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21 - Mag - 2021

Domenica di Pentecoste (B)

Pentecoste

Domenica di Pentecoste (B)

(At 2,1-11   Sal 103   Gal 5,16-25   Gv 15,26-27; 16,12-15)
Domenica 23 Maggio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Vangelo di questa solennità ci conduce nell’intreccio delle relazioni del Padre, del Figlio e dello Spirito. Gesù infatti promette che manderà lo Spirito che procede dal Padre, dicendoci che se lo Spirito esce dal Padre (questo vuol dire procede) non vuol dire che il Figlio non sia coinvolto in questo dono che ci viene fatto. Infatti Gesù dice ai suoi che questo Spirito li guiderà alla verità che lui non può dire perché prenderà ciò che è suo (che è poi ciò che è del Padre) e lo annuncerà. Sembra quasi che il dono dello Spirito che celebriamo a Pentecoste ci permetta di gettare lo sguardo nella vita intima delle Tre persone divine, facendoci accorgere che sono così strette l’una all’altra che mai riusciamo a vederne una sola. E così lo Spirito che ci viene donato ci immerge in ciò che il Figlio vive e che ci conduce inevitabilmente al Padre: “non parlerà da se stesso” dice Gesù, ma parla a partire da ciò che prende del Figlio e del Padre.

Ma che cosa è lo Spirito che nel racconto del libro degli Atti viene accompagnato da fragore, vento gagliardo e lingue di fuoco? Che cosa è questo Spirito che Gesù ci manda dal Padre e che il Padre fa uscire da sé? Si può comprendere solo dagli effetti che compie: e se nella prima lettura vediamo come è capace di insegnare agli uomini a parlare lingue nuove perché possano capirsi, incontrarsi e testimoniare le grandi opere di Dio, nella seconda lettura la potenza dello Spirito appare ancora più evidente. Infatti, pur senza gli elementi del racconto straordinario che viene utilizzato invece nel racconto degli Atti, ci troviamo di fronte ad una potenza che dimostra, dai frutti di cui è capace, di essere uscita da Dio senza ombra di dubbio: essa opera nel cuore degli esseri umani e che li rende capaci di amore, gioia, grandezza d’animo, di volere il bene degli altri, di bontà, fedeltà, mitezza, e della capacità di dominare ciò che di noi stessi può fare il male. Proprio qui, nelle profondità della nostra interiorità, quando osserviamo le inimicizie diventare amicizia, la gelosia diventare benevolenza, le ubriachezze e le orge (e ogni sregolatezza) stemperarsi nel dominio dei propri istinti. Quando la dissolutezza cede alla mitezza e la discordia sfocia nella pace, come quando la stregoneria e l’idolatria vengono abbandonate per la fedeltà, allora noi sappiamo di essere abitati dallo Spirito di Dio e ne conosciamo la potenza non più misteriosa, ma sorprendentemente nota.

La verità che Gesù non poteva dirci tutta insieme, perché non eravamo in grado di portarne il peso, ci viene donata nella carne, ormai riempita dalla potenza dello Spirito che ci abita. Non ci viene spiegata, ci viene messa dentro perché ci spinga verso la vita e il bene, lasciando indietro tutte le opere che conducono alla morte (quelle della carne nel linguaggio usato da Paolo). E così conosciamo le profondità dei segreti di Dio dall’amore che viviamo e dalla vita che portiamo; non le troviamo lontano, nelle speculazioni difficili della mente, né nella contemplazione mistica data a pochi, ma nel bene, piccolo e ordinario, che la bontà e la fedeltà di ogni giorno rivelano in tanti che nemmeno se ne accorgono. La buona notizia di questo giorno è allora che lo Spirito soffia potente nei cuori riempendo le nostre vite delle opere che Dio vuole per la vita del mondo e scioglie le nostre lingue perché il suo amore non rimanga nascosto ma raccontato proprio a partire dalle opere che lo Spirito ci fa compiere. Un giorno nuovo, un inizio nuovo, un ringiovanimento (come ci suggerisce il salmo) per la chiesa e il mondo intero, perché il Figlio manda dal Padre lo Spirito di verità che esce dal Padre. “Sia per sempre la gloria del Signore, gioisca il Signore delle sue opere. A lui sia gradito il mio canto, io gioirò nel Signore”.

14 - Mag - 2021

Ascensione del Signore (B)

Spirito del Risorto

Ascensione del Signore (B)

(At 1,1-11   Sal 46   Ef 4,1-13   Mc 16,15-20)
Domenica 16 Maggio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il tempo di Pasqua si conclude, grandiosamente, con le solennità di Ascensione e di Pentecoste, in un crescendo che, dopo aver a lungo meditato sulla resurrezione di Cristo, ci fa fissare lo sguardo sui frutti che questa resurrezione porta dentro la storia. Si comincia fissando il cielo (nelle orecchie gli squilli di tromba, i canti, le acclamazioni, i battiti di mani che ci suggerisce il salmo) come i primi testimoni della resurrezione; con il volto rivolto al mistero di Dio che non solo si è voluto incarnare ma accoglie in sé, nella sua vita senza fine, l’umanità che oramai il Figlio di non lascia più: un corpo umano dimora nel grembo di Dio, segno che l’alleanza di Dio con noi non è revocabile. Lo sguardo viene attratto: la nostra fragilità viene trasfigurata, i limiti stravolti dall’amore, il Figlio – pienamente uomo e con tutta la propria corporeità – ascende (si sposta cioè su un altro piano di esistenza) al Padre, ricostituendo con lui la comunione perfetta di vita che aveva prima e allo stesso tempo rinnovandola di quanto è diventato e ha vissuto:  il Figlio di Dio che ora è l’uomo Gesù, crocifisso e risorto, ascende al cielo.

A questo punto però come possiamo incontrarlo, dal momento che il suo corpo, la sua concreta visibilità ci è sottratta? Come ascoltarlo? Come poter constatare che egli vive? Nella seconda lettura ci viene presentato un lungo brano della lettera agli Efesini in cui ci viene annunciato che il corpo del Signore ora è costituito da quelli che credono in lui. Questi infatti, riempiti dallo Spirito che li rende figli del Padre, vengono stretti a Cristo e ne diventano le membra, al punto che se custodiscono “l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace” essi stessi diventano (per opera dello Spirito) il luogo in cui Cristo può essere visto, ascoltato e riconosciuto come il Vivente. Mentre sale al cielo infatti egli distribuisce ai chi crede in lui tutto ciò che è suo. E così ciascuno e ciascuna partecipano in modo unico e vario della sua pienezza e reciprocamente tutti si offrono quello che hanno ricevuto, in modo che il dono di uno nutra tutti: in questo modo il corpo di Cristo viene edificato, fatto crescere e custodito.

A questo punto, vivendo questa unità e questa cura reciproca nell’offrirci quanto ci viene partecipato del dono di Cristo, il Vangelo che annunceremo sarà credibile. Chi guarda e chi ascolta riconoscerà infatti che ciò che annunciamo è vero perché noi che annunciamo viviamo in modo tale da essere il corpo di lui, in modo cioè da rendere presente il Signore Risorto. Custodendo lo Spirito che abita e ci costituisce come corpo di Cristo infatti porremo anche noi i segni che accompagnano la predicazione: scacciare il male (scacceranno i demoni), imparare le lingue che gli altri possono capire (parleranno lingue nuove), non farsi avvelenare dal male del mondo imparandone la logica (prendere in mano i serpenti e non subire danni dal veleno dei serpenti), sollevare chi soffre dalla propria fatica (guarire i malati). E così nessuno avrà bisogno di guardare il cielo perché egli stesso continua nei suoi a mostrarsi vivo e a parlare delle cose del regno di Dio.

07 - Mag - 2021

VI Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

VI Domenica di Pasqua (B)

(At 10,25-27.34-35.44-48   Sal 97   1Gv 4,7-10   Gv 15,9-17)
Domenica 9 Maggio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Con troppa facilità e molto spesso si parla dell’amore, in ambito ecclesiale e non, dando per scontato che cosa sia l’amore e come si esplichi. La liturgia della Parola di questa domenica ci può aiutare però a comprendere che cosa sia davvero l’amore a partire da come Dio ama e chiede di amare. Nella seconda lettura infatti (anche questa domenica tratta dalla prima lettera di san Giovanni) leggiamo che chi ama è generato da Dio e conosce Dio. Questo è facilmente comprensibile se si pensa che chi ama è spinto e animato dallo Spirito Santo (che altro non è se non l’Amore di Dio riversato nei nostri cuori) e, se abitato dallo Spirito, non può che essere intimo di Dio. Quanto detto vale per chiunque ama. Infatti la prima lettura (tratta dagli Atti) che riporta stralci dell’incontro fra Pietro e il centurione Cornelio ci insegna a chiare lettere che Dio non fa distinzione di persone, è ben accetto a lui chiunque lo tema e pratichi la giustizia e a questi dona il suo Spirito. Ci viene raccontata un’altra pentecoste (lo Spirito scende e i pagani parlano in altre lingue, come era successo agli apostoli e a quelli/e che erano con loro nel cenacolo) che ha per protagonisti quelli che la chiesa nascente – Pietro compreso – pensava fossero esclusi da una salvezza, che si riteneva riservata al popolo di Israele. E così quanto avviene in casa del centurione Cornelio converte Pietro alla logica di Dio chiedendogli di abbandonare schemi e precomprensioni che fino a quel momento gli erano sembrate intoccabili: Dio invade il cuore di chi lo vuole, anche se pagano.

Chiunque ama dunque (chiunque sia e qualunque sia la sua nazionalità, la sua appartenenza sociale, il suo vissuto religioso, la sua razza o il suo genere) è generato da Dio e lo conosce. Che cosa significa amare, però? Chi è che ama? Non ogni affetto è amore infatti, nemmeno ogni legame e nemmeno i sacrifici fatti per altri fino a dimenticarsi di sé sono necessariamente amore. L’amore si riconosce se ha la stessa forma di quello di Dio che si è manifestato nel Figlio “perché avessimo la vita per mezzo di lui”(parole tratte ancora dalla seconda lettura). L’amore è dunque riconoscibile dalla vita che porta: tutto ciò che fa vivere l’altro (e noi stessi), tutto ciò che nutre, salva, libera, fa crescere l’altro (e noi stessi), questo è l’amore. E poiché questo fa vivere anche noi (ci fa più liberi e forti) ci dà la gioia piena.

Il Signore comanda ai suoi di amarsi reciprocamente proprio perché vuole che abbiano la vita e per spiegare loro la forma più alta dell’amore parla dell’amicizia, perché questo è un amore fondato sulla reciprocità e sulla parità: gli amici (al contrario dei servi) condividono, stanno sullo stesso piano, si prendono cura gli uni degli altri, godono della vita dell’altro e si spendono reciprocamente perché l’altro viva. Gesù ha trattato così i suoi fra i quali siamo anche noi: ci ha detto le cose del Padre non trattenendo nulla per sé solo, ci ha scelti non volendo vivere senza di noi, ci ha affidato la sua stessa missione e i frutti che questa poteva portare non volendo fare nulla senza condividerlo con chi ama. Ci ha infine insegnato il segreto della preghiera e quindi dell’intimità con il Padre: chiedere nel suo nome cioè secondo lo stile di Gesù, cioè amandoci gli uni gli altri, come lui ha amato noi. La preghiera cristiana è parola rivolta a Dio mentre amiamo quelli che lui ci ha dato, questo amore fa del nostro dialogare con Dio una preghiera e allo stesso tempo è il primo frutto della preghiera stessa, perché ci cambia, ci spinge, ci rinnova, ci fa rimanere in Cristo e nel Padre. Da questa intimità sgorgano poi insondabili e incalcolabili frutti che sono capaci di nutrire dove noi neppure possiamo immaginare.

Se domenica scorsa Gesù ci chiedeva insistentemente di rimanere in lui, oggi ci chiede di accogliere la sua amicizia, di ricambiarne il dono, l’intimità, la cura, la dedizione. Non vuole servi e non vuole essere ignorato, vuole intimità e amicizia perché è proprio di chi ama volere accanto quelli che ha scelto e godere del fatto che abbiano la vita, al punto da essere disposto a dare la propria per loro. Davanti a questo amore rivolto a ciascuno/a e che può essere contemplato in ogni gesto che è capace di dare vita, cantiamo col salmista un canto nuovo e con noi invitiamo a cantare la terra intera, poiché tutti i suoi confini hanno veduto la vittoria di Dio contemplando la sua salvezza.

30 - Apr - 2021

V Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

V Domenica di Pasqua (B)

(At 9,26-31   Sal 21   1Gv 3,18-24   Gv 15,1-8)
Domenica 2 Maggio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Le vicissitudini della vita non sono sempre felici o non lo sono a lungo. La prima lettura tratta dal libro degli Atti ci narra che Saulo abbandona la sua posizione nel popolo di Israele per diventare discepolo del Signore, eppure gli altri non si fidano: il suo passato non viene ricordato per lodare l’opera di Dio, ma per gettare un sospetto su di lui. Anche dopo che Barnaba lo ha preso con sé, dandoci un esempio concreto di cosa significhi amare non a parole ma con i fatti e nella verità (secondo quanto leggiamo nella seconda lettura), e Paolo pieno di entusiasmo si mette a discutere con “quelli di lingua greca”, questi tentano addirittura di ucciderlo. Di nuovo l’amore dei discepoli, che osservano il comandamento dato dal Signore (come ci ricorda la seconda lettura tratta dalla prima lettera di Giovanni) di amarsi gli uni gli altri, lo salva, portandolo altrove. Così Paolo fin dall’inizio sperimenta le fatiche legate all’essere discepolo, i sospetti, le opposizioni, i pericoli e allo stesso tempo (da parte della stessa chiesa che sospetta di lui) riceve cura e amore fraterno. In questo amore riconosce l’amore di Dio per lui e riacquista rinnovato vigore che lo spinge ad amare a sua volta. Questo dinamismo ci è mostrato nella prima lettera di Giovanni, nella quale l’amore ricevuto e l’amore offerto si intrecciano continuamente in un unico movimento dello Spirito, che rimane in noi come un amore che ci avvolge (come l’abbraccio che i piccoli sanno cercare o che offriamo perché qualcuno non si senta solo: un abbraccio che abita le profondità dell’interiorità) e che ci permette di amare così come sappiamo di essere amati. Rimanere in questo amore permette di amare e quindi di vivere, anche se il nostro cuore ci rimproverasse cose terribili: infatti Dio è più grande del nostro cuore.

E proprio per questo Gesù ben sette volte in questi versetti del Vangelo di Giovanni ripete il verbo rimanere: non solo noi dobbiamo rimanere in lui, ma lui vuole rimanere in noi e questo accade proprio per opera dello Spirito. Lo stesso Spirito (lo stesso Amore) che ha spinto, ispirato e commosso lui, viene riversato in noi perché Cristo stesso possa rimanere dentro di noi e amare in noi e con noi, dandoci vita. L’unica accortezza che dobbiamo avere è di rimanere anche noi: la vite porta frutti solo nei tralci – il Signore ama e porta vita tramite noi – e noi possiamo essere colmi di vita e amore solo rimanendo attaccati a lui, perché i tralci offrono i grappoli solo finché sono un corpo solo con la vite.

Che succede ai tralci se soffia il vento forte, se grandina, se imperversa la siccità? Cosa succede se le vicissitudini della vita, come spesso accade, minacciano i frutti che con tanta cura ci eravamo preparati a dare? Ai tralci compete solo rimanere ed essere nutriti: alla vite, al Signore cioè, al suo Spirito riversato in noi e al Padre che tutto fa crescere, realizzare il miracolo della vita, sempre e comunque. Così alla fine della prima lettura, dopo tanti guai, leggiamo di una chiesa in pace, che si consolida, cammina in Dio e cresce di numero: potature e tagli non mancheranno, ma nemmeno i frutti. Vale per la chiesa, se rimane in Cristo, e vale per ciascuno e ciascuna di noi che può fare sue le parole del salmista: “E io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: ecco l’opera del Signore”.

23 - Apr - 2021

IV Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

IV Domenica di Pasqua (B)

(At 4,8-12   Sal 117   1Gv 3,1-2   Gv 10,11-18)
Domenica 25 Aprile 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La differenza fra il pastore e il mercenario è l’interesse che hanno: al pastore interessano le pecore, ai mercenari interessano i vantaggi che derivano dal prendersi cura del gregge. Se si tratta di soldi, o di altri beni personali, di fronte al rischio della vita (quando viene il lupo) non si può che fuggire, ma se si tratta di amore, se quelli che ci sono affidati sono “nostri” e vogliamo che vivano, allora si resta anche di fronte al pericolo, anche se questo ci dovesse costare la vita. Gesù è pronto a dare la sua vita per le pecore, perché non è un mercenario, non predica e non guarisce per avere un seguito, successo o affermazione di sé. Rifiuta ruoli, contesta il potere, fugge di fronte a chi lo vuole fare re o a chi lo cerca per i segni. Uno solo è il motivo per cui fa tutto quello che fa: vuole che le pecore abbiano la vita. In questo modo riversa sui suoi l’amore che riceve dal Padre. Fa proprio un parallelo fra la conoscenza (cioè l’intimità e l’amore) che c’è fra lui e il Padre e la conoscenza che c’è fra lui e le pecore, cioè i suoi. Ci rivela così fra l’altro che non c’è alcuna concorrenza fra l’amore di Dio e l’amore di quelli che lui ci dà: proprio perché siamo in intimità con Dio e conosciamo il suo amore, siamo nella medesima intimità con quelli che lui ci dà.

Il Signore ribadisce che la sua è una scelta libera: potrebbe abbandonare le pecore e salvarsi la vita, invece resta perché proprio nel dare la propria vita per le pecore la riprenderà di nuovo. E per questo suo dono d’amore, colmo di speranza e di fiducia nel Padre, il Padre lo ama. Sembrerebbe che Gesù trovi il senso del proprio esistere nel ricevere la vita dal Padre e nel donarla per quelli che non può sopportare di abbandonare. Ogni servizio civile o ecclesiale, ogni relazione e ogni impegno, trova il proprio discrimine in questo semplicissimo criterio: quando non conviene più, quando non porta vantaggi, onori, risorse, te ne vai abbandonando le pecore al loro destino, oppure resti per il loro bene, costi quello che costi? La prossimità, l’amore, la fraternità, tutto ciò che predichiamo si misura solo sui fatti concreti, su come e quanto facciamo vivere chi ci è affidato.

Vivere in questo modo conduce Gesù alla morte, viene scartato (così la prima lettura) dal suo stesso popolo, ma Dio fa di questo scarto una prima scelta, una pietra angolare, su cui tutti quelli per cui Gesù ha dato la vita possono poggiarsi, salvarsi, gustare l’amore del Padre tanto da essere chiamati figli di Dio (seconda lettura). E così mentre dei mercenari, del tutto disinteressati alla vita del gregge, scartano il pastore buono, Dio lo sceglie facendo proprio ciò che Gesù desidera: riempire di vita i suoi, noi, che già ora siamo figli di Dio ma attendiamo una tale bellezza che non sappiamo nemmeno descriverla, sappiamo solo che saremo simili a lui perché lo vedremo così com’è, pieno di amore e di vita.

Meglio dunque, come ci suggerisce il salmista, rifugiarsi nel Signore che cercare di essere scelti dagli uomini  e dai potenti che così spesso sono solo mercenari, da Dio infatti vengono la vita e la salvezza e ciò che i costruttori scartano diventa pietra angolare, fondamento e riparo per molti. Davvero il Signore è buono e il suo amore è per sempre.

16 - Apr - 2021

III Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

III Domenica di Pasqua (B)

(At 3,13-15.17-19   Sal 4   1Gv 2,1-5   Lc 24,35-48)
Domenica 18 Aprile 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Vangelo di questa domenica sembra raccontarci in un altro modo l’episodio (letto domenica scorsa) di Tommaso, pur senza nominare l’apostolo. Gesù viene in mezzo ai suoi (gli Undici, i discepoli e le discepole). Questi avevano appena sentito il racconto dei due tornati da Emmaus, i quali a loro volta si erano sentiti dire che il Signore era apparso a Simone, eppure di fronte al mostrarsi di Gesù tutti provano di nuovo incredulità e paura. “Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore?” La domanda di Gesù cerca di ricordare loro quanto già hanno visto e ascoltato, poi li invita – con parole simili a quelle che Giovanni ci racconta rivolte a Tommaso – a guardare e toccare la sua carne e le sue ossa, in particolare là dove esse sono state ferite dai chiodi (mani e piedi). A questo punto è la gioia a renderli increduli – mentre Tommaso aveva fatto subito la sua professione di fede: mio Signore e mio Dio! – tanto che Gesù chiede loro da mangiare: un gesto semplice, quotidiano, che restituisca loro l’intimità nota e allo stesso tempo li faccia rendere conto che non sono di fronte a fenomeni paranormali o a stranezze di chissà quale tipo.

Adesso, sgombrato il campo dalla paura e dalle congetture bizzarre, Gesù indica l’unica via possibile per comprendere la sua vita e la sua Pasqua: scrutare le Scritture. Per la seconda volta in questo ventiquattresimo capitolo del Vangelo di Luca troviamo Gesù impegnato a spiegare le Scritture, che alla luce di quanto è successo mostrano tutta la propria verità e allo stesso tempo aprono oltre se stesse alla vita che sgorga dal fatto che esse si sono compiute. Nelle Scritture infatti (come Pietro spiega nel discorso che troviamo in parte riportato nella prima lettura) era stato preannunciato tutto ciò che in Gesù si è compiuto e quindi sono le Scritture che permettono di leggere fino in fondo nelle pieghe degli avvenimenti e riconoscere nel Risorto il Signore della storia, il servo che Dio ha glorificato. E una volta riconosciuto non si può che esserne testimoni, come Gesù espressamente dice ai suoi nel cenacolo (Vangelo) e come Pietro afferma di sé e degli altri (prima lettura).

Però, come quanto raccontato dalle Scritture trova compimento in Gesù, tanto che in lui si può dare di esse una piena intelligenza, così quanto vissuto da ciascuno (ogni storia) trova compimento in quanto viene testimoniato su Gesù, perché questo è capace di svelare il senso profondo di ogni esistenza e della storia intera. La sua vicenda, il suo Vangelo, ciò che i suoi hanno raccontato fin dall’inizio, diventa compimento per la storia di chi lo incontra oggi e che si trova a rileggere tutto di sé in modo nuovo: senza perdere nulla di quanto ha vissuto, si accorge che Gesù è ciò che lo compie e lo porta oltre.

Osservare la sua parola (come ci dice la seconda lettura tratta dalla prima lettera di Giovanni) fa sì che l’amore di Dio in noi sia perfetto, ma forse osservare la sua parola significa proprio lasciare che quanto ci viene raccontato di lui (il Vangelo) spieghi e compia la nostra storia, in modo che noi possiamo conoscerlo non nei contenuti e nei valori, ma nella concretezza del vivere e dell’amare: proprio per questa conoscenza concreta (e unica per ciascuno) diventiamo testimoni perché anche noi concretamente l’abbiamo incontrato risorto nelle vicende del nostro vivere. In questo modo, anche il peccato non fa più paura, perché non si tratta di mettere in pratica delle regole e quindi di essere giudicati in base alla prestazione che sappiamo tenere, si tratta invece di conoscerlo (o riconoscerlo come devono fare i primi discepoli) proprio nel lasciare che la fede in lui riscriva la nostra vita e il nostro fare. Se siamo su questa strada, se il nostro cuore è sincero in questo senso, anche il peccato che dovesse accadere sarà riletto alla luce del Signore Risorto e ci accorgeremo che proprio lui si fa nostro avvocato difensore (paraclito). Diciamo allora (così come suggerisce il versetto alleluiatico): Signore Gesù, facci comprendere le Scritture (e la nostra storia), arde il nostro cuore mentre ci parli.

09 - Apr - 2021

II Domenica di Pasqua (B)

Spirito del Risorto

II Domenica di Pasqua (B)

(At 4,32-35   Sal 117   1Gv 5,1-6   Gv 20,19-31)
Domenica 11 Aprile 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Giovanni chiude il suo Vangelo (l’ultimo capitolo è un’appendice successiva) dicendo di aver scritto perché noi credessimo e così potessimo avere la vita. La fede in Cristo Risorto infatti, riconoscerlo vivo e Signore, ci fa entrare nella vita: per questo la chiesa fin dal suo sorgere lo annuncia e per questo gli evangelisti hanno scritto. Perché il discorso non sembri teorico e lontano, la seconda lettura di questa domenica, tratta dalla prima lettera di Giovanni, ci spiega in che cosa consista la vita di chi crede e dove si possa sperimentare e vedere. Chi crede (dice Giovanni) è generato da Dio, cioè ama Dio e quelli che sono nati da lui, tanto che i comandamenti – che altro non sono che amare il prossimo – non ci sono gravosi. Tutto ciò non significa che non abbiamo debolezze o fatiche, ma che sperimentiamo in noi il gusto di amare, di fare il bene, di far vivere, di condividere. Anche la prima lettura (tratta dagli Atti degli apostoli) ci dice che la fede si traduce emblematicamente nel non riuscire più a considerare come proprie le cose che possediamo e possono essere di aiuto ad altri: tutto finisce per essere in comune, perché non si sopporta l’idea che l’altro sia nel bisogno. Lasciando stare quali possano essere le concretizzazioni che questa tensione interiore può avere, perché “vendere i propri beni” per provvedere ai bisogni di tutti si può realizzare in modi diversi e adatti ai nostri modi di vivere e alle nostre configurazioni sociali e legislative, resta il dato di fatto: la fede prende carne nell’amore e così vince il mondo, cioè l’egoismo, l’odio, la divisione, l’avidità, l’indifferenza. Solo lo Spirito ci può spingere gli uni verso gli altri al punto da essere un cuor solo e un’anima sola e vedere un amore così è una tale meraviglia da farci esclamare col salmista: la destra del Signore ha fatto prodezze, una meraviglia ai nostri occhi.

L’annuncio del Vangelo, quindi, è capace di suscitare la fede nel Risorto e questo ci introduce alla vita che solo l’amore è capace di generare. La fede, però, sorge dall’annuncio del Vangelo, cioè dalla testimonianza credibile di chi ci fa toccare con mano (metti qui il dito nel segno dei chiodi!) con la propria vita che l’amore di Dio è reale, fa rinascere, perdona, pacifica. In questo brano del Vangelo di Giovanni ci viene spiegato che non si dà alcun vantaggio fra noi, che possiamo solo ascoltare l’annuncio del Vangelo, e quelli e quelle che hanno visto Gesù risorto: il cammino è lo stesso. Di fronte ad un’esperienza capace di farci riconoscere il Signore (non hanno forse anche i discepoli faticato a riconoscere il Signore? Quanta incredulità, paura, fraintendimenti!) bisogna credere: non è l’evidenza dei fatti che convince i discepoli, ma proprio come accade a noi devono riconoscere in ciò che hanno davanti agli occhi la presenza del Vivente (non è un fantasma, non è un’allucinazione, non è solo un pellegrino che si ferma a cena…). Per questo Tommaso, che pure è uno dei testimoni apostolici e quindi ha le sue ragioni a voler vedere il Signore come era stato per le altre e gli altri, si sente dire che sono beati quelli che crederanno senza aver visto, perché l’essenziale non è quale sia l’esperienza in cui Dio si fa presente, ma la capacità di riconoscerlo come colui che è Risorto dai morti. Questa fede conduce alla vita e diventa carne nell’amore, carne ferita e rigenerata, nelle cui piaghe guarite altri possono infilare il dito per poter poi credere alla potenza del Dio vivente.

Il cammino è lo stesso: riconoscere il Signore e credere che Dio lo ha resuscitato dai morti, ascoltandone l’annuncio di pace. Molte volte però davanti a questa bellezza il nostro cuore rimane freddo, spaventato, ripiegato sulle sue meschinità e legato a perdite, sofferenze, persino a peccati: per questo il Signore comanda ai suoi la remissione dei peccati. Il male, dentro di noi e intorno a noi, non viene tolto: è vinto ma non cancellato. E questa vittoria si gioca proprio sulla nostra capacità di riconoscere l’amore sconfinato di Dio che sempre perdona, rigenera, ringiovanisce. I discepoli erano fuggiti via, anche le donne – sempre fedeli – avevano avuto paura davanti all’annuncio dell’angelo e avevano taciuto (così ci racconta Marco), Pietro aveva rinnegato: davanti a loro il Signore parla di perdono. Non nega il male o il tradimento che ci sono stati (il perdono non è fare finta di niente, parte piuttosto sempre dal riconoscere il male accaduto), ma dà a ciascuno una nuova possibilità, perché forte delle esperienze fatte – anche del proprio limite e del proprio peccato perdonato – porti a tutti l’annuncio della fede che vince il mondo. Come loro noi, oggi, per i quali Giovanni riserva le ultime parole del suo Vangelo: beati quelli che non hanno visto e hanno creduto. Beati quelli che nelle ordinarie e terribili fatiche della vita hanno occhi e cuore per riconoscere e scegliere la vittoria di Dio su ogni male. Beati quelli che sanno che la morte, che pure così da vicino ci minaccia, è stata vinta.

02 - Apr - 2021

Domenica di Pasqua (B)

Pasqua

Domenica di Pasqua (B)

(At 10,34a.37-43   Sal 117   Col 3,1-4   Gv 20,1-9)
Domenica 04 Aprile 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’abbondanza della Parola che risuona nella veglia pasquale non è commentabile e forse è bene così: come un fiume in piena deve travolgere i credenti che ascoltano. Come la confessione di un amore durato tutta la vita e raccontato solo alla fine, come il racconto che si fa ai figli di quello che ha significato vederli nascere e
crescere, come lo sguardo che i vecchi hanno troppo carico di persone ed eventi e quindi sempre pronto a commuoversi o a distrarsi: un fiume che sommerge tutto e tutti. Così va ascoltata la parola di questa
notte santa, lasciandole portare via ogni scoria, trattenendo una frase e perdendone mille, ma sapendo che è tutta l’acqua che ci scorre addosso a lavarci, anche se poi ci troviamo ad asciugarci dal corpo solo le ultime gocce.
Di questo fiume cui ciascuno e ciascuna attingerà come può e crede raccogliamo la poca acqua del Vangelo che verrà proclamato nella veglia. Lo commentiamo però integrato dell’ultimo versetto del brano che poco saggiamente è stato tagliato.
Marco, come tutti gli evangelisti, ci dice che sono state le donne ad andare al sepolcro. Prima di entrare nello specifico del suo racconto, notiamo che le donne sono state le prime a portare l’annuncio della resurrezione, cioè esse costituiscono il primo anello della tradizione apostolica, insieme agli altri (compresi i più vicini cui esse vengono espressamente inviate come apostole per annunciare ciò che hanno visto) ai quali Gesù si è mostrato solo successivamente. Esse hanno visto e hanno creduto.
Avevamo trovato queste stesse donne sotto la croce e due di esse a guardare da lontano dove Gesù veniva seppellito: Maria di Magdala
sempre indicata per prima, come quella più autorevole di tutte. Alla croce, al sepolcro che viene sigillato (si domandano infatti mentre
vanno alla tomba: chi ci rotolerà via la pietra?) e al sepolcro vuoto, troviamo sempre loro: testimoni di tutto. Entrano nel sepolcro aperto
e si spaventano nel trovare un giovane coperto da una veste bianca, ma questi – come sempre quando si è davanti ad una parola che viene da
Dio – le invita a non temere e poi dice loro di andare a dire a Pietro e agli altri che il Signore è risorto e li precede in Galilea. Da come
il testo è stato tradotto in italiano non è chiaro, ma la parola del giovane è rivolta anche alle donne: andate e dite a Pietro che il Signore vi precede in Galilea. Esse sono state testimoni di tutto, ricevono il compito di portare il primo annuncio e vengono ricomprese fra quei discepoli che devono tornare in Galilea (anch’esse infatti, ci ha detto Marco, venivano da lì). Le donne però si spaventano e non dicono niente a nessuno. Questo è quanto ci dice il versetto che è stato tagliato e che chiude il racconto. Le donne, fin ora cariche di caparbia fedeltà, si spaventano così tanto che sembrano venir meno proprio ora e tacciono l’annuncio più importante: così Marco chiude il proprio Vangelo, visto che i racconti delle apparizioni che seguono sono un’appendice successiva.

Perché, però, Marco sigilla nel silenzio delle donne l’annuncio della resurrezione? Perché finisce così il proprio Vangelo, quasi rimettendo
la pietra davanti al sepolcro? Forse per aiutare noi a fare nostra questa parola. La conclusione di Marco infatti, evidentemente, non racconta la fine della storia, perché – per forza – dobbiamo concludere che le donne hanno vinto la propria paura e sono andate a portare l’annuncio che era stato loro affidato. Se così non fosse stato, come tale annuncio sarebbe arrivato fino a noi? Nonostante questo Marco si ferma sulla loro paura e sul loro silenzio e si volge verso di noi: cosa ne facciamo dell’annuncio che abbiamo ricevuto? dove sono la gioia e lo stupore di questo giorno? chi ne annuncerà la straordinaria bellezza? Si può guardare il Signore vivere e morire, si può entrare nel sepolcro vuoto, comprendere che egli non è tra i morti, eppure rimanere spaventati e silenziosi. Se così fosse, se la buona notizia che è entrata nella nostra vita non venisse ripetuta ad altri, nessuno saprebbe, nessun altro potrebbe incontrare il Signore risorto, lui stesso affida la sua salvezza alla testimonianza dei suoi. In questo giorno in cui gioiamo della resurrezione del Signore, bisogna ricordarci che questa gioia non è per noi, ma per tutti, e così occorre che paura e stupore non ci zittiscano, ma che la vita che abbiamo incontrato racconti il Vangelo nelle nostre opere e nelle nostre parole. Solo così il mondo intero saprà che non c’è sepolcro che tenga, né pietra che non possa essere rotolata via: morte e vita
si sono affrontate a duello e il Signore è risorto e aspetta tutti e tutte altrove. Ora lo sappiamo, cosa faremo?

26 - Mar - 2021

Domenica delle Palme (B)

Domenica delle Palme (B)

(Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Mc 14,1-15,47)
Domenica 28 Marzo 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Quest’anno riviviamo i momenti della passione del Signore ascoltando il racconto tracciato da Marco, che delinea una progressiva ed impietosa spoliazione di Gesù. Lui, ricco di parole bellissime, autore
di segni, circondato di discepoli, seguaci e folle intere (che in questa domenica ricordiamo mentre lo acclamano messia), invincibile nelle dispute e profeta autorevole, viene spogliato di tutto ciò che è
stato e ha vissuto. Mentre condivide con i suoi il segno del pane e del vino, che doveva aiutarli a vedere nella sua morte il dono di vita che lui stava facendo, Giuda ordisce il tradimento. Gesù viene denudato degli amici più cari: Giuda tradisce, quelli che portava sempre con sé non riescono a nemmeno a vegliare mentre lui perde la pace preso dall’angoscia, infine tutti fuggono.
Così solo, in balìa delle guardie, viene messo sotto giudizio, privato dell’innocenza che non gli viene più riconosciuta e violato nella sua più  profonda interiorità: il suo essere Figlio viene definita una bestemmia, come se l’amore del Padre per lui fosse un abominio.
Pilato, troppo vigliacco per esercitare il potere che gli era stato dato, fa decidere la folla sul destino di Gesù e la folla, volubile e crudele, preferisce un assassino, spogliando Gesù del riconoscimento messianico precedentemente accordato. I discepoli, il sinedrio e ora il popolo lo hanno abbandonato nelle mani dei romani e i romani lo spogliano della dignità e della vita: lo insultano, lo torturano, lo spogliano, quindi lo crocifiggono. Sulla croce, equiparato ai malfattori, viene spogliato dei tanti segni fatti per mostrare l’amore del Padre: ha salvato tanti, salvi se stesso!
Ma Gesù sa che non può salvare nessuno, sa che solo il Padre operava in tutto quello che lui faceva, che ogni segno era opera sua e ogni
parola una parola sua. Solo il Padre può salvare. Allora Gesù grida l’abbandono di Dio: perché mi hai abbandonato? Inizia il salmo che
finisce col riscatto e la vita, ma non arriva a dirlo tutto, muore gridando l’abbandono. Perché allora il centurione lo riconosce proprio
ora, come Figlio di Dio? Perché quel grido dice chi è Gesù: lui grida verso il Padre perché sa che il Padre l’ascolta. Il Signore muore come ha vissuto, come il Figlio amato. Tutto questo che gli uomini gli fanno non può togliergli l’unica cosa che conta. E grida, come Israele in Egitto, come il cieco di Gerico, come quelli che gli erano prostrati davanti supplicandolo di guarirli, come il lebbroso e la donna sirofenicia: grida al Padre.
In questo momento, spogliato di tutto, a Gesù resta solo una cosa: il suo essere figlio e da figlio, rivolto al Padre, muore. Questo grido
squarcia il velo del tempio, il grembo stesso di Dio, che non può non rispondere a questa invocazione, e allo stesso tempo tocca il cuore
del centurione che comprende l’identità profonda di Gesù.
Le donne guardano da lontano, quelle discepole che lo avevano seguito (il verbo della sequela usato per i discepoli) e lo avevano servito
(il verbo del servizio che Gesù attribuisce a se stesso e a quelli che vogliono essere i più grandi nel regno) e molte altre che erano salite dalla Galilea a Gerusalemme (Marco usa qui un’espressione che gli Atti degli apostoli usano per i testimoni apostolici). Su due di queste donne, che guardano la pietra rotolare davanti all’entrata del sepolcro, la scena si chiude. Loro non se ne sono andate, sono rimaste. Hanno fissato lo sguardo sul dolore e sulla spoliazione di lui, perdendo ciò che non poteva essere sostituito e cui niente poteva essere paragonato: Gesù stesso. E, di nuovo ora, caparbie, vanno al sepolcro: c’è ancora un corpo da onorare e lo faranno.
Il loro amore non è superficiale e inaffidabile come quello della folla, la loro fedeltà non conosce rinnegamento né fuga, la loro pena
non le distrae: c’è ancora un corpo da onorare. Giustamente il Signore stesso premierà questo amore incrollabile mostrandosi a loro Risorto.
Tanto amore merita di essere premiato. Proprio come aveva premiato la donna che l’aveva unto in vista della sua sepoltura sprecando tanto
olio prezioso: ha fatto quanto era in suo potere per trattarlo con pietà e rispetto, dovunque verrà annunciato il Vangelo si racconterà
anche ciò che ella ha fatto. In fondo, alla fine dei conti, davanti a Dio vale solo l’amore sprecato sugli altri: Gesù lo sa bene e se lo
ricorda anche mentre viene abbandonato e denudato. Forse sente ancora addosso, mischiato con quello dolciastro del sangue, il profumo buono dell’olio di lei e si ricorda di essere l’amato del Padre: per questo grida, costringendoci ad aspettare, con le donne, ciò che il Padre risponderà.

19 - Mar - 2021

V Domenica di Quaresima (B)

Quaresima

V Domenica di Quaresima (B)

(Ger 31,31-34   Sal 50   Eb 5,7-9   Gv 12,20-33)
Domenica 21 Marzo 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Per tutte le domeniche di quaresima la prima lettura si è concentrata sull’alleanza e sui diversi patti in cui questa alleanza è stata offerta da Dio al suo popolo (con Noè e Abramo, nel decalogo durante l’esodo e nel ritorno dall’esilio). Ora arriviamo, nelle parole di Geremia, alla promessa dell’alleanza nuova, quella che non verrà trasgredita perché scritta nei cuori. Arriverà un momento cioè in cui il popolo (ciascuno e ciascuna di noi) sarà capace di rispondere all’amore di Dio: non saremo solo amati e scelti, ma sapremo, riempiti da questo amore, amare e scegliere.

Tutto questo comincia nella vicenda di Gesù, che ci mostra come la risposta all’amore del Padre non avviene per magia o istantaneamente, ma chiede un apprendimento. Leggiamo infatti in questi pochi versetti della lettera agli Ebrei che anche Gesù “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. L’obbedienza, poi, altro non è che vivere credendo e rispondendo all’amore del Padre e non può essere imparata che nelle vicende della vita che non sono facili per nessuno, ma ci conducono – persino nella sofferenza – ad essere sempre più capaci di amare, perché in esse possiamo crescere nella consapevolezza di essere amati da Dio.

Così, dentro questo cammino limpido e faticoso, Gesù arriva al giorno in cui comprende (forse perché i Greci sono curiosi di vederlo – come gli riferiscono i discepoli – e quindi lui comprende che la sua missione è compiuta visto che anche le genti vengono a Dio) di dover morire (il Vangelo è tratto dal dodicesimo capitolo di Giovanni, a ridosso della Pasqua): la sua anima è turbata, ma comprende anche che l’odio di chi lo ucciderà viene dal fatto che lui risponde all’amore del Padre e quindi non può farci nulla. Non può, infatti, smettere di amare il Padre (e quindi di essere come è) solo per salvarsi. Gesù però ha anche una speranza: che proprio il suo ostinato rispondere all’amore del Padre trasformerà la sua morte in vita. Il Padre farà questo: nel momento più buio, quando esseri umani cedono alle tenebre, Dio farà luce e caccerà via il principe di questo mondo, mettendo davanti agli occhi di tutti il Figlio innalzato, perché tutti guardino che lasciarsi amare dal Padre e rispondere al suo amore conduce alla vita. Non conosce morte (cioè riceve la vita eterna) chi vive questo amore.
Ed è proprio sulla vita che Gesù si concentra, non sulla morte: il chicco di grano muore solo per rinascere di una vita moltiplicata. La morte non è solo un passaggio, ma è persino apparente perché molto più vitale è la spiga del chicco. Si pensa che sia una morte se si vuole conservare il chicco, ma se invece più importante del chicco è la vita, allora si comprende come il chicco non muore se non alla sterilità e solitudine, aprendosi invece alla moltitudine dei frutti. Così il Signore ci insegna che ciascuno e ciascuna può smettere di difendere se stesso e la propria vita solo là dove perdersi significa moltiplicare la vita, solo là dove ciò che lasciamo morire è solo un chicco dal quale vediamo spuntare una spiga intera. Se si vuole conservare il chicco (“chi ama la propria vita” va inteso così) si temerà la morte (“la perde”) e non si vedrà la vita, ma se si sceglie la vita, potremo lasciare che il chicco muoia (“chi odia la propria vita” va inteso così) e vedremo che Dio è capace di moltiplicare i frutti oltre ogni aspettativa (“avrà la vita eterna”).
La buona notizia, il Vangelo, è che immersi nell’amore del Padre non dobbiamo temere nemmeno la morte, possiamo quindi, liberi e umili, rispondere al suo amore e di fronte ad ogni ostacolo che ci farà venire la tentazione di proteggere il nostro chicco smettendo di amare, risponderemo con Gesù: sono angosciato, ma che devo fare? Smettere di amare proprio no, quindi Padre glorifica il tuo nome, fa vedere a tutti cioè di quale e quanta vita sei capace.