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24 - Apr - 2020

III Domenica di Pasqua (A)

Risurrezione nel cuore delle Donne

III Domenica di Pasqua

(At 2,14.22-33   Sal 15   1Pt 1,17-21   Lc 24,13-35)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Molte volte, mentre lo metto a letto, il mio figlio più piccolo mi chiede come facciamo a credere che uno è risorto dai morti. Mi fa mille intelligenti domande, cui io cerco di dare qualche risposta almeno accettabile. Proviamo ad ascoltare con l’animo trasparente dei bambini, ma anche con la loro intelligenza fresca, pronti a mettere in discussione per comprendere, l’annuncio che la chiesa ripete fino allo sfinimento in questi cinquanta giorni: “Questo Gesù Dio lo ha resuscitato” (anche la prima lettura di questa domenica ripete questo annuncio, quello risuonato per la prima volta sulla bocca di Pietro dopo che tutti i discepoli e le discepole che erano nel cenacolo erano usciti e avevano proclamato le grandi opere di Dio e i presenti li avevano sentiti parlare ognuno nella propria lingua).

Come è possibile credere una cosa del genere? Facciamo attenzione a quella fede troppo veloce, che somiglia all’affidamento cieco degli scaramantici: non posso capire ma ci credo perché mi fa sentire meglio. Se facciamo così – e a volte lo facciamo tutti, è umano e comprensibile – rischiamo di credere qualcosa che non ci cambia la vita, che non la tocca: allora può succedere che viviamo come se non avessimo alcuna speranza anche se diciamo di credere.

Nella seconda lettura Pietro cerca di farci rendere conto della portata dell’annuncio che abbiamo ricevuto: avevamo ereditato una condotta vuota incapace di darci la vita piena e siamo stati liberati dalla Pasqua di Cristo. La morte e la resurrezione di lui ci danno una speranza che ci rivolge a Dio e che ci fa camminare nella storia consapevoli che questa non è la nostra patria. Non è, infatti, la logica del mondo quella che dobbiamo assumere né la sua disperazione o il confidare nella violenza e nel potere, ma come stranieri attendiamo che il cammino ci conduca alla vita che ci è stata promessa e (come leggiamo nel salmo) sappiamo che il Signore ci porterà infallibilmente alla meta e che non ci abbandonerà: ciò che ci attende è il sentiero della vita, gioia piena alla presenza di lui, dolcezza senza fine.
Tutto questo è vero se è vero l’annuncio del Vangelo. Ma come facciamo a crederci? “Come facciamo, mamma, a sapere che non è una storia inventata da qualcuno per sentirsi meglio, perché la morte fa paura?”. Così il mio figlio più piccolo, ma lo hanno chiesto anche gli altri a loro tempo e ancora oggi hanno altre domande che chiedono – giustamente! – le ragioni di questa speranza.
Per trovare queste ragioni possiamo andare al Vangelo di domenica. I discepoli di Emmaus sono disillusi: avevano sperato che fosse Gesù a liberare Israele, ma i capi lo avevano fatto condannare a morte e lui era morto come tutti. Come se non bastasse delle donne – ma si sa: le donne sono facili a parlare e non sono affidabili (questa la mentalità del tempo, sperando che non sia più la nostra) – avevano parlato di resurrezione, ma come si fa a credere a questo? Questi discepoli sono stati con Gesù, lo hanno conosciuto, hanno ricevuto l’annuncio dalle testimoni che Gesù si è scelto, eppure non riescono a credere: dai morti non si risorge, lo sanno tutti. Gesù ascolta, di fianco a loro, i loro discorsi. Ascolta anche noi, le nostre farneticazioni, le nostre paure, le nostre incomprensioni. Tanto noi ci stanchiamo di ascoltare le chiacchiere e quelle che ci sembrano le stupidaggini degli altri, tanto lui è paziente. Ascolta. E poi, con grande schiettezza, ci dà degli stolti. Non crediamo all’annuncio del Vangelo, non ci sembra possibile (oppure ci crediamo con affidamento cieco senza farlo veramente nostro) perché non conosciamo le Scritture, non ci affidiamo cioè a ciò che Dio dice, al suo modo di leggere la storia e di spiegare le cose. E senza le Scritture siamo stolti, senza sapienza. Se ascoltassimo la Parola di Dio e guardassimo la vita alla luce di questa parola, ci accorgeremmo che la vita non muore, che Dio fa risorgere continuamente…e così l’annuncio della resurrezione di Gesù non ci sembrerebbe così incredibile.
Poi, però, se si prende il gusto di ascoltare questa parola, allora non si vorrebbe mai smettere: resta con noi. Dovrebbe essere la nostra richiesta struggente ogni volta che ascoltiamo la Parola, come diremmo ad un amico che amiamo e che sappiamo che non rivedremo per tanto tempo: resta ancora un po’.
Le Scritture ci istruiscono a cogliere la logica profonda di Dio, ci fanno comprendere i suoi pensieri, ci mostrano la nostra vita e tutta la realtà così come le vede lui, allora, quando queste ci hanno aperto le orecchie, siamo pronti anche per riconoscere il Signore vivo in mezzo a noi, per vederlo. I discepoli infatti, colmi della Parola ascoltata, si mettono a tavola con Gesù e lui spezza il pane: questo gesto, per i loro cuori nutriti dall’ascolto della Parola, diventa un’evidenza e lo riconoscono.
Quali sono, allora, i gesti in cui noi possiamo riconoscere il Risorto vivo in mezzo a noi? Quelli che lui ha scelto: spezzare il pane insieme per essere fratelli e sorelle, lavarci i piedi gli uni gli altri. Ogni volta che vediamo questo, istruiti dalla Scrittura, i nostri occhi si aprono e noi riconosciamo il Signore presente e vivo. Ogni volta sapremo che lui è vivo e che l’annuncio della resurrezione è vero. La nostra stessa vita, liberata dalla morte e diventata luogo in cui spezzare il pane e lavare i piedi, ne è la prova. Io guardo il mio bambino (e i miei figli tutti) ogni sera e so che il Signore è vivo per l’amore che mi è dato di vivere, per il pane condiviso, per i piedi lavati, e per una parola che dà senso a tutto e che, scritta duemila anni fa, racconta per filo e per segno le mie giornate. Questo è vero per ogni credente.
Allora, come i due pellegrini di Emmaus, andiamo entusiasti dal resto della chiesa e ci sentiamo fare di nuovo l’annuncio: davvero il Signore è risorto! Ma questa volta crederemo, perché lo sappiamo già. Lo abbiamo incontrato, lo abbiamo ascoltato e lo abbiamo riconosciuto mentre spezzava il pane.
17 - Apr - 2020

II Domenica di Pasqua (A)

Risurrezione nel cuore delle Donne

II Domenica di Pasqua

(At 2,42-47   Sal 117   1Pt 1,3-9   Gv 20,19-31)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il tempo di Pasqua ci offre l’opportunità di meditare non tanto sulla resurrezione del Signore, ma su come possiamo sperimentare la sua presenza. A questo scopo, i Vangeli (per lo più tratti da Giovanni) si accompagnano alla prima lettera di Pietro, che spiega in cosa consista la vita cristiana iniziata con il battesimo e come questa si dispieghi nel tempo della prova, e agli Atti degli apostoli, in cui la prima chiesa impara, guidata dallo Spirito, a porre gesti e parole nei quali quello che è stato vissuto con Gesù possa essere di nuovo un’esperienza concreta da fare insieme e da trasmettere ad altri.

Il Vangelo di questa domenica ci insegna il passaggio fra la fede che sorge dall’aver visto il Signore (attenzione che si tratta sempre di fede: le apparizioni del Risorto non costringono, non dimostrano nessuna verità in modo inconfutabile, ma chiedono di credere) e la fede che sorge senza aver visto. D’altra parte solo chi aveva conosciuto Gesù prima della sua passione poteva credere vedendolo risorto: cosa avrebbero potuto riconoscere e comprendere dell’apparizione del Risorto quelli che non l’avevano seguito?
Il Vangelo ci racconta che Tommaso non era presente quando Gesù si mostra ai discepoli e (come biasimarlo?) se ne rammarica: non è anche lui uno di quelli che sono stati con lui? Lui può credere vedendolo: perché gli deve essere negato? Infatti Gesù si mostra al suo discepolo otto giorni dopo e Tommaso professa subito e senza toccare (al contrario di quanto aveva detto in un primo momento) la propria fede: mio Signore e mio Dio. Gesù però prende lo spunto da qui per insegnare che da questo momento in poi, per quelli che verranno, la fede nascerà non dal vedere, ma dall’ascolto dell’annuncio. Infatti il quarto evangelista in quella che è la conclusione del suo Vangelo (prima dell’ultimo capitolo che è di fatto un’appendice) spiega che il libro che stiamo leggendo (e con esso i libri del Nuovo testamento e tutta la predicazione di questi discepoli) è stato scritto perché crediamo e credendo abbiamo la vita nel nome di Gesù. Da questo momento in poi la chiesa ripete le parole di Gesù e su Gesù perché gli esseri umani credano e, riconoscendolo vivo in mezzo a loro e per loro, abbiano la vita.
Non solo le parole, però, rendono presente il Signore, perché la fede che nasce dall’annuncio porta a compiere gesti e si trasforma in vita vissuta. Così gli Atti degli apostoli (seppure in modo stilizzato e forse idealizzato) ci presentano la prima comunità che ascolta l’annuncio, prega, spezza il pane, condivide i beni. I credenti imparano così che il Risorto è presente in ciò che loro vivono e condividono: parole che parlano di lui, parole rivolte insieme a Dio, pane condiviso nella preghiera e nella vita, perdono dei peccati (gesto menzionato da Gesù che compare in mezzo ai suoi discepoli, tutto preoccupato di annunciare la pace e la riconciliazione: non era tornato per giudicare chi l’aveva abbandonato o tradito o ucciso, ma per dare la vita).
Le parole e i gesti del Risorto, quindi, lo rendono presente e così i cristiani diventano consapevoli – con una gioia immensa che il salmo ci invita con forza ad esprimere – di avere una speranza che non può essere distrutta, qualsiasi prova li affligga (arriviamo così alla prima lettera di Pietro). Abbiamo infatti, anche in mezzo alle tribolazioni, che le vicende della storia e gli esseri umani ci impongono, la possibilità di incontrare il Risorto, di ascoltarne le parole e vederne i gesti. E così, fermi nella fede, le prove della vita diventano, paradossalmente, l’occasione per purificare le scorie che ancora rimangono e vedere poi risplendere, come l’oro passato nel fuoco, il dono che ci è stato fatto.
Siamo in un tempo di pandemia, molti soffrono, troppi muoiono, il lavoro è minacciato, gli affetti difficili, non possiamo vederci, muoverci, celebrare: quali scorie dobbiamo bruciare in questo fuoco? Quali ingiustizie? Quali sprechi? Quali disuguaglianze? Quali freddezze e indifferenze? Quali prassi ecclesiali oramai inutili o dannose per l’annuncio del Vangelo e per la realizzazione di una fraternità vera? Il male non viene mai da Dio, ma Dio può – se assecondiamo la potenza del suo Spirito – ribaltare il male in altro, rendendo persino la morte un’opportunità di vita: Gesù affronta la morte ingiusta subita dagli uomini in questo modo, sperando che Dio la trasformi in resurrezione per tutti. Un fuoco che purifica la fede e la vita, in attesa che la gloria di Dio si manifesti finalmente e trionfi su ogni male.
10 - Apr - 2020

Sabato Santo e Pasqua

Risurrezione nel cuore delle Donne

Sabato Santo e Pasqua

(At 10,34a.37-43   Sal 117   Col 3,1-4   Gv 20,1-9)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Dopo la morte del Signore la chiesa attende. I discepoli non sapevano di attendere. Alcuni o alcune, forse, speravano oltre ogni speranza, ma comunque il giorno del sabato passa nel silenzio. Tacciono le parole. Non ci sono più segni. Il Signore della vita è morto. Il nostro peccato, la nostra iniquità, il nostro male banale e meschino, lo hanno ucciso, come uccide i poveri, i fratelli, la madre Terra. E adesso? Davanti all’irrimediabile e definitiva parola della morte, davanti alla pietra chiusa resta solo da tacere.

Ci viene chiesto di vivere così il sabato, ma – diversamente dai discepoli – noi abbiamo già la certezza di quello che troveremo il mattino del giorno dopo. La nostra attesa così si riempie di gioia. Le letture della veglia pasquale – quest’anno decurtata di segni decisivi quali l’assemblea radunata, il fuoco, il battesimo – ci devono accompagnare nella meditazione della buona notizia che sta alla radice dell’esistenza di ciascuno di noi: eravamo morti e siamo stati riportati in vita. Il Risorto dà appuntamento ai suoi in Galilea, nei luoghi dove ha insegnato e compiuto segni, e lì torniamo anche noi, perché la tomba (anche la tomba da cui noi siamo stati tratti fuori) è vuota: andiamo altrove e in attesa di vederlo ascoltiamo questo fiume di parole per prendere coscienza che siamo stati riportati alla vita. Solo la consapevolezza, infatti, del nostro essere stati fatti rinascere (nel battesimo e infinite altre volte), ci condurrà davanti al sepolcro vuoto capaci di credere. Vedremo solo una tomba vuota (come i discepoli trascinati al sepolcro da Maria Maddalena), eppure crederemo, perché sappiamo che cosa significhi: come chi è stato innamorato, sa riconoscere quando ha davanti una persona innamorata, così chi è stato riportato alla vita, sa vedere nel sepolcro vuoto un segno evidente della vita che trionfa.
Ripercorriamo allora le letture di questa notte santa per celebrare la vita che Dio fa scorrere in noi e ovunque e per contemplarne la pienezza nel primo dei risorti.
La prima magnifica descrizione del mondo (che apre la Scrittura) ce lo mostra plasmato dallo Spirito che esce da Dio modulato nella parola (come il nostro fiato che nella gola viene reso suono): Dio parla e ciò che esiste si mette in ordine, diventa ciò che lui desidera, ciò che lui ama. E Dio fa spazio a ciò che sorge, dà vita e si ritira perché il mondo, affidato a quelli che sceglie per curarlo (i grandi luminari in cielo e gli esseri umani sulla terra), possa prosperare, moltiplicando la vita.
La vita non rinasce però solo nel creato, ma anche negli esseri umani chiamati a riconoscere l’amicizia di Dio. Così Abramo rivive nella speranza di una discendenza e rivive ancora quando gli viene restituito il figlio della promessa: non è per la morte che Dio lo ha chiamato. Così nel padre Abramo veniamo guidati a riscoprire quale sia la promessa di vita che Dio ha fatto a noi. Anche Israele poi, stretto fra la schiavitù e la morte, rinasce, liberato al di là di ogni ragionevole possibilità, pegno di speranza per noi che conosciamo il giogo di molti e diversi padroni.
E se fosse il tradimento dell’alleanza con il Dio della vita a tormentarci, allora Isaia ci mostra un’altra rinascita nel perdono di Dio che riprende sempre con sé chi ama. Abbandono e sterilità non sono l’ultima parola, perché Dio raccoglie con immenso amore anche quelli che ha dovuto abbandonare. Il suo affetto è inamovibile come i monti e più dei monti. E per far fiorire la nostra terra di frutti abbondanti, Dio dona la sua parola, come una pioggia che feconda, un’acqua che disseta e un cibo che nutre: da noi, per suo dono, sgorga inesauribile la vita. Il profeta Baruc si ferma a meditare ancora il dono della parola di Dio e della legge: i comandamenti della vita sono la sapienza che Dio condivide con noi, la logica profonda del suo cuore che tutto ama e tutto conduce alla vita.
Infine se fosse l’esilio o il fallimento dell’alleanza e della vita ad alzarsi di fronte a noi beffardo, negando la verità di ogni promessa o dichiarandoci colpevoli per aver mandato in malora ogni dono di Dio, Ezechiele griderà per noi il ritorno dall’esilio, la purificazione, un cuore di carne abitato dallo Spirito di Dio, perché come Dio ha creato tutto, come rinnova la vita e il perdono, così rimette il suo popolo sempre di fronte alla possibilità di servirlo e di amarlo, come se fosse il primo giorno, come se fosse il primo dei giorni. E la Pasqua è proprio questo giorno mai visto, in cui la morte cede il passo alla vita e il sepolcro resta vuoto, inutile. Il Signore risorto offre alle braccia adoranti delle donne la verità delle Scritture impressa nella sua carne vivente e apre ad una vita nuova, fatta di amore e di testimonianza: Andate!
La tomba vuota (che il Vangelo di domenica mattina ci presenta) è eloquente adesso, perché ogni cosa ci parla della vita che rinasce e perché noi stessi siamo risorti con Cristo e così cerchiamo e vediamo le cose di lassù (lettera ai Colossesi), pronti a testimoniare che colui che era stato ucciso è risorto e che in lui si riceve il perdono dei peccati (prima lettura tratta dagli Atti degli apostoli), perché noi per primi – come ci dice in più modi la bellissima epistola ai Romani proclamata nella veglia pasquale – sappiamo di essere morti con Cristo (al peccato) e di vivere con lui. Anche noi facciamo Pasqua: morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù, fatti nuovi dal dono di lui, come una meraviglia mai vista prima.
07 - Apr - 2020

Settimana Santa: Giovedì, Venerdì

francesco abbraccia crocfisso mosaico

Settimana Santa: Giovedì, Venerdì

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il primo giorno del triduo pasquale è il venerdì (giorno in cui riviviamo la passione del Signore) ma viene introdotto dal giovedì sera dove riviviamo l’ultima cena di Gesù, nella quale Gesù stesso ci spiega come comprendere ciò che sta per accadere. La sua morte, infatti, si presenta come un atto brutale e ingiusto (e lo è), per cui, senza occhi capaci di vedere oltre, non c’è motivo per restare di fronte ad essa. Per questo Gesù, prima di morire, si preoccupa di insegnarci a guardare ciò che sta per accadere.

Due sono i gesti che Gesù fa per permetterci di comprendere il significato profondo della sua Pasqua. Il primo è un memoriale, come quello celebrato da Israele prima di partire dall’Egitto, capace di dire che la morte, anche se così vicina, non è capace di toccarci (il sangue dell’agnello sulla porta impediva alla morte di entrare nella casa). Gesù sfrutta la stessa logica per lasciare un’altra cena (che la chiesa ripeterà lungo tutta la propria storia per rendere presente il mistero della Pasqua di lui), capace di mostrare che lui vive la propria morte non come un annientamento, ma come un dono fatto ai suoi perché vivano. Un pane spezzato per nutrire altri e un vino versato per rallegrarli.
Giovanni ricorda invece un altro gesto: la lavanda dei piedi. Anche questa è scelta da Gesù per spiegare ciò che accade: muore per servire chi ama e perché questi poi facciano lo stesso per altri (Gesù non si fa lavare i piedi da Pietro, perché potremo lavare i piedi di lui, ricambiando così il suo dono di amore, nei piedi di quelli che ci sono dati da servire). Entrambi i gesti, spezzare l’unico pane (e bere l’unico vino) e lavare i piedi, rivelano ciò che dobbiamo guardare in questa morte terribile: l’amore smodato di Gesù che ama i suoi (e ciascuno/a di noi) fino alla fine.
A questo punto riviviamo l’ultimo giorno di Gesù. La liturgia della Parola ci presenta il quarto e ultimo canto del servo del Signore, in cui qualcun altro tanto tempo fa ha già sofferto ciò che toccherà a Gesù (perché le vittime delle ingiustizie e delle violenze sono innumerevoli) e che Gesù fa suo, identificandosi con tutti coloro che soffrono, con tutte le vittime della storia. Queste – ci rivela il canto del servo – sembrano colpite da Dio, ma misteriosamente portano il peso del male a favore di tutti: nella vicenda di Gesù questo diventa straordinariamente evidente, perché dopo il tormento vede la luce. Le preghiere di lui, ci spiega la lettera agli Ebrei, di essere salvato dalla morte vengono esaudite, perché dopo la passione è risuscitato e così è diventato guida e fonte di salvezza per tutti quelli che lo seguono. Nessun male può toccarci, perché nella vicenda di Gesù si fa evidente che chi confida nel Signore non resterà deluso, qualsiasi male gli sia inflitto dagli esseri umani o dalle contingenze della vita.
Nel racconto della passione Giovanni ci presenta Gesù come un re. Un re che possiede un regno che non è di questo mondo, per vedere ed entrare nel quale bisogna avere un’altra logica (chi è dalla verità) da quella del potere e della ricerca di se stessi. I capi dei sacerdoti, pur di uccidere Gesù, dichiarano il tradimento dell’alleanza perché dichiarano di non avere altro re se non Cesare. La violenza e il bisogno di mantenere ciò che possiedono li accecano. Gesù invece si consegna totalmente: a chi lo schiaffeggia perché ha “osato” rispondere chiaramente al sommo sacerdote risponde con ferma mitezza, a Pietro che estrae la spada insegna a rinnegare la violenza, davanti alle guardie si preoccupa per i suoi, perché li lascino andare.
Gesù non deve difendere niente di sé, perché tutto in lui è dono offerto ad altri e proprio per questo non può restare nella morte. Non solo perché il Padre lo resuscita, ma perché la vita che lui offre (emise lo Spirito, lascia andare cioè ciò che lo tiene vivo) continua in quelli che si lasciano servire e nutrire dal dono di lui. Questi, animati dallo Spirito di lui, faranno la sua stessa strada costituendo il regno di quelli che, amando fino alla fine, sconfiggono la morte.
La primizia di questo regno sono quelli sotto la croce: il gruppo di donne, fra cui la madre di Gesù, e il discepolo, che in qualche modo li rappresenta tutti. Gesù nel vederli insieme dà l’ultimo insegnamento, che potremmo interpretare così: “prendete come madre, come guida e riferimento autorevole, colei che con la sua fede ha condotto anche me a prendere la mia strada (quel lontano giorno a Cana di Galilea). Condividete la fede di lei, ciò che lei riesce a vedere, per poter arrivare a un’ora come questa, dove tutto in voi – come accade oggi per me – sarà dono e consegna. Allora tutto sarà compiuto”.
05 - Apr - 2020

Settimana Santa : Lunedì, Martedì, Mercoledì

francesco abbraccia crocfisso mosaico

Settimana Santa: Lunedì, Martedì, Mercoledì

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La liturgia della Parola della settimana santa, cuore del tempo liturgico perché ripresenta il cuore del tempo ovvero i giorni del mistero pasquale, ci introduce a questo meditando in modo particolare i canti del servo del Signore scritti nel libro del profeta Isaia (la prima lettura ci ripresenta un canto ogni giorno) e alcuni brani dei Vangeli in cui Gesù, ormai prossimo alla morte, parla con i suoi di quanto sta per accadere. Sembrano Vangeli dominati dalla presenza degli amici, rivelativi di come Gesù li amasse.

Lunedì troviamo Gesù a cena con gli amici di Betania. In particolare troviamo Maria (la sorella di Marta e Lazzaro) che unge i piedi di Gesù e li asciuga con i capelli. Anche Matteo e Marco raccontano un’unzione da parte di una donna (non identificata) prima della Pasqua, ma è un’unzione sul capo. Simili sono le reazioni dei discepoli (anche se nel brano di Giovanni si parla della reazione del solo Giuda e con disprezzo) che si lamentano dell’olio sprecato e simili sono anche le risposte di Gesù. Ciò che cambia radicalmente è che qui è l’amica che Gesù ama a compiere il gesto e che lo compie sui piedi di lui: con amore, intimità, cura. Ella si permette di onorare il corpo di lui con la confidenza delle sorelle e spreca per questo un olio di grande valore. Il fatto che unga i piedi di Gesù (richiamando l’altro episodio, raccontato da Luca al cap. 7, della donna peccatrice che lava con le lacrime i piedi di lui) è di estremo interesse, perché poco dopo Gesù ripeterà un gesto simile sui piedi dei discepoli: solo Giovanni racconta l’unzione sui piedi da parte dell’amica di Gesù e solo Giovanni racconta la lavanda dei piedi da parte di Gesù ai suoi amici. Sembra di poter dire che Maria di Betania suggerisca a Gesù il gesto con cui lui spiegherà ai suoi ciò che sta per accadere (cioè la lavanda dei piedi). Maria mostra a Gesù col proprio amore che la sua morte non va pensata come un fallimento, ma come uno spreco d’amore, un atto dal quale Dio trarrà la vita per tutti. Gesù è affascinato dal gesto di lei e lo ripete per quelli che ama, su loro si china a lavare i piedi, onorandoli, come Maria aveva fatto con lui: accoglie l’insegnamento di lei secondo il quale ciò che è dato per amore non va perduto, ma porta vita. Gesù sceglie un gesto mite, che però non potrà mai essere messo a tacere (così come è lo stile del servo del Signore della prima lettura) perché il Signore, che crea i cieli, distende la terra e dà respiro a ciò che vive, ha stabilito il suo servo (Gesù) come alleanza del popolo e luce delle nazioni.
Il martedì santo, il secondo canto del servo (prima lettura) ci lascia intravvedere lo scoraggiamento di fronte al fallimento: invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. A questo scoraggiamento Dio risponde rilanciando la propria chiamata: il servo non sarà mandato solo ad Israele, ma anche alle nazioni. Anche il Vangelo di questo giorno, tratto sempre da Giovanni, introduce il dramma del fallimento parlando di tradimento. Parla però anche di altro. Gli amici di Gesù quando vedono il suo turbamento nel parlare di chi lo avrebbe tradito (che dolore è ricevere il male e il disprezzo di chi si ama, di quelli con cui si condivide tutto!) gli si stringono intorno. Giuda se ne va, ma gli altri restano. Resta Pietro che vorrebbe seguire Gesù, che dichiara di essere pronto a dare la vita, anche se si sente dire che rinnegherà più volte entro poche ore. Pietro, sincero e irruento, conoscerà la paura e il fallimento, ma ora si stringe intorno al suo Signore tanto amato. Restano gli altri che si chiedono chi sarà il traditore. E resta Giovanni, il discepolo che Gesù amava, che come l’amica di Gesù si prende la confidenza di toccarlo, gli poggia il capo sul petto con intimità e affetto e lo spinge a confidarsi: Signore, chi è? E Gesù, pronto a condividere tutto, rivela il traditore dandogli un boccone di pane, senza rinnegare cioè la propria amicizia: condivide il pane, come si fa con i compagni.
Il mercoledì santo siamo di nuovo di fronte al racconto del momento della cena in cui si rivela il traditore. Il Vangelo è quello di Matteo questa volta e qui Giuda si sente rispondere “tu l’hai detto” alla domanda: “sono forse io?”. Gesù fissa Giuda, con il pane in mano, e gli dice che sa del tradimento. Questo sguardo poteva fermarlo, forse. Come l’ammonizione fatta a Pietro, forse, poteva impedirli di rinnegare. Gesù si occupa dei suoi fino alla fine. Si cura di Giuda fino all’ultimo momento in cui lui gli resta di fronte e quando lo rivedrà con le guardie lo chiamerà “amico”, per rassicurarlo che da parte sua niente è cambiato, forse per offrigli un perdono che avrebbe potuto salvarlo dal suicidio (forse le parole di Gesù dette a Pietro sono riuscite almeno in questo e così lui non ha disperato dopo il proprio fallimento perché Gesù l’aveva preparato a ciò che sarebbe accaduto e perché non lo aveva cacciato pur sapendo che avrebbe rinnegato). Come può il Signore, in questo momento di prova estrema, chinarsi così su quelli che ama, con particolare riguardo per quelli che sa rinnegheranno e tradiranno? Forse il segreto del suo cuore bellissimo sta in questo terzo canto del servo del Signore (prima lettura): il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso.
Gesù conosce l’amore del Padre. Tutta la sua vita è stata fondata e vissuta sull’amore del Padre. Così affronta la morte, certo di non restare deluso. Soffre, ha paura, ma sa che il Signore l’assiste e va avanti. Questo lo rende capace di amare fino alla fine e di preoccuparsi, prima di morire, di contemplare l’amore della sua amica, rubandole il gesto per spiegare ai suoi il senso di quanto sta accadendo (lavanda dei piedi), e di prendersi cura del fallimento dei suoi parlando a Pietro e a Giuda. Solo l’amore lo domina, così ha vissuto, così muore: per questo spera di risorgere.
03 - Apr - 2020

Domenica delle Palme

domenica delle palme

Domenica delle Palme

(Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Mt 26,14- 27,66)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La settimana santa inizia con questa strana domenica in cui due Vangeli ci introducono agli ultimi giorni della vita del Signore: un Vangelo che parla di esaltazione (l’accoglienza festosa di Gesù a Gerusalemme da parte delle folle) e un Vangelo che parla del tradimento, della umiliazione e della morte di lui.

Sono due Vangeli che funzionano come una lama a doppio taglio che scende giù nel cuore di ciascuno di noi per vedere se esaltiamo Gesù per comodo (per sentirci bravi, per sentirci protetti, per rassicurare la nostra identità culturale, per paura del mondo che cambia, per avere potere su altri o metterci in mostra), oppure se lo esaltiamo, se lo amiamo per ciò che lui ha vissuto e scelto, cioè la condizione di servo e la morte di croce (come ci dice la lettera ai Filippesi) nella certezza dell’amore del Padre che non l’avrebbe lasciato nella morte (realizzando così le parole del profeta Isaia che leggiamo nella prima lettura: il Signore mi ha aperto l’orecchio e non ho opposto resistenza; il Signore mi assiste per questo non resto svergognato).
Lasciamo che questi due Vangeli calino la lama e aprano la nostra interiorità, rivelandoci perché cerchiamo Gesù, perché lo stiamo seguendo, perché vogliamo celebrare questa Pasqua. Siamo arrivati al momento in cui Gesù del tutto ingiustamente viene messo a morte. Matteo ha riportato poco prima la parabola dei vignaioli omicidi rivelandoci l’intenzione del Padre che mandando il Figlio nel mondo dice, nonostante tanti profeti siano già stati uccisi dal popolo: “risparmieranno mio figlio”. Ma la speranza di Dio va delusa e tutti gli eventi congiurano contro Gesù: tradimenti degli amici, ingiustizia dei capi religiosi, vigliaccheria dei potenti, ottusità dei soldati e delle folle. Nessuno fa niente per salvare Gesù, se non la moglie di Pilato, che dopo un sogno manda a dire al marito di non avere niente a che fare con questo giusto. Andiamo anche noi in mezzo alla folla e immedesimiamoci nei discepoli, perché anche noi siamo dei suoi. Sembra che tutto ciò in cui abbiamo sperato finisca. Gesù ora non compie miracoli e non insegna più nulla, ma lo vediamo mite pregare il Padre, perché se questo calice non può passare sia fatta la volontà di lui, cioè: se proprio deve passare per la croce, che Dio faccia ciò che vuole, ovvero lo riporti alla vita. Forse ci viene da dormire (per il disinteresse o la tristezza) come ai tre discepoli: che Signore è questo che non scansa la morte e che subisce l’ingiustizia fino a morirne? Questo è il momento in cui lui vuole essere scelto per quello che è: per il suo essere rivolto a Dio, come il Figlio amato, e niente altro. Qui rivela il mistero di Dio, vita d’amore condivisa, e il mistero dell’uomo, che può vivere solo in Dio.
Riviviamo questi eventi: chi siamo? Forse Giuda, pronto a tradire per un vantaggio concreto e pronto ad accorgersi di aver sbagliato, ma troppo tardi: ormai si può solo ripagare con la vita il sangue sparso, per cui si impicca. Oppure Pietro, facili a parlare di fedeltà e di sequela, quanto a rinnegare spergiurando e imprecando (per finire in un piano amaro) se essere riconosciuti di quelli di Gesù (o vivere la sua logica) ci dovesse essere di minaccia. Oppure siamo Pilato e sappiamo ciò che è giusto, ma ci approfittiamo di regole e ruoli che ci permettono di salvare la faccia mentre compiamo l’ingiustizia (continuando a pensare di aver fatto il nostro dovere). Oppure forse siamo i soldati, che infieriscono sul corpo sofferente e impotente di Gesù, come accade quando la nostra ricchezza impoverisce altri e distrugge l’ambiente, come quando pensiamo che i nostri morti valgano di più di quelli che la povertà e le guerre causano. Oppure, possiamo essere come la madre dei figli di Zebedeo, che non dorme né fugge come i propri figli, ma sta ferma sotto la croce insieme alle altre discepole. Lei, che Matteo ci aveva presentato al capitolo 20 mentre chiedeva la gloria per i propri figli, al seguito di Gesù eppure attratta dall’esaltazione e dai vantaggi (come le folle che acclamano Gesù a Gerusalemme), ora è davanti alla croce: non rinnega, non tradisce, non fugge. Beve fino in fondo il calice di Gesù, sperando forse come lui o per lui, che grida dalla croce il salmo dell’abbandonato da Dio, nella potenza d’amore del Padre che non lo abbandonerà nella morte. Lei sa che Dio lo ama e forse lo sguardo di lei, da lontano, mantiene anche Gesù nella speranza. La stessa speranza folle, forse, di Maria di Magdala e dell’altra Maria che si siedono davanti al sepolcro ormai chiuso, sfinite, incredule, oppure in attesa nemmeno loro sanno di cosa.
Siamo arrivati sotto la croce: che cosa cerchiamo da quest’uomo morente e che cosa riusciamo a vedere?
27 - Mar - 2020

V Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

V Domenica di Quaresima (A)

(Ez 37,12-14   Sal 129   Rm 8,8-11   Gv 11,1-45)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il cammino quaresimale ci ha condotto in molti luoghi: il deserto, nel quale scegliere chi servire quando tutto il resto viene tolto; il monte della trasfigurazione, rifugio di un momento per cogliere la gloria che risplende nella vita e nella persona di Gesù; il pozzo, dove scoprire che Gesù ha sete insieme a noi e ci addita un’acqua capace di dissetarci là dove l’arsura della vita non ci dà tregua; gli occhi aperti di un cieco nato, per entrare in una luce capace di farci vedere ciò che altrimenti resta nel buio.

Ora Gesù, turbato e piangente, ci porta davanti al sepolcro del suo amico, di colui che amava molto e che è morto, senza che lui affrettasse il viaggio per raggiungerlo e senza aver fatto nulla per guarirlo a distanza come altre volte aveva fatto. In questo brano Giovanni riprende molti spunti seminati nel suo Vangelo e in particolare nel racconto del cieco nato, letto domenica scorsa, ma soprattutto – questo è l’ultimo segno di Gesù per Giovanni – allude e prepara il segno per eccellenza posto da Gesù: la sua morte e la sua resurrezione. Gesù dice di sé di essere la resurrezione e la vita, promette così a tutti la rinascita: infatti la resurrezione rivela che la vita non può essere distrutta, perché Dio la rigenera continuamente. Dio apre continuamente i nostri sepolcri (come racconta la bellissima lettura tratta da Ezechiele) per la potenza dello Spirito che abita in noi (così Paolo ai Romani) e che dà vita ai nostri corpi mortali: nel battesimo, rigenerandoci come figli di Dio, ma anche in ogni morte o lutto che dobbiamo attraversare, compresa la nostra morte e compresa questa pandemia. Dio rinnova infallibilmente la vita.

Resta vero quanto visto domenica scorsa e ora ripetuto da Gesù a Marta: se credi, vedrai. La fede ci permette di cogliere la vita che trionfa e si rinnova continuamente distruggendo ogni morte, altrimenti lo sguardo si vela e gli occhi si chiudono per non vedere ciò che nessuno di noi può sopportare. I credenti devono essere di fianco agli altri, come chi ha la vista più acuta sta di fianco a chi guarda a terra con attenzione per non cadere: loro ci dicono dove mettere i piedi, noi aguzziamo lo sguardo perché loro sappiano dove stiamo andando.
La fede però non toglie la fatica né il dolore né il pianto: Gesù stesso di fronte al suo amico è turbato, sofferente e piange. La potenza di vita di Dio è reale, ma arriva dopo un travaglio altrettanto reale. La prova è dura, ma, come già aveva detto per il cieco puntualizzando che questi non era così per la punizione di una colpa, Gesù ci svela che “questa malattia non è per la morte” ma per la gloria di Dio, perché tramite essa il Figlio venga riconosciuto. Certo Gesù parlava della malattia di Lazzaro e della propria manifestazione nel segno che stava per compiere risuscitando il suo amico, ma per noi oggi, forse, potrebbe indicare che anche questa pandemia non è per la morte, ma perché scopriamo come vera, importante, significativa, la logica del Vangelo: essere una sola famiglia umana, scoprirsi fratelli e sorelle di tutti, fermare le guerre, farsi prossimi, condividere, prendersi cura, costruire un mondo più giusto, promuovere uno sviluppo che non distrugga, essere disposti a dare noi stessi perché altri vivano certi che Dio non ci abbandona alla morte.
Non è facile avere questi occhi. Marta era pronta e Gesù la guida ad un cammino di fede, che la vede fare la più solenne proclamazione di fede dell’intero quarto Vangelo: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Maria non ce la faceva, soffriva troppo, riesce solo a piangere. E Gesù, con lei, piange: si fa compagno anche di chi non ce la fa ad alzare lo sguardo. Poi si porta addolorato davanti alla tomba dell’amico: non ha fermato la malattia e posticipato la morte alla vecchiaia (non è questa la sete ultima da placare), ma guarda a questo dolore come un’occasione per sperimentare e mostrare l’amore vivificante del Padre.
“So che tu mi ascolti sempre…”. Forse Gesù sta di fronte all’amico morto, ascoltando il proprio dolore, per assaporare che non è possibile lasciare nella morte quelli che amiamo. Ciascuno di noi lo sperimenta: ci è insopportabile la morte di chi amiamo. Gesù vuole sentirlo, vuole saperlo, perché lui sta per morire e ha bisogno di sapere, forse, che il Padre non sopporterà di lasciarlo nel sepolcro e così lo farà rivivere. Farà della sua morte un modo per mostrare la sua potenza di vita, trasformando il male fatto dagli uomini in un bene incommensurabile. “So che tu mi ascolti sempre” e col cuore consolato chiama il suo amico fuori dal sepolcro. La morte ha i giorni contati.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

24 - Mar - 2020

Annunciazione del Signore

Annunciazione

Piccolo Eremo delle Querce

Annunciazione del Signore

(Is 7,10-14; 8,10   Sal 39   Eb 10,4-10   Lc 1,26-38)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il 25 marzo, nove mesi prima del Natale, la chiesa celebra l’annunciazione del Signore a Maria, ovvero il momento del concepimento di lui nel grembo di Maria. Impossibile soffermarsi adeguatamente sul mistero dell’Incarnazione in queste poche righe, quindi preferiamo soffermarci su Maria che Luca tratteggia in questo brano non come la madre, ma come la discepola. L’evangelista sembra mettere in scena qui la risposta che Gesù adulto avrebbe dato alla donna che dalla folla dichiarava beata colei che l’aveva portato in grembo e allattato: beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano (Lc 11,28). E per fare questo ci presenta Maria come la discepola che accoglie la parola. Impariamo dunque da lei come essere discepoli del Signore.

Luca ci dice anzitutto che Maria una era vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide. Maria cioè era in quella fase del matrimonio ebraico per cui di diritto si era sposati, ma ancora non si conviveva (passava circa un anno fra i due momenti), per cui era ancora vergine, ma non era più sotto l’autorità paterna. Questa notazione è molto interessante, perché la verginità per una donna sposata ebrea del primo secolo non è affatto un vanto: una sposa ebrea deve generare, quindi la verginità deve essere una condizione da cui essere liberate quanto prima. La verginità non indica nemmeno una maggiore santità o integrità della persona perché avere rapporti sessuali non diminuisce in nessun modo la capacità di amare, anzi casomai è capace di accrescerla. La verginità quindi deve avere un altro significato e in questo caso, da come Maria si comporta decidendo di se stessa senza chiedere niente a nessuno, assume il valore della libertà e dell’indipendenza. Maria si comporta da donna adulta e libera, per questo può stare davanti a Dio che le chiede un’alleanza e rispondere di sì, desiderando (avvenga! in greco è espresso con il verbo ottativo che indica appunto il desiderio) che si compia ciò che le viene detto, aderendo cioè alla parola con tutta se stessa, perché era padrona di tutta se stessa. La verginità assume questo significato perché in quel periodo il marito prendeva possesso della moglie tramite il rapporto sessuale, quindi essere vergini significava non essere possedute. Oggi non è più così, ovviamente, ma questa immagine per noi deve significare la necessità di custodirsi liberi, non posseduti né asserviti ad alcun padrone, per poter accogliere la parola che Dio dice.
La verginità è anche l’obiezione che Maria fa all’angelo di fronte all’annuncio: in tutte le vocazioni importanti chi riceve l’annuncio obbietta a Dio la sua povertà, ciò per cui non è adatto al compito che gli viene chiesto. La verginità non serve per avere un bambino, è come la sterilità, bisogna venirne liberati: per questo è la verginità il contenuto dell’obiezione di Maria. E così questa verginità che Dio fa fiorire, come il deserto che diventa un giardino (perché un grembo verginale è incapace di dare vita), diventa il segno delle povertà del popolo e delle nostre che non sono ostacolo per le meraviglie di Dio, anzi conviene averle ben chiare e metterle davanti a Dio così come sono: riconoscere la nostra sterilità apre allo stupore e alla gioia per ciò che Dio sa operare proprio in essa.
Infine Maria si dichiara serva, cioè consegnata all’opera che Dio vuole compiere, per servire questa opera stravolgerà il suo matrimonio e la sua vita, seguirà il Figlio anche là dove non riuscirà a comprendere ciò che accade, arriverà fino alla croce e al cenacolo nel giorno in cui la chiesa nasce dalla potenza dello Spirito. Come lei, privi di padroni e quindi pienamente capaci di disporre di noi stessi e consapevoli della povertà che ci invade, possiamo accogliere la parola di vita che Dio pronuncia e consegnarci ad essa, così nel nostro vivere il Signore prenderà carne (come è stato per Maria e non certo solo per la gravidanza e il parto). Il Signore allora sarà presente ancora oggi nel mondo affaticato per un nuovo inizio, per qualcosa di mai visto, come il bimbo primogenito di una vergine, un inizio assoluto di libertà, povertà e dono di sé.
21 - Mar - 2020

IV Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

IV Domenica di Quaresima (A)

(1Sam 16,1.4.6-7.10-13   Sal 22   Ef 5,8-14   Gv 9,1-41)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’anno A propone durante la quaresima le grandi catechesi battesimali del Vangelo di Giovanni, perché la quaresima è il tempo in cui i catecumeni si preparavano (e si preparano) a rinascere nel battesimo, celebrato a Pasqua. In questo momento, in cui non possiamo celebrare, la chiesa intera torna ad essere catecumena, ovvero celebra la liturgia della Parola, prega e poi si ferma, impossibilitata a celebrare il rito eucaristico (i catecumeni non possono assistere all’eucaristia né parteciparvi, quindi escono prima della liturgia eucaristica). Prendiamo allora questo tempo come un’occasione: riscopriamo il nostro battesimo, la nostra appartenenza a Dio, lasciamo che la sua Parola ci guidi e ci trasformi. Lasciamoci aprire gli occhi sul mondo, sulla chiesa e su di noi.

Questa domenica, infatti, abbiamo di fronte la vicenda del cieco nato cui Gesù apre gli occhi con un gesto che ricorda quello della creazione: impasta la terra con la propria saliva e poi la mette sugli occhi del cieco, che deve andare a lavarsi (deve fare anche lui qualcosa dunque) e poi cercare di capire (proprio grazie a coloro che lo interrogano per gettare discredito su Gesù, su quanto accaduto e anche su di lui) che cosa gli è successo e arrivare alla fine del suo cammino a professare la sua fede: “Credo Signore!”.
Il nostro battesimo (la nostra fede) ha le stesse caratteristiche di questa illuminazione: ci accade come un dono, chiede domande, viene messa alla prova, stravolge la vita, ci rende autonomi (niente più elemosina per il cieco) e adulti (risponde da solo non tramite i genitori) per condurci finalmente a vedere e quindi a riconoscere Gesù come Signore.
Nella lettera agli Efesini ci viene indicato chiaramente il passaggio fatto: eravamo tenebra e ora siamo figli della luce. Essere figli della luce, però, porta con sé la necessità di compiere opere degne dei figli della luce e non c’è niente di peggio, sembrerebbe, che dire di vederci mentre si è ciechi, perché non si è disposti a farsi aiutare né a farsi aprire gli occhi e così si brancola nel buio sbattendo ovunque. Allora si finisce per non riconoscere le meraviglie di Dio e nemmeno colui che le compie (come accade ai farisei) e questo, magari, proprio mentre si pensa di servire di Dio, cioè di essere nella luce. Nessuno è al sicuro da questa erronea convinzione di vedere, perché spesso ci si ferma alla superficie, a ciò che ci fa comodo vedere, perché ci aggrada di più o ci inquieta di meno.
Il Signore però ci apre gli occhi in un modo tale da guardare più a fondo, da non fermarci all’apparenza (come rischia di fare Samuele quando è mandato ai figli di Iesse per ungere il nuovo re), ma da andare al cuore, come Dio, delle persone e delle situazioni, guardarle fino in fondo e cogliere alla luce di lui ciò che altrimenti non si vede. Per esempio, guardando il cieco nato o ogni male e sofferenza che colpisce gli uomini potremmo domandarci: chi ha commesso un male perché capiti questo? “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”.  Invece la fede investe il male di una nuova luce: “né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Il male, la sofferenza, anche la morte, agli occhi dei credenti esposti alla luce dell’amore di Dio diventano il luogo in cui Dio opera meraviglie, salva, rinnova, fa risorgere. Dio non vuole il male, né lo manda, né lo permette: lo combatte, piuttosto, e lo vince.
Nessuno si accorge della bellezza del mondo come uno che vede per la prima volta dopo anni di cecità. La fede ci dona la stessa possibilità: spalancare gli occhi su ciò che siamo, sul mondo così com’è, e contemplare la bellezza vivificante di Dio che caccia le tenebre creando continuamente la vita in noi e intorno a noi, sempre e comunque: epidemie e morte compresa. Solo sotto questa luce la morte in croce di Gesù si trasforma nell’esultanza della resurrezione.
Nella quaresima di quest’anno, in cui veniamo privati della vita ordinaria, delle relazioni, della sicurezza economica, della comunità ecclesiale e della celebrazione eucaristica, in cui tanti perdono le persone che amano, in questa quaresima in cui sentiamo la minaccia per la salute e per il lavoro, abbiamo l’occasione – se lasciamo che il Signore Gesù ci apra gli occhi – di vedere le opere di Dio, di scorgere lui nello scorrere del tempo, di andare al cuore di noi stessi e di tutto ciò che facciamo e scegliamo, per portare tutto alla luce e, finalmente, portare frutto in ogni bontà, giustizia e verità.

Siamo in una valle oscura (come la vita appare fin troppo spesso), ma non temiamo alcun male e non manchiamo di nulla, perché il Signore è con noi. La fede ci apre gli occhi e così ci fa sperare e rallegrare di fronte ad ogni avversità e se qualcuno ci dovesse chiedere perché speriamo in un uomo vissuto duemila anni fa e di fronte ad una chiesa a volte così affaticata e deludente (come noi siamo), dovremo solo rispondere: una cosa sola io so, prima ero cieco, ora ci vedo. Vedo che Dio apre gli occhi ai ciechi, preludio della vittoria pasquale sulla morte.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

13 - Mar - 2020

III Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

III Domenica di Quaresima (A)

(Es 17,3-7   Sal 94   Rm 5,1-2.5-8   Gv 4,5-42)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Non potendo celebrare l’eucaristia, forse in questa domenica possiamo fare esperienza di quanto la Parola di Dio ci possa nutrire: in famiglia, nelle comunità religiose o soli (se non si vive con nessuno): possiamo leggere ad alta voce questa parola di oggi, lasciare spazio al silenzio, alla meditazione e poi alla preghiera che segue sempre l’ascolto, magari cantare.

Le letture previste per questa domenica sono ricchissime: il tema dell’acqua (che nella seconda lettura è si ritrova nello Spirito, spesso simboleggiato dall’acqua) le attraversa, inoltre già il brano evangelico chiederebbe da solo mille puntualizzazioni diverse. Credo però sia inevitabile che queste letture suonino forte nel silenzio di questi giorni surreali e spaventati, in cui il mondo intero e il nostro paese in particolare appaiono minacciati da ciò che ha rivelato in un battibaleno tutta la fragilità della nostra vita e dei nostri sistemi sociali ed economici. Ascoltiamo questa parola a partire da qui allora.
La lettera ai Romani, bellissima, ci dichiara una speranza che non delude, perché già facciamo esperienza dell’amore di Dio che fa vivere, dello Spirito cioè che è stato riversato nei nostri cuori (come l’acqua che ricolma un recipiente). Non dobbiamo guadagnarci questo amore, c’è sempre stato, anche quando eravamo (e siamo!) peccatori, anche quando non conoscevamo (o quando non ci interessiamo) a questo amore. La fede, dice l’apostolo, ci fa stare saldi nella speranza della gloria di Dio. Eppure, forse, in questi giorni non ci sentiamo troppo saldi, somigliamo più ad Israele, così come ce lo racconta il libro dell’Esodo: abbiamo fatto le nostre fatiche, ci siamo messi sulla strada della vita e della fede e, alla fine dei conti, ci troviamo davanti ad un deserto senz’acqua. Ci lamentiamo e mettiamo alla prova Dio (lo tentiamo): sei in mezzo a noi, sì o no? Questo che stiamo affrontando, l’ennesima prova nel cammino, e stavolta così dura e minacciosa per tutti, è qualcosa che ci fa sentire Dio lontano? Dove è il suo amore e le sue opere?
Facilmente succede che oscilliamo fra la speranza che Dio sempre ci dona e questa mormorazione contro di lui, davanti alla quale però lui non sfugge, ma si ferma, come Gesù al pozzo. Siamo al pozzo anche noi, sotto la calura, cerchiamo un po’ d’acqua, come la donna samaritana che Giovanni mette di fronte a Gesù in questa pagina celeberrima. E con questa sete, con questa paura, con questo silenzio, sentiamo Gesù chiedere a noi: dammi da bere.
Non è il Dio che vuole preghiere e sacrifici per prendersi cura di noi, tutto ciò che esiste è spinto dal suo amore per condurre tutti alla pienezza della vita, non ha bisogno di essere convinto a fare il nostro bene: se preghiamo, preghiamo per ascoltarlo, per mettere davanti a lui il nostro cuore e per stringerci agli altri, non certo perché altrimenti lui non si cura di noi. Questo Signore non è il capriccioso dominatore degli eventi da tenere buono, è quello che ha sete insieme a noi: dammi da bere, così Gesù alla donna. Viene da scoraggiarsi: tu chiedi da bere a me? Sembra una presa in giro: abbiamo tutto questo bisogno e Dio chiede a noi?
Ma se noi conoscessimo il dono di lui e chi è che ci chiede da bere, avremmo già chiesto. Avremmo chiesto lo Spirito riversato nei cuori per sperare, per sostenere i nostri cari, per crescere nella responsabilità, per lavorare, per inventarci mille strategie per alleggerire chi fatica, ognuno a suo modo, per fronteggiare la sofferenza. Avremmo chiesto lo Spirito che già muove i medici e i sanitari generosi e impagabili, che asciuga le lacrime e sostiene il dolore di chi è nel lutto, che promette resurrezione a chi la perde la vita e che spinge i cuori di molti a pensare come fare del bene, come unirci, come amarci, come far vivere tutti. Avremmo chiesto anche noi questa acqua e con questa acqua avremmo dissetato Gesù presente in quelli che amiamo e in quelli che hanno paura o soffrono e che non possiamo toccare, forse, ma raggiungere sì.
Ma noi non rispondiamo così. Noi facciamo questioni: chi sei tu? Perché un Dio che ci vuole liberi e adulti, coinvolti, generosi, protagonisti, è molto scomodo. Meglio il Dio tappabuchi che ci può lasciare nella nostra irresponsabilità, che non ci chiede di domandarci come vivere al meglio queste tenebre e come migliorare il mondo dopo, come combattere con la stessa forza con cui proviamo a contrastare questa malattia ogni ingiustizia e ogni male. Ma Gesù ha pazienza e vuole insegnarci, come alla donna, a non porre attenzione solo alla sete di questo momento, ma a quella arsura profonda che tormenta il nostro cuore e di cui troppo spesso non ci accorgiamo. Esiste un’acqua che fa passare ogni sete.
Allora dammi quest’acqua: dice la donna (e noi con lei). Ma per averla bisogna andare a fondo, voler mettere la vita intera davanti a Dio (va a chiamare tuo marito! Non ho marito…), perché quest’acqua è Dio presente nel cuore, riversato in noi. E qui poco vale questionare di massimi sistemi, verità morali, questioni sociali o altro: è venuto il momento, faccia a faccia con Dio in questa quaresima così dura (le spighe già biondeggiano: è ora di raccogliere i frutti), per cominciare ad adorare Dio in Spirito e verità, non nelle parole e nei gesti rituali e nemmeno nella correttezza formale o morale, ma con una vita mossa solo dall’amore di lui, con un cuore riempito dallo Spirito e così capace di testimoniare che questo uomo mite che chiede da bere è il messia, una vita capace di far vedere a tutti che Dio è presente e che non c’è bisogno di metterlo alla prova.
Nostro cibo, come per Gesù, deve essere fare la volontà del Padre. Abbiamo tempo e silenzio in questi giorni: domandiamoci come cambiare noi stessi, la chiesa, la società e il mondo perché la volontà di Dio accada e tutti possano vivere. Siamo in quaresima, in questa quaresima così dura, magari è il tempo favorevole per convertici davvero. Il Signore è in mezzo a noi: l’acqua non mancherà.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani