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08 - Ott - 2021

XXVIII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXVIII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Sap 7,7-11   Sal 89   Eb 4,12-13   Mc 10,17-30)
Domenica 10 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Se domenica scorsa la liturgia della parola ci illuminava sul rapporto viziato fra maschi e femmine, oggi ci conduce a riflettere sul rapporto con le ricchezze: il denaro, certamente, ma anche la tranquillità sociale, l’affermazione di sé, il ruolo, il prestigio, la sicurezza affettiva. La ricchezza dell’uomo protagonista di questo incontro con Gesù può essere identificata con tutto ciò su cui si può poggiare solidamente, ciò che ci fa sicuri. Ma proprio perché – nella fin troppo evidente precarietà della vita – sentirsi sicuri e forti ha un’attrattiva prepotente, quanto le braccia tese della mamma per un bambino impaurito, la prima lettura (dal libro della Sapienza) ci ammonisce a considerare come un po’ di sabbia o di fango tutta la ricchezza del mondo se paragonata alla Sapienza di Dio: questa è una ricchezza incalcolabile, al confronto con la quale tutto il resto è una miseria. Pensiamo in fondo di saperlo, sappiamo che niente ci può garantire la vita o la felicità (tanto meno i soldi o la considerazione degli altri), ma se per noi è davvero così, lo sappiamo solo alla prova dei fatti, quando la vita ci chiede di scegliere, come avviene per il protagonista del Vangelo di oggi.

Si tratta di un uomo religioso, devoto, un’ottima persona che osserva i comandamenti di Dio fin dalla giovinezza. E, come se questo non bastasse, ha il desiderio di avere di più, vuole sapere cosa fare per guadagnare la vita eterna. Forse anche questa domanda denota il bisogno di una sicurezza. Ha osservato i comandamenti ma non è sicuro di avere la vita per questo. C’è da domandarsi se non dovrebbe essere già un così fedele ascolto della parola di Dio a dargli la pace necessaria per vivere e sperare. Perché cerca altro? Oppure, magari, è spinto da un sincero desiderio di andare oltre: proprio la pratica dei comandamenti l’ha aperto a cercare una maggiore intimità con Dio, una vita che sia pienamente sua. Comunque sia, arriva davanti a Gesù: che cosa devo fare? Chiede questo.

Dopo aver detto a Gesù di aver osservato i comandamenti, riceve in cambio lo sguardo fisso del Signore e il suo amore. Gesù viene preso dal desiderio (l’amore è un desiderio) che questo uomo, capace di fare la volontà di Dio e di chiedere ancora altro, diventi uno dei suoi. Vuole che faccia il passo di chi esce dalle sicurezze date dalla posizione sociale, dalla famiglia, dal denaro, per fare di Gesù stesso (e di quelli e quelle che lo seguono) il suo riferimento, ciò al confronto del quale tutto il resto va considerato spazzatura. Quando l’uomo se ne va triste, incapace di rinunciare ai propri beni, Gesù incolpa la ricchezza: chi poggia sicuro su qualche ricchezza, infatti, fatica di più a fare Dio la roccia su cui trovare riparo. Chi sta annaspando in mare si afferra ad ogni pezzo di legno che vede, ma chi è galleggia anche solo dentro una barchetta malandata fa fatica a gettarsi in mare verso il salvagente gettato dalla nave venuta a salvarlo: e se non arrivo in tempo? E se non mi tirano su? E se poi non ce la faccio? E si resta lì, perduti in mezzo al mare, ma come se fossimo in salvo.

Davanti alla parola di Gesù (viva ed efficace, capace di penetrare fino al punto di divisione dell’anima, fino alle giunture e alle midolla, nonché di discernere i sentimenti e i pensieri) quest’uomo si scopre aggrappato alla propria ricchezza, come se questa fosse davvero capace di dargli la vita. Sentiva il desiderio di cercare la vita eterna, ma forse in realtà sperava di essere confermato di averla già trovata, o forse, semplicemente, non ha avuto il coraggio di cercarla più se il prezzo era perdere ciò che lo rendeva sicuro. Alla prova dei fatti ha scoperto su che cosa realmente sperava per vivere. Se invece avesse avuto il coraggio di andare con Gesù, avrebbe scoperto che ciascuno di quelli che fanno di Dio l’unica solida roccia su cui poggiare ricevono, subito, cento volte tanto di tutto quello che pensavano di perdere e, poi, la vita eterna. Gesù non promette a chi lo segue una vita priva di affetti (cento volte tanto in fratelli, sorelle, figli e madri) né di beni (campi), ma ci mette in guardia: fondare la propria vita sulle ricchezze (siano queste soldi o prestigio o anche ruoli sociali o ecclesiali) ci rende schiavi delle stesse ricchezze che abbiamo. Esse non saranno più il dono prezioso che ci parla dell’amore del Padre, ma ciò da cui dipendiamo e così perderemo libertà e pace. Saremo ricchi, allora, certamente, ma tristi, magari portando con noi la nostalgia di quello sguardo pieno di amore con cui il Signore ci implorava di seguirlo, desideroso di essere per noi così prezioso da valere tutto il resto. In fondo quando si ama, non è questo che si vuole essere per chi si sceglie?

01 - Ott - 2021

XXVII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXVII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Gen 2,18-24   Sal 127   Eb 2,9-11   Mc 10,2-16)
Domenica 3 Ottobre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia della Parola di questa domenica mette al centro la relazione fra maschi e femmine, in modo particolare la relazione affettiva e sponsale che si può dare fra loro. Questa non è idilliaca, ma minacciata fin dall’inizio. Nel racconto della Genesi infatti l’autore sacro ci descrive l’essere umano ancora asessuato (né maschio né femmina) che viene addormentato per dar vita a due diverse modalità di essere umani: la femmina e il maschio. Quest’ultimo però quando si sveglia dal sonno, dichiara che ciò che vede (la femmina) è uscita da lui ed è sua: la prima affermazione è falsa (la femmina non è fatta con una parte del maschio, ma è l’essere umano asessuato che viene diviso in maschio e femmina, anche se la traduzione che leggiamo non ci aiuta subito a capirlo) e la seconda affermazione è una pretesa violenta, perché senza nemmeno rivolgerle la parola e senza farla parlare, l’uomo decide e dichiara che la donna è per lui. L’autore della Genesi ci rende così l’ambiguità dell’esperienza delle relazioni fra maschi e femmine: un dono offerto gli uni alle altre per essere un aiuto reciproco con il rischio, però, che uno prenda l’altro per sé, per il proprio comodo.

Non è strano che sia il maschio a compiere questa violenza, perché le società antiche, come ancora la nostra, non sono paritarie e non danno alle donne le stesse possibilità di disporre di sé che hanno gli uomini, per cui sono questi ad essere nella posizione di fare violenza (anche se poi le donne hanno saputo e sanno trovare altre vie per divorare a loro volta chi dovrebbe essere per loro un aiuto reciproco). Nei tanti femminicidi che accadono, queste dinamiche vengono drammaticamente alla luce; quando infatti un uomo perde il controllo su una donna o questa non fa quello che lui si aspetta, questi può arrivare persino ad uccidere, perché imbevuto di una cultura e di una logica che fanno di lui quello che ha il diritto di dirle: tu sei uscita da me e sei fatta per me.

Gesù (che, nei pochi versetti della lettera agli Ebrei che costituiscono la seconda lettura, è indicato come solidale nelle sofferenze degli esseri umani, tanto da essere per loro un fratello) conosce bene le fatiche delle relazioni fra uomini e donne e quando gli viene posta la questione del ripudio (che non è il divorzio, cioè una separazione paritaria, ma un abbandono della moglie ridotta per questo molte volte in una condizione sociale ed esistenziale terribile) insegna un’altra logica, quella originaria, cioè quella del progetto di Dio che parlava di dono reciproco e di custodia reciproca. Nessuno dei due può avere il potere di ridurre l’altro/a in una condizione di abbandono, ma devono imparare a riconoscersi carne l’uno dell’altra, qualunque cosa accada. Potremmo arrivare a dire che, anche nel caso in cui una relazione matrimoniale diventasse impossibile, marito e moglie dovrebbero continuare a favorire la vita dell’altro/a in ogni modo umanamente possibile, senza abbandoni e senza umiliazioni, come invece prevedeva il ripudio (anche se avveniva solo nei confronti della donna).

Il modello che Gesù offre per vivere così sono (di nuovo) i bambini. Questi infatti non sono mai in posizione di potere, non possono umiliare o abbandonare, ma stanno di fronte agli altri come chi attende la vita ed è pronto a ricambiare il dono ricevuto con una dedizione assoluta. I bambini sanno di non essere autonomi e di non essere più grandi di nessuno: questa piccolezza che li fa aprire alla fraternità è ciò che Gesù insegna per ogni relazione, compresa quella – tanto affaticata – tra maschi e femmine. La logica del regno è sempre la stessa: farsi i più piccoli perché la vita di nessuno sia impedita.

25 - Set - 2021

XXVI Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXVI Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Num 11,25-29   Sal 18   Giac 5,1-6   Mc 9,38-43.45.47-48)
Domenica 26 Settembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia della parola di oggi ci mette di fronte al pericolo che ciascuno/a corre di essere di ostacolo all’opera di Dio. Lo scandalo – come è noto – va compreso proprio come una specie di trappola che impedisce di camminare o che fa cadere, bloccando la persona. Similmente nella prima lettura troviamo la tentazione da parte di Giosuè di impedire ad alcuni (Eldad e Medad) di profetizzare. Giosuè serve Mosè fin da quando era piccolo, si è identificato con Mosè: non solo crede che sia il profeta di Dio, ma in qualche modo è diventato per lui tutto (già intuisce forse che ne sarà il successore, quindi ciò che lui sarà dipende da chi è Mosè). Sembrerebbe che se anche altri possono profetizzare, allora l’importanza di Mosè venga ridimensionata e di conseguenza ciò che sta facendo Giosuè non sarebbe più così importante: non è il servo più vicino all’unico profeta, ma un servo di uno di quelli – per quanto grande – che Dio chiama a profetizzare. “Impediscili!” è ciò che d’istinto Giosuè dice a Mosè. E similmente Gesù risponde nel Vangelo ai suoi che volevano impedire a uno di fare il bene – liberava dai demoni! –, bisognava fermarlo a loro parere solo perché non era dei loro.

Sei geloso tu per me? Così risponde Mosè a Giosuè ben consapevole che l’opera di Dio travalica infinitamente le sue povere possibilità e che ogni profezia è una benedizione, perché ciò che conta non è che Mosè veda riconosciuto il proprio ruolo o la propria importanza, ciò che conta è invece che il popolo ascolti la parola di Dio e di questa lui è solo un servitore, solo uno dei servitori. E anche Gesù è su questa linea: chiunque fa qualcosa nel nome di Gesù – cioè chiunque fa qualcosa con il suo stile che libera e fa vivere – non può essere contro di lui. E – aggiungiamo – quanti più sono meglio è.

Al contrario (continua il Vangelo di Marco) guai a chi scandalizza. Guai a chi impedisce di camminare, a chi allontana da Dio e dalla vita. Non c’è che da rallegrarsi per chi fa il bene (perché anche se non è dei nostri è per noi), invece per chi impedisce il bene, per chi schiaccia l’altro, per chi gli mostra un volto di Dio che non è quello del Padre, per questi (anche se dice di essere dei nostri) sarebbe meglio la morte (le parole di Gesù sono durissime, per far comprendere la gravità di questo atteggiamento). Per questo Gesù ci insegna a fare attenzione a ciò che può diventare per noi motivo di scandalo: se anche una mano, un occhio, o il proprio compito al servizio di Dio (come per il giovane Giosuè) diventa un motivo di scandalo, qualcosa che fa bloccare il cammino dell’altro, meglio tagliarlo via. Se per difendere il proprio ruolo o la propria importanza, o le proprie ragioni, bisogna impedire che qualcuno faccia il bene o profetizzi, si sta correndo il pericolo di perdere se stessi, perché non si segue più la logica di Dio: tutto ciò che viene da Dio infatti favorisce la vita altrui e mai si ingelosisce di chi fa il bene, anche se ci togliesse il centro della scena.

L’ammonimento della lettera di Giacomo riguardante i soldi può allora essere esteso a tutte le ricchezze (talenti, lavoro, ruoli sociali o ecclesiali, relazioni…): facciamo attenzione che le nostre ricchezze non siano marce o mangiate dalle tarme, facciamo attenzione cioè a non investire le nostre risorse per gratificare noi stessi lasciando gli altri più poveri di prima. Facciamo attenzione che i doni di Dio non vengano consumati dalla misera ricerca di noi stessi e dell’affermazione di noi stessi, perché questo ci farà perdere tutto. Meglio tagliare via tutto quello che ci mette su questa strada – ci avvisa il Signore – per avere la libertà di godere della salvezza e della liberazione che lui prepara per tutti, in ogni modo e tramite chiunque gliene dia la possibilità.

17 - Set - 2021

XXV Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXV Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Sap 2,12.17-20   Sal 53   Giac 3,16-4,3   Mc 9,30-37)
Domenica 19 Settembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Sia la prima che la seconda lettura (seppure non scelte in accordo fra di loro) mettono l’uno di fronte all’altro due stili, uno quello del giusto e uno quello di chi è animato dallo spirito di contesa, che fa sorgere ogni sorta di cattiva azione. Chi è abitato da gelosia e spirito di divisione infatti è dominato da un desiderio (meglio sarebbe dire un’avidità) insaziabile che lo spinge a uccidere e fare guerra senza fra l’altro che riesca mai a possedere nulla (così nella lettera di Giacomo). E questo è anche l’atteggiamento degli empi della prima lettura (tratta dal libro della Sapienza) che tendono insidie al giusto. Lui  rimprovera loro le inadempienze della legge e gli empi invece di convertirsi, dominati dallo spirito di contesa che spinge a fare guerra, cercano di colpirlo con violenze e tormenti. Addirittura lo sfidano là dove è radicato il suo cuore, perché lo tentano sull’amore di Dio. Infatti, mentre gli usano violenza, lo provocano: secondo le sue parole l’aiuto gli verrà, Dio verrà in suo aiuto! E dicono questo mettendolo a morte. Il giusto invece non ha bisogno di difendersi perché non è in guerra: se rimprovera quella che riconosce come una mancanza è perché tutti vivano, anzitutto colui che sbaglia. La sapienza che lo abita è mite e pacifica, non perché non resiste al male o non lo dichiara, ma perché non vuole fare male all’altro e cerca la relazione con lui; è una sapienza sincera, senza doppi fini, e si riconosce facilmente dai frutti buoni: ciò che nasce da questa sapienza nutre e dà sapore.

I discepoli, nel Vangelo di questa domenica, sono ancora incapaci di distinguere lo stile mite e arrendevole da quello pieno di avidità che cerca il potere (magari chiamando servizio). Infatti proprio mentre Gesù parla della sua Pasqua (un’altra volta dopo quella che abbiamo sentito domenica scorsa), loro discutono sui primi posti (dopo che Gesù aveva insegnato a rinnegare se stessi e prendere la propria croce). Sanno che la logica di Gesù è un’altra (tacciono vergognosi infatti quando lui chiede di che cosa stessero parlando lungo la strada), ma seguono comunque lo spirito di grandezza che li abita.

Gesù allora li (ci) istruisce con un gesto semplicissimo, antico quanto il mondo: abbraccia un bambino. Fa cioè ciò che fanno tutte le madri e ciò che ogni essere umano venuto al mondo ha conosciuto per prima cosa: l’essere tenuto in braccio per essere nutrito, riscaldato e amato. Per insegnare ai suoi la logica del Vangelo, Gesù compie il gesto delle madri. Da loro si può imparare perché il potere non venga mascherato dalla retorica del servizio, come accade di continuo. Lo stile delle madri (senza cadere però in un’altra retorica, perché anche le madri a volte spadroneggiano sui figli) deve essere quello di accogliere coloro che ci sono affidati, fare loro spazio, fare di tutto perché crescano e lasciarli liberi. Ogni volta che il potere o l’esercizio di una responsabilità schiaccia, toglie libertà e impedisce agli altri di vivere come adulti responsabili, non si sta seguendo la logica del Vangelo; ogni volta invece che si abbraccia per far crescere e lasciare liberi, sì.

Infine Gesù ricorda ai suoi che accogliere così i piccoli, dare loro la possibilità di crescere e vivere, spendersi perché altri possano essere uomini e donne pienamente realizzati, è qualcosa che viene rivolto direttamente a lui. Chi accoglie un piccolo, accoglie me, perché è proprio ai piccoli che il suo sguardo è rivolto e chiede a quelli e quelle cui affida responsabilità di prendersi cura proprio di loro. Come una madre Gesù abbraccia i piccoli e come una madre cerca altri e altre che, come lei, si sappiano spendere perché i suoi piccoli vivano adulti e in libertà. Chi vivrà così sarà, facendosi ultimo per lasciare spazio a chi deve far crescere, sarà il primo: proprio come Gesù, la cui morte prelude la resurrezione e per il quale l’aiuto di Dio non si è fatto attendere.

10 - Set - 2021

XXIV Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXIV Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Is 50,5-9   Sal 114   Giac 2,14-18   Mc 8,27-35)
Domenica 12 Settembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La fede non è un sistema di pensiero che ci aiuta a non sentirci angosciati perché ci dà il senso della vita, né è un insieme di valori che poi dovrebbero costruire un tipo di società o un tipo di contesto culturale, molto più semplicemente la fede è la consapevolezza (che nasce da un’esperienza) di essere amati da Dio in Cristo e di essere abitati dallo Spirito di lui. Quando accade questo, le opere (pur nella fragilità e nelle contraddizioni che tutti conosciamo fin troppo bene) vengono di conseguenza: quando si ama e si è amati, non bisogna comandarsi di stare insieme o di prendersi cura gli uni degli altri, così quando si è in questa relazione con Dio non si può non amare, imperfettamente e faticosamente magari, ma non si può non amare. Se le opere non dicono questo amore, non lo incarnano, allora il problema è la fede, qualunque sia il sistema di valori o l’idea del mondo che pensiamo di avere. Per questo la lettera di Giacomo (seconda lettura) afferma: se la fede non è seguita dalle opere, in se stessa è morta, cioè non c’è.

Ma forse è il Vangelo di questa domenica che può aiutarci a scendere più a fondo e a rispondere alla domanda di quali siano le opere della fede. Gesù interroga i suoi su ciò che la gente pensa di lui, i discepoli rispondono con l’entusiasmo di quelli che seguono – e che sono stati scelti – da un uomo di successo, acclamato, ascoltato, considerato come veniva considerato il più grande dei profeti. Gesù li  provoca a esporsi in prima persona: voi chi dite che io sia? E Pietro, la cui irruenza emerge più volte nella trama dei racconti, subito riconosce in Gesù il Messia. Chissà cosa il Signore avrà pensato. Si sarà accorto che questa dichiarazione, vera dal punto di vista delle parole (davvero lui è il Messia!), era sbagliata nei contenuti, perché Pietro aveva scelto di seguire un messia glorioso e vittorioso? Oppure l’ha compreso solo quando, dopo aver insegnato che avrebbe dovuto soffrire e morire, si è sentito rimproverare da Pietro, come se la sofferenza e il fallimento fossero incompatibili con l’essere l’unto del Padre? Si intravvede nelle parole di Gesù la passione, evocata anche dalla prima lettura tratta dal profeta Isaia: sputi, insulti, flagellazione. Perché seguire Gesù se questo è ciò che l’aspetta? Perché seguire uno che non ha salvato nemmeno se stesso? Perché io lo seguo?

Gesù d’altra parte – come anche il protagonista del brano del profeta Isaia – apre alla speranza, non perché verrà risparmiato dalla morte, ma perché risorgerà (nella prima lettura: Dio mi assiste, non resterò confuso). Ci mostra così quale è l’opera della fede: vivere fino in fondo la parola d’amore del Padre – qualunque cosa costi – aspettando da lui la vita e la salvezza, nel momento in cui amarlo e amare gli altri ci dovesse portare – e molto spesso, seppure in modi diversi questo accade – alla sofferenza e alla morte. Non possiamo seguire Gesù perché questo ci tutela dalle sofferenze e dal rifiuto, né perché ci scansa la morte o la paura della morte: la sua storia ci dice chiaramente che questo non accade. Possiamo seguirlo se il suo modo di vivere, il suo amore per il Padre, è ciò che vogliamo vivere anche noi, al punto da riuscirci a consegnare ad esso completamente.

Il Maestro stesso ci dice come fare: rinnegare se stessi e prendere la croce. In queste parole possiamo leggere l’invito a rinnegare ciò che abbiamo imparato a fare per sentirci sicuri, amabili e buoni, affermati e riconosciuti. Rinneghiamo gli schemi di esperienza che ci spingono a cercare noi stessi, a non sentire le ferite e la debolezza, a fare di tutto per essere forti o sentirci al riparo. Smettiamo di cercare qualsiasi cosa che non sia la croce, cioè la logica dell’amore del Padre che desidera che tutti vivano. Solo così alla nostra fede, all’aver cioè compreso e conosciuto l’amore di Dio, seguiranno le opere, come dalla gioia viene il sorriso e dalla commozione il pianto. Quotidiano (ogni giorno) e semplice come l’amore.

04 - Set - 2021

XXIII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXIII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Is 35,4-7   Sal 145   Gc 2,1-5   Mc 7,31-37)
Domenica 5 Settembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Le regole (fra le altre) sul cibo o sulla purificazione delle mani e delle stoviglie (di cui ci parlava il Vangelo di domenica scorsa) distinguevano gli ebrei dai pagani, al punto tale che, nonostante Gesù avesse predicato che non è ciò che si mangia a rendere impuro il cuore, ma il peccato che esce da questo, quando lui stesso si trova davanti alla richiesta della donna siro-fenicia non vuole aiutarla e le risponde duramente: non è bene prendere il pane dei figli (ebrei) e darlo ai cagnolini (pagani). Ciò che fa la donna, però, lo apre ad una nuova logica, perché lei riconosce in lui il Signore e gli dice che il cibo basta per tutti: persino le briciole di questo pane possono sfamare. Gesù si accorge così, nei fatti e non solo nelle parole che aveva appena detto, che tutti sono chiamati alla salvezza. Questa donna pagana si dimostra aperta all’amore del Padre ed esperta nella sua logica per cui il Signore le dice: per questa tua parola va’, il demonio è uscito da tua figlia. A questo punto si colloca il brano di questa domenica, nel quale Marco ci racconta un nuovo viaggio di Gesù in territorio pagano.

Gesù esce dal contesto che gli è familiare, va in mezzo a quelli che non sono il suo popolo e che non sono quelli cui è stato mandato e compie un segno in cui si fa evidente il fatto che lui è il messia, infatti deve raccomandare a tutti il silenzio, che in Marco riguarda tipicamente l’identità messianica di Gesù. Non riescono però – coloro che hanno visto – a tacere: dopo che Gesù apre la bocca e le orecchie al sordomuto, anche le bocche degli altri si aprono nel riconoscere la bontà del suo agire (ha fatto bene ogni cosa) nel quale è evidente l’agire stesso di Dio. Abbatte Gesù ogni distanza: va nel territorio altrui, tocca le orecchie e la lingua del malato, gli respira addosso, in un gesto che ricorda il soffio di Dio sul primo essere umano (Gen. 2) che passa così dall’essere una bambola di fango ad essere vivente. Poter ascoltare e poter parlare infatti abbatte il muro di isolamento in cui questo uomo si trova e così lo fa rinascere, lo ricrea. Il messia veniva a compiere questa opera di riconciliazione e di vita per tutti, come ci racconta questa prima lettura tratta dal profeta Isaia: vista per chi non era capace di vedere, orecchi aperti per i sordi, lingue che erano mute ora gridano di gioia e zoppi che saltano. Ogni morte e ogni separazione di cui facciamo esperienza ha i giorni contati, il suolo riarso che ci tormenta sta per diventare una sorgente d’acqua.

Come? In che modo Gesù fa tutto questo, ora e per ciascuno/a? Forse la seconda lettura (ancora la lettera di Giacomo) può indicarci una via. In questo brano Giacomo insegna che la fede elimina i favoritismi personali, non nel senso che non dobbiamo avere una preferenza per quelli legati a noi dall’amicizia e dalla vicinanza (questo sarebbe semplicemente disumano e infatti non è stato lo stile di Gesù), ma nel senso che quando ci si raduna, ovvero nella chiesa (perché questo non vale solo per le celebrazioni), non si possono preferire i ricchi disprezzando i poveri: questo sarebbe un giudizio perverso, perché Dio al contrario sceglie i poveri. La fede allora, cioè avere riconosciuto Gesù come Signore e quindi lasciarsi dominare dallo Spirito di lui, permette di abbattere tutte le barriere perché ci fa guardare in altro modo chi è povero, al punto da preferirlo, e perché è capace di farci fare esperienza della nostra povertà (cecità, sordità, lingua inceppata, zoppia o qualunque altra) in altro modo, come qualcosa che Dio predilige. Proprio su questa povertà che noi non vorremmo avere, su quello che ci impedisce la comunione, la condivisione, l’intelligenza e la bontà, proprio su ciò che ci fa soffrire, che disprezziamo di noi stessi e che ci umilia di fronte agli altri, proprio su questo Dio si ferma e proprio questo tocca, perché possiamo alzarci da dove siamo e ricominciare a vivere. Forse la liberazione di cui facciamo esperienza non è così eclatante ai nostri occhi, come è stata quella del sordomuto della Decapoli, ma ne riconosceremo la potenza se lasceremo che il Signore tocchi ciò che non vorremmo mai mettergli davanti ma per farlo non basta sentirne il bisogno, occorre anche ricordare quanto Giacomo dice ai suoi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano? Dio ha scelto i poveri, questo spiega perché abbia scelto noi, non abbiamo nulla da temere da ciò che tanto lo attrae.

27 - Ago - 2021

XXII Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXII Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Dt 4,1-2.6-8   Sal 14   Giac 1,17-18.21-22.27   Mc 7,1-8.14-15.21-23)
Domenica 29 Agosto 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Le letture di questa domenica, in cui riprendiamo il Vangelo di Marco, insistono sulla messa in pratica della parola. La fede infatti si gioca tutta sull’ascolto di ciò che Dio dice, sull’accoglienza della sua parola e sulla messa in pratica, sul rendere cioè gesti e vita ciò che si è ascoltato. Così nella prima lettura (alcuni versetti di un discorso di Mosè nel quale sono riportate le parole di Dio al suo popolo) per ben due volte troviamo l’esortazione a mettere in pratica i comandamenti di Dio, cioè le sue dieci parole. E la necessità di mettere in pratica la parola torna anche nei pochi versetti della lettera di Giacomo (che ci accompagnerà per qualche settimana) nella quale ci viene presentata la dinamica fondamentale della vita credente: ci è stata piantata dentro una parola che è capace di portarci alla salvezza e ciò accade quando questa parola diventa pratica, azione. Se si è solo ascoltatori ci si illude e pur parlando di Dio, magari pregando o compiendo gesti ad ogni evidenza religiosi, si sta facendo qualcosa d’altro che essere credenti. Sembra che Dio sia semplice e concreto, come i bambini e gli anziani: gli interessano solo i fatti, magari piccoli, ovvi, anche faticosi, ma solo i fatti, perché solo nei fatti si dà l’amore e la relazione.

D’altra parte, proprio per questo, proprio perché Dio è interessato solo all’amore e alla relazione, non gli interessano i gesti che sono solo esteriori, magari fatti per ostentare la propria bravura o per sentirsi impeccabili: in questo caso anche la Parola di Dio e le azioni che la mettono in pratica vengono ridotte a tradizioni di uomini. I gesti diventano così inutili o addirittura controproducenti, perché riteniamo di essere giusti, migliori di altri, perché ci accontentiamo delle azioni che possiamo vantare e non ci interessa se il nostro cuore è lontano, se ciò che amiamo è altro da Dio o se non amiamo affatto. Da qui l’insegnamento di Gesù su ciò che esce dal cuore dell’essere umano: facciamo attenzione da cosa ci spinge ad agire, proviamo a conoscere e a distinguere i moti profondi del cuore, per comprendere se stiamo compiendo qualcosa di puro oppure no. Impariamo a comprendere se è la Parola che abbiamo ascoltato a diventare gesto perché ha messo radici in noi o se i gesti sono esteriori, senza amore, senza essere radicati nell’amicizia con Dio.

È probabile che, insieme all’amore che proviamo a vivere, intorno alla parola che ci è stata piantata dentro, nel nostro cuore troveremo furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, stoltezza, superbia, invidia. È bene guardare e sapere, perché così non affideremo la nostra salvezza ad una serie di atti incapaci di cambiarci il cuore, ma torneremo continuamente alla Parola che sola è capace di condurci alla comunione con Dio. Così facendo anche le nostre azioni verranno trasformate, diventando frutti concreti dell’amore che ci è stato detto e cui continuamente attingiamo.

Facciamo nostra allora l’esclamazione stupita di Israele: davvero nessuno ha un Dio così vicino che costantemente rinnova la sua parola perché invadendoci il cuore ci riempia le mani e il corpo di pratiche d’amore, rendendo le nostre giornate una continua occasione per custodire la vita altrui e la nostra.

20 - Ago - 2021

XXI Domenica del T.O. anno B

Tempo Ordinario

XXI Domenica

Tempo Ordinario anno B

(Gs 24,1-2.15-17.18   Sal 33   Ef 5,21-32   Gv 6,60-69)
Domenica 22 Agosto 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Dio non è uno cerca seguaci o ammiratori. Nel brano del libro di Giosuè (purtroppo tagliuzzato) si riporta il patto fra Dio e Israele da stipulare di nuovo, ora che le tribù sono entrate in possesso della loro terra, ora che la promessa di Dio si è realizzata. Chi volete servire ora che avete avuto ciò che speravate? Nelle parti tagliate del racconto, Giosuè cerca di scoraggiare il popolo a stringere alleanza con Dio: sarete infedeli, andate per la vostra strada. Il popolo però rimane fermo: ricorda che non era altro se non uno schiavo e sa chi lo ha liberato conducendolo altrove. Similmente nel Vangelo di Giovanni, nel brano che chiude questo lungo discorso, Gesù non si scompone di fronte al fatto che molti se ne vadano perché non riescono a credere che lui è il pane vero donato per la vita del mondo. Anzi, non solo non si scompone, ma si rivolge direttamente ai Dodici e chiede se se ne vogliano andare anche loro. Pietro afferma che non hanno altri da cui andare perché le parole di Gesù sono parole di vita eterna, rispondendo indirettamente a quei discepoli che avevano definito dure quelle stesse parole: questa parola è dura chi può ascoltarla?

Perché la stessa parola può per alcuni suonare dura (questo intendeva Giosuè quando diceva al popolo che era troppo difficile per loro la parola che ascoltavano) e per altri avere il sapore della vita eterna, di qualcosa che non si può lasciare perché – per quanto ci si senta incapaci di accoglierla e viverla – già si sa che non esiste altro che abbia una tale bellezza? La differenza sta nell’esperienza che si è fatta: se si è riconosciuto il Santo di Dio (così dice Pietro) cioè se si è sperimentato che la vita di Gesù illumina, rinnova, salva e dona vita, allora nessun’altra parola, per quanto bella, potrà attrarci di più: da chi andremo? Si tratta di un’esperienza – magari nel deserto e nella lotta come succede alle tribù di Israele – in cui si è toccata la presenza liberante di Dio: una volta toccata con mano la potenza di vita che viene da lui, le parole che ci rivolge avranno sempre il sapore della vita e mai sembreranno dure. Duro piuttosto ci sembrerà il nostro cuore incapace di accoglierle nonostante sappia chi è colui che le pronuncia.

Il brano della lettera agli Efesini che ci viene offerto nella seconda lettura può essere un banco di prova sia della vita che la parola di Dio porta che della durezza del nostro cuore. Si parla del matrimonio e di come questo possa essere considerato un segno della relazione fra Cristo e la Chiesa (ovviamente siamo sul piano dei simboli perché la chiesa non è una ragazza e Gesù non sposa nessuno), ma nel fare questo, pur ripresentando la situazione culturale del tempo che prevedeva la sottomissione delle mogli (la struttura sociale era iniqua e patriarcale, quindi sottometteva donne, bambini e schiavi), emergono le parole di vita del Vangelo: siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo. Magari non era possibile cancellare le norme sociali né le consuetudini assodate da millenni di subordinazione, ma si poteva vivere tutto in altro modo: le mogli per prassi sociale sono sottomesse ai mariti? E noi scegliamo la sottomissione reciproca. In più il Vangelo ci insegna un amore che deve essere quello di Cristo (non solo da parte dei mariti, ovviamente ma di tutti e tutte) che arriva a dare la vita per quelli che sono parte di lui, cioè tutti quelli che credono in lui. Di fronte ad un tale annuncio che cosa resta più della struttura ingiusta che umiliava donne e bambini? Nei fatti niente, anche se non si aveva il potere di modificare le leggi: i cristiani e le cristiane vivono un’altra logica, fanno crescere un altro mondo.

Questa parola è sembrata dura e ancora oggi lo sembra, tanto è vero che molto spesso questo brano viene interpretato come se il Vangelo ci insegnasse che sono i maschi ad essere capo delle mogli (e tanto è vero che ancora oggi nei paesi di tradizione cattolica la condizione delle donne è peggiore che negli altri paesi Occidentali, per non parlare della condizione delle donne nella chiesa). Lo sappiamo, non è facile: bisogna aver fatto l’esperienza di essere stati liberati dal Vangelo e aver toccato con mano che non c’è bellezza più grande che essere fratelli e sorelle, servirsi e donarsi vita reciprocamente, senza padroni e senza gerarchie. È una parola dura solo se non si è ancora riconosciuto in Gesù, nel suo stile e nelle sue parole, il Santo di Dio.

13 - Ago - 2021

Assunzione della Beata Vergine Maria

Assunzione Beata Vergine Maria

Dal Piccolo Eremo delle Querce Caulonia (RC)

Assunzione della Beata Vergine Maria

anno B

(Ap 11,19; 12,1-6.10   Sal 44   1Cor 15,20-26   Lc 1,39-56)
Domenica 15 Agosto 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il ritmo delle domeniche del tempo ordinario viene interrotto questa settimana dalla festa dell’Assunta. La Scrittura non parla del momento in cui Maria è passata dalla vita su questa terra alla vita in Dio, ma la comunità credente (che molto presto ha cominciato a celebrare la memoria del passaggio dei martiri e dei santi alla vita con Dio) ha creduto che Maria doveva aver affrontato la morte senza venirne toccata. Lei che non ha ceduto al male in nessun modo doveva essere arrivata davanti alla morte con una singolare fortezza, tanto da godere immediatamente della resurrezione (che altro significa essere assunta in cielo anima e corpo se non risorgere alla vita con Dio?). Nella sua storia poi la chiesa – pur faticando per le categorie utilizzate che hanno finito per parlare di Maria come dell’unica destinataria di privilegi singolari, lontanissima da tutti gli altri – ha saputo leggere in questo destino glorioso di Maria un pegno di speranza, l’anticipo di ciò che ci aspetta. Lei diventa così il segno grandioso perché i credenti sappiano che la morte non è in grado di toccarci.

E di segno grandioso parla il brano dell’Apocalisse (prima lettura) che descrive la chiesa, non Maria, come una donna che sta per partorire. In questa donna che lotta per la propria vita e per quella del bambino (perché sempre un parto, soprattutto dove non si dà ospedalizzazione, è un luogo in cui tutti rischiano la morte), per di più in condizioni improbe (davanti al drago che li vuole divorare), si vedeva la chiesa sofferente e perseguitata, ma anche affaticata dalla propria infedeltà, impegnata nella fatica di  mettere al mondo la vita, cioè Cristo Signore reso presente dalla testimonianza dei credenti. Anche la seconda lettura (prima lettera ai Corinzi) ci parla di una fatica, ma nella forma di un combattimento che vede Cristo sconfiggere tutti i nemici, l’ultimo dei quali è appunto la morte.

Potremmo concludere quindi che la liturgia di oggi ci spinge a contemplare Maria alla fine della sua lotta contro il male in tutte le sue forme, che in modo suggestivo si può cogliere proprio come un travaglio di parto, alla fine del quale resta solo la vita che nasce e il riposo sazio di chi ha travagliato. Così la possiamo pensare nel suo passaggio dalla vita terrena a quella del cielo: impastata della fatica e della bellezza della sua storia, eppure sazia e colma di pace, come una partoriente alla fine della sua fatica. La morte ha provato a minacciarla, ma è stata sconfitta.

Questo travaglio da portare a termine è anche il nostro. Per comprendere come diamo la parola – come fa il Vangelo – alle donne (d’altra parte in materia di travaglio sono delle esperte) e in particolare alle profetesse che Luca ci mette davanti in questa pagina famosissima e straordinaria. La prima che profetizza è Elisabetta e dichiara Maria – e ciascuno di quelli che fa come lei – beata per la sua fede. La fede allora è ciò che permette di condurre a termine felicemente il travaglio, perché (guardiamo cosa fa Maria in questa pagina) ci fa muovere da dove siamo, ci fa servire, ci fa mettere al mondo la salvezza. La seconda profetessa è Maria che intona il Magnificat insegnandoci che il travaglio si porta a termine riconoscendosi creature fragili e povere e, proprio perché tali, disposte ad aprirsi ai doni di Dio che promettono e realizzano la giustizia della fraternità: una giustizia che rifugge tutte le gerarchie (i potenti scendono dai troni ai livelli degli altri) e ogni disuguaglianza (le mani dei ricchi vengono svuotate di ciò che hanno in più perché nessuno abbia più fame).

La via è indicata, la meta già si può intravvedere, per questo la chiesa – oppressa come tutti dalle minacce della malattia, della violenza, della distruzione della Terra – si ferma in questi giorni caldissimi e prende fiato, come se una brezza fresca portasse via l’opacità dell’afa e ci lasciasse per un attimo vedere più lontano da dove, sorella e amica, Maria ci sorride e di nuovo canta per noi il Magnificat per ricordarci cosa dobbiamo sperare e per cosa dobbiamo vivere.

06 - Ago - 2021

XIX Domenica T.O. anno B

Tempo Ordinario

XIX Domenica

Tempo Ordinario anno B

(1Re 19,4-8   Sal 33   Ef 4,30-5,2   Gv 6,41-51)
Domenica 8 Agosto 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Come si può riconoscere che Gesù, la sua vita e la sua parola, sono un pane che fa vivere, addirittura che fa risorgere quando si cade nella morte? Sappiamo di chi è figlio – dicono i giudei – quindi come può dire che è disceso dal cielo, che è il dono che Dio dà (come aveva dato la manna) per farci vivere? Il Signore risponde con grande semplicità. Non comincia a difendere se stesso, a dimostrare, ad elencare i segni fatti, ma in modo del tutto essenziale dice che solo chi è attirato dal Padre può riconoscere in lui colui che è stato mandato per dare vita al mondo. Occorre infatti, per riconoscere in Gesù l’inviato di Dio, avere una qualche intimità con Dio stesso, magari nemmeno cosciente o pensata, ma semplicemente vissuta, come capita a chi è docile alla logica dell’amore – che viene sempre dallo Spirito – e si dedica a far vivere altri. Il Padre infatti non manda solo il Figlio, ma anche lo Spirito che ci abita e ci sussurra nel cuore ciò che Dio vuole e spera. Chi è capace di cogliere il suo mormorio nelle mille voci e rumori che si affollano intorno a noi e dentro di noi, allora può riconoscere in Gesù colui che è capace di farci vivere, ora e nella morte.

La prima lettura (primo libro dei Re) ci racconta di come Elia riesca a cogliere il mormorio dello Spirito nello sconforto. È stanco, non vuole più vivere: l’ennesima delusione vissuta proprio mentre cerca di servire Dio con tutto se stesso l’ha sfinito. In realtà non c’è nessuna garanzia che fare il bene porti ci porti il bene, non è detto che servire Dio ci conduca a risultati, tranquillità o anche solo benessere. Elia infatti percepisce che qualunque cosa faccia resta solo e sconfitto. Da adulti molte volte ci si sente così, come se il tanto impegno e il tanto bene che si è cercato di fare fossero del tutto inutili: ora basta, Signore. Ma Dio prepara cibo ed acqua ad Elia per due volte: sonno, pane e acqua per avere le forze di camminare ancora una volta e incontrare il Signore nella brezza di un vento leggero, mite eppure indomabile. Così per noi prepara il cibo della parola di Gesù, del suo vissuto, dei segni che celebriamo nei sacramenti, della comunione con i fratelli e le sorelle, del bene concreto fatto e ricevuto, un cibo che può farci rialzare anche quando dovessimo arrivare a pensare che non sia più possibile andare avanti o non ne valga più la pena.

Questo cibo, che ci fa vivere sempre, qualunque sia la fame o la morte che incontriamo, è il dono stesso che Gesù fa di sé: egli infatti (così leggiamo nei pochi versetti della lettera agli Efesini) ci ha amato e ha dato se stesso per noi offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore. Gesù si dona – lungo tutta la sua vita e nella morte – per vedere noi vivere: la sua non è la morte degli eroi o dei folli votati ad una causa, è piuttosto la vita spesa fino alla fine per far vivere quelli che ama, noi. Accogliere questo dono ci nutre (per tornare al segno del pane) perché nel momento in cui accogliamo il suo dono cominciamo (come di dice ancora la lettera agli Efesini) anche noi ad amare come lui, vivendo concretamente nella carità, correggendo il modo di parlare e di agire con gli altri, usando con loro misericordia (il perdono che fa vivere) e benevolenza (il bene fatto perché l’altro viva). Se Elia non avesse mangiato il cibo o non avesse camminato verso il monte Oreb, il dono ricevuto sarebbe andato sprecato, così è per noi se non lasciamo che il cibo di Gesù – ciò che lui ha vissuto ed è – ci trasformi nelle parole e nelle opere introducendoci già ora nella vita, per poter sperare poi nella resurrezione. Se però ascoltiamo il mormorio del Padre e ci lasciamo attrarre alla bellezza della vita e dell’amore di Gesù, avremo occhi per riconoscere il valore del dono che lui è per noi e nel riconoscerlo finiremo per imitarlo, scoprendo che in questo sta tutta la vita possibile.