelle l’oppressione e la violenza dei potenti che quotidianamente gli tolgono la vita. Se Dio fosse un altro signore di questo genere, per di più fornito di poteri illimitati, sarebbe da fuggire e sicuramente da non servire. Invece quando Dio si mostra nel proprio Figlio, che si riceve umilmente dal Padre e si rapporta in tutta mitezza con i fratelli e le sorelle, i piccoli prendono fiato, cominciando a sperare di poter scambiare il giogo oppressivo del peccato (proprio) e della violenza (altrui) con un giogo liberante che li lega a chi non viola, non rapina, non umilia e non uccide, ma dona continuamente la vita.
E così Dio non è un altro dominatore potente da temere o da accontentare, come i grandi della terra vorrebbero provando a scimmiottarlo, ma è il Padre-madre misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore, buono verso tutti, pieno di tenerezza. Questa è la gloria e la potenza che non si può tacere, una cosa sola con la sua fedeltà e la sua bontà, che accompagna ogni passo, rialza chi cade e fa vivere tutto. Davvero un giogo dolce e un peso leggero, per cui rendere lode e benedire il Padre dei cieli.