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15 - Apr - 2022

Domenica di Pasqua Risurrezione del Signore anno C

Pasqua 2022

Domenica di Pasqua
Risurrezione del Signore

Anno C

(At 10,34.37-43   Sal 117   Col 3,1-4   Gv 20,1-9)
Domenica 17 Aprile 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Se tutti abbiamo esperienza di sofferenza, violenza e morte (subite e/o inflitte), più difficile è avere esperienza di resurrezione. Anche il senso comune ci dice che unica cosa certa è la morte, ci insegna anche che finché c’è vita c’è speranza, per dire che con la morte anche questa cessa. Come si possono biasimare quindi i discepoli che non credono alle parole delle discepole che annunciano la resurrezione? E come possiamo noi invece credere all’annuncio della resurrezione? All’annuncio che ci parla di una luce che rischiara ogni buio (così comincia la veglia pasquale), di una parola che dà senso ad ogni vicenda (non è questo il motivo di tanta sovrabbondante parola che si legge nella veglia?), di un’acqua che fa nascere di nuovo (si arriva così alla liturgia battesimale) e di un pane e un vino capaci di ridare forza e gioia a chi non ne ha più e sta cedendo alla morte? Come possiamo credere?

Di nuovo Luca ci indica la via annotando che le discepole che ascoltano lo stesso annuncio dagli uomini in vesti sfolgoranti non credono per la straordinarietà dell’apparizione: al contrario questa poteva convincerle di aver avuto un’allucinazione o di essere state ingannate da qualcuno. Esse credono invece perché si ricordarono delle parole di Gesù. Ecco allora indicata la via anche perché anche noi possiamo credere nella resurrezione, nella vittoria della vita su ogni morte e nello scoperchiamento di ogni sepolcro: conoscere le parole di Gesù, averle fatte proprie e vissute, richiamarle al cuore con facilità, meditarle e condividerle. Solo la familiarità con il Maestro permette alle discepole di riconoscere la resurrezione come qualcosa cui lui le aveva preparate. Solo la conoscenza della sua logica e dell’amore del Padre, permette loro di vedere in un sepolcro vuoto la prova certa della sconfitta della morte. Solo l’amore per il Signore, permette loro di capire che davvero è risorto, perché questo è ciò che tutta la sua vita annunciava. Non aveva vissuto allontanando la morte e il male in quelli che incontrava? Non aveva insegnato a cacciare la violenza, l’ingiustizia e la divisione? Non aveva acceso luci ovunque? Non aveva fatto ricominciare a vivere innumerevoli volte in innumerevoli modi? Era vissuto rimettendo al mondo chiunque incontrasse, insegnando che questo è ciò di cui è capace l’amore del Padre. E ora lui era stato rimesso al mondo dal Padre.

Basta ricordare ciò che ha vissuto e, se lo si è compreso, la sua resurrezione ci sembrerà persino ovvia.

Se la nostra vita cristiana un po’ si nutre di Vangelo, allora, se ne rivive le parole e ne riscopre gli eventi in ciò che ci accade ogni giorno, se cioè siamo intimi del Signore e cerchiamo di avere il suo stile e di sentire come lui, allora noi potremo credere in questa notte non solo alla sua resurrezione, ma a quella di tutti. Alla resurrezione dal peccato e dall’ingiustizia. Alla resurrezione dalla guerra e dalla violenza. Alla resurrezione dalla emarginazione e dalla indifferenza. Noi possiamo credere, solo perché abbiamo visto che vivere il Vangelo fa rinascere. E così possiamo aspettare fuori da ogni sepolcro e correre subito a portare la buona notizia appena la vita di Dio rimette al mondo quelli che sembravano perduti per sempre. Noi sapremo spiegare come la vita trionfa, perché siamo stati col Maestro e ricordiamo le sue parole e così là dove il buio e il deserto sembrano prevalere, noi sapremo trovare le tracce delle luce e dell’acqua e indicarle a tutti, perché proprio per questo momento siamo stati istruiti così a lungo.

09 - Apr - 2022

Domenica delle Palme anno C

Palme

Domenica delle Palme

Anno C

(Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Lc 22,14-23,56)
Domenica 10 Aprile 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La domenica delle Palme ci introduce alle settimana più importante dell’anno, nella quale celebriamo il mistero centrale della vita di Cristo e della nostra: il venerdì santo (che comincia nella sera del giovedì con il memoriale dell’ultima cena e prosegue nelle lunghe ore della passione), il sabato santo e la domenica di Pasqua sono i giorni centrali non solo dell’anno liturgico ma della vita di ogni credente. Qui sta tutto ciò che può salvarci e darci vita, qui sta il senso di ogni speranza e di ogni bontà, qui Dio stesso è visibile e vicino, proprio là dove temiamo di andare anche se sappiamo che vi andremo ineluttabilmente.

Il Vangelo che viene proclamato prima della celebrazione eucaristica racconta l’acclamazione della folla. Luca specifica che è la folla dei discepoli, non facendoci immaginare una folla esaltata e manipolata sul momento, ma una moltitudine di persone coinvolte nell’ascolto e nella sequela del maestro. Questi acclamano al Signore mite che cavalca l’asina, all’uomo pronto a sperare nella vita anche mentre viene gettato nella morte. Mettiamo noi stessi fra quelli che gridano entusiasti per quello che Gesù sta per vivere, non perché non sia un abominio fare del male ad un uomo (fra l’altro buono e innocente), ma perché il Signore attraversa ogni male possibile mostrandoci come questo possa essere ridotto a nulla. Esaltiamo dunque la sua sapienza, il suo coraggio, la sua speranza e facciamole nostre mentre contempliamo il racconto della passione, entrando dentro le pieghe dei suoi sentimenti e del suo stile non per compatirlo o vivere una sentimentale partecipazione, ma per intuire come lo Spirito lo abbia condotto alla vita proprio mentre la morte lo stringeva da ogni parte. E fare anche noi così.

Anzitutto lo Spirito riempie Gesù di desiderio (ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi) perché non c’è amore senza passione e senza desiderio e il Signore ama. Poi lo riempie di preoccupazione per i suoi ai quali lascia il gesto del pane spezzato perché comprendano ciò che sta per accadere, che cerca di ammonire sul tradimento e sul rinnegamento e che istruisce per l’ultima volta sulla logica fraterna: non è possibile seguire il Vangelo facendosi più grandi di qualcuno, nemmeno se ci si fa grandi benefattori; potere e gerarchia non sopportano l’amore e la fraternità. E poi “basta”. Lo Spirito insegna a Gesù il suo limite: non può dire più niente per aiutare i suoi, ha esaurito parole e gesti. Tocca solo entrare nella lotta con l’ingiustizia, l’odio e il male che gli vengono rovesciati addosso. E così prega, soffrendo, che sia fatta la volontà del Padre. Qui lo Spirito insegna a Gesù la speranza: se lui potesse eviterebbe la sofferenza che lo aspetta, ma anche se non può evitarla, può ancora sperare che in essa si compia la volontà del Padre e così la morte si trasformi in vita. La volontà di morte è quella degli uomini (Pilato lo consegnò al “loro” volere), Dio invece vuole sempre la vita. Questa speranza rende il volto di Gesù duro (così come ci racconta la prima lettura) e gli permette di attraversare persino la croce (seconda lettura).

Giudicato per tre volte, accusato, visto come un fenomeno da baraccone da Erode, sbeffeggiato, trovato innocente eppure condannato: tutti questi passaggi mostrano quante volte chi ha ucciso Gesù aveva avuto l’occasione di tornare indietro e non l’ha fatto. Spesso chi fa il male non vuole mettersi in discussione, ma giustificarsi e così persevera al punto da compiere atti sempre più gravi e irreparabili, ma anche così fosse sempre Dio dona sempre l’occasione del pentimento o di riscattarsi compiendo il bene possibile, fosse anche solo una parola di giustizia e di comprensione, mentre si viene giustamente crocifissi per il male fatto. Il malfattore trova una giustizia che i capi religiosi e i governanti non hanno trovato, tutti presi dal loro ruolo e dal salvare il proprio potere, ma – aveva detto Gesù – “tra voi non sia così”: se non avremo bisogno di difendere noi stessi, ruoli, poteri, immagine, saremo liberi, anche avessimo sbagliato quanto il malfattore, di trovare la via del paradiso.

E dopo che lo Spirito ha compiuto la sua opera, insegnando il perdono per chi lo uccide e la promessa di vita per chi lo consola, Gesù consegna lo Spirito al Padre: consegna l’amore che lo fa vivere e quindi muore. Tutto si sconvolge: la natura, il tempio, la folla. Il mondo perde il suo senso, smarrito precipita nelle tenebre. Ma il grido di Gesù è stato udito: si può aspettare la risposta del Padre. Per questo le discepole guardano dove è stato sepolto. Torneranno. La storia non è ancora finita.

01 - Apr - 2022

V Domenica di Quaresima anno C

Quaresima

V Domenica di Quaresima

Anno C

(Is 43,16-21   Sal 125   Fil 3,8-14   Gv 8,1-11)
Domenica 3 Aprile 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nel meditare la parabola del Padre che perdona il figlio tornato da dove si era perduto, dicevamo che, per trovare il perdono che Dio offre, occorre abbandonare il peccato, riconoscendolo e decidendo di non volerlo più. La conversione si gioca proprio sul lasciare andare ciò che si riconosce di aver servito erroneamente, senza motivo, senza trovare vita. Le letture di questa domenica riprendono questo tema, dandoci la possibilità di capire che non solo si può ricominciare dopo il peccato, ma che si può essere anche rinnovati nelle opportunità di vita, nelle relazioni, persino nello sguardo che abbiamo sul mondo e su noi stessi. Aprirsi al nuovo, alla vita che irrompe quando nessuno se l’aspetta più: questo è l’ultimo passo prima di celebrare la Pasqua. Lasciato andare tutto in cenere, il nostro cuore non si attacca a ciò che non valeva, ma attende altro.

“Ecco faccio una cosa nuova” così ci annuncia il profeta Isaia: “ proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”. Se non ce ne accorgiamo forse è perché continuiamo a guardare indietro e così la strada che si apre davanti a noi, fendendo il deserto, ci sfugge e i fiumi di acqua che lo irrigano non ci tolgono la sete. Paolo, nel brano della lettera ai Filippesi che costituisce la seconda lettura, ci aiuta a capire invece quali sono i sentimenti di chi si apre alla novità di Dio: qualsiasi cosa rispetto a lui appare una perdita, perché quando si è totalmente conquistati da qualcuno (come ogni innamorato sa) non c’è spazio per rimpiangere altri. E così pur sapendo di essere ancora lontano dalla meta, si corre verso ciò che sta di fronte, dimentichi di ciò che è alle spalle. Non c’è ostacolo o miseria, non c’è cosa vecchia che possa trattenerci nel cammino, smaniosi di vivere la bellezza del Vangelo fino in fondo.

E così quando Gesù incontra la donna adultera di cui ci racconta Giovanni fa una cosa nuova, apre una strada nel deserto. Avvinto dall’amore e dalla vita del Padre, non guarda il passato di questa sorella, ma guarda in avanti (non peccare più) e la riconsegna alla vita (va’). Immaginiamo la scena: quelli che si pensano giusti e forse, se il criterio è rispettare alcune regole, lo sono davvero, vogliono accusare Gesù e per questo gli portano una donna colta in flagrante adulterio. L’accusa a lei è funzionale ad accusare lui: entrambi sono sul banco degli imputati. Lei è un capro espiatorio fin troppo ovvio, su di lei si scatena tutto il ribrezzo per l’ordine sociale e familiare turbato, mentre nessuno si domanda dove sia l’uomo che era con lei né quali responsabilità abbia il marito in tutto questo. Gesù invece è un rabbì, viene considerato un profeta, per accusarlo ci vuole di più che un espediente qualsiasi. Lui però non si preoccupa di altri che della donna: non è preoccupato per sé, non risponde alle loro domande, non si lascia provocare, non cerca di avere ragione. Guarda lei e sa, in un attimo solo, che se lei ha peccato non è la sola: tutto il sistema sociale e religioso che le sta intorno, ciascuno di loro, ha peccato e forse ha contribuito anche a far peccare lei, eppure nessuno si prende le sue responsabilità, mentre riversano rabbia e odio su di lei. “Chi di voi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei”. A queste parole di Gesù, tutti se ne vanno e così, proprio mentre la donna resta sola, si fa evidente che non è l’unica a peccare, ma invece è l’unica rimasta e così può vedere qualcosa di molto più prezioso di quanto lascia, qualcosa che la può conquistare al punto da dimenticare tutto il resto.

Fissa gli occhi su Gesù, resta lì davanti a sentirsi dire che nessuno la condanna e che d’ora in poi, qualunque siano le sue possibilità di vita, può non peccare più. Gesù non la lega al suo peccato, vedendo altro e sperando altro. Lei passa così dalla morte (paventata anche da chi l’accusava: Mosè ci ha detto di lapidare donne come questa) alla vita, quella possibile ora. Gesù ha preso le parti di lei, facendo giustizia di chi voleva sfogare su di lei tutte le storture del mondo, e così farà nella Pasqua, prendendo le parti di quelli che soli vengono condannati, mentre il peccato è di tutti. E così, in questa ultima domenica prima della settimana santa, ci accorgiamo che Dio non è imparziale né equidistante, egli ha il cuore vicino alle vittime, a chi subisce ingiustizia, ai poveri, ai piccoli. Dio si schiera per quelli che gli altri (i benpensanti preoccupati della correttezza) scartano.

Possiamo pensare allora che la donna sia stata conquistata da questo amore, capace sempre di rigenerare alla novità e alla vita. Mi piace pensare che non se ne sia andata subito, ma che si sia seduta ancora un po’ là con questo Maestro che era stato capace di guardarla così, come nessuno mai prima e forse nessuno mai dopo.

25 - Mar - 2022

IV Domenicadi Quaresima anno C

Quaresima

IV Domenica di Quaresima

Anno C

(Gs 5,9-12   Sal 33   2Cor 5,17-21   Lc 15,1-3.11-32)
Domenica 27 Marzo 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Perdonare significa dare a qualcuno una nuova possibilità di vita. Quando si perdona infatti si scioglie l’altro dal male che ha fatto. Non è possibile farlo se chi ha fatto il male non si pente, perché se non riconosce l’errore e non ne soffre, la persona rimane legata al peccato che ha commesso, non rinnegandolo. In questa condizione a poco serve il perdono offerto dell’altro e persino quello di Dio: ciò che i fratelli e le sorelle dimenticano, così come Dio dimentica, viene infatti tenuto a mente e nel cuore da chi ha commesso il male, proprio rifiutandosi di riconoscere e distaccarsi dal male stesso.

Quando invece, come il figlio minore di questa famosissima parabola, si rientra in se stessi e ci si rende conto del male commesso, di quanto si è sperperato (quanti beni, affetti, possibilità di vita e di gioia per sé e per altri), allora ci si separa dal peccato commesso e in questa condizione si può tornare davanti a coloro che hanno sofferto per colpa nostra (e davanti a Dio). In questa posizione che ci vede mortificati e consapevoli di non meritarci niente, osiamo sperare in una nuova possibilità, anche piccola (trattami come uno dei tuoi garzoni) ed è qui che il miracolo del perdono ci sorprende. Dio infatti ha già dimenticato quello che noi con tanta fatica rinneghiamo, aspettava solo il nostro percorso di consapevolezza e quindi ha in serbo per noi non una piccola opportunità o un periodo di prova in cui dimostrare che siamo cambiati, ma piuttosto una festa che ci restituisca alla vita piena di figlie e figli. Quando ci pentiamo del male fatto, entriamo all’istante nella nuova possibilità di vita che Dio già pregustava di donarci. E questo spiega perché la seconda lettura (seconda lettera ai Corinzi) ci parli di un ministero della riconciliazione e ci supplichi a lasciarci riconciliare con Dio: non è Dio che va convinto ad offrire un perdono che bisognerebbe guadagnarsi, siamo noi che dobbiamo convincerci a distaccarci dal male fatto, senza scuse e senza difendere ciò che è stato.

Nel leggere la parabola, però, non possiamo fare a meno di domandarci perché il fratello maggiore si indigni del perdono offerto al proprio fratello. Quale guadagno può venire dallo smarrimento dell’altro, dal fatto che non si ravveda? Oppure quale guadagno può venire dal lasciarlo legato a ciò che ha fatto anche dopo che lui ha riconosciuto il proprio errore ed è tornato sui suoi passi? Le parole che il padre della parabola dice al fratello maggiore sono proprio in questa direzione: bisognava rallegrarsi perché il fratello perduto è tornato alla vita. Questo ritorno alla vita è un guadagno per tutti. Perché il figlio maggiore (come i farisei e come tutti quelli che si pensano migliori di altri) non lo comprende?

Forse l’evangelista Luca ci vuole dire che ci si può perdere anche restando in casa. Ci si può smarrire senza muovere un passo e si può dimenticare di chi siamo figli anche compiendo tutti i gesti “giusti” dei bravi credenti e delle brave persone. Il punto è che i figli e le figlie del Padre si riconoscono dal desiderio che tutti vivano, che tutti abbiano sempre e comunque una nuova possibilità di vita. Dio non si accontenta della vita già donata né concede un’unica occasione di mettere a frutto il dono ricevuto, offre invece sempre un dono ulteriore, chiedendoci di diventarne sempre più responsabili e protagonisti. Chiede un passo in più al figlio che torna, cioè quello di lasciarsi ridonare la vita abbandonando persino il ricordo del male fatto, e chiede un passo in più al figlio che è restato, cioè quello di godere della casa del Padre senza pensare che l’amore vada guadagnato e che Dio vada accontentato, altrimenti perderemo tutto.

Dio offre sempre un dono in più e dona sempre un’occasione di vita in più. Leggiamo così anche la prima lettura  tratta dal libro di Giosuè: nel deserto Dio nutre il popolo con la manna, ma una volta che è entrato nella terra promessa, gli offre la possibilità di sfamarsi col proprio lavoro al punto che sarà il popolo d’ora in poi ad offrire a Dio le primizie, senza più bisogno di affidarsi come i bambini a ciò che viene dato loro senza sforzo. Il Dio dei doni ci fa liberi al punto da darci la possibilità di essere noi ad offrirgli doni e primizie.

Nessuna logica di mercato. Nessuna condanna. Nessuna vendetta. Nessuna occasione perduta per sempre. Nessuna colpa indelebile. Solo Dio che medita come festeggiare il nostro ritorno e come farci gustare la vita, appena avremo deciso che il male non vale proprio la pena di essere fatto o ricordato né per noi né per i fratelli e le sorelle che si erano perduti e ora – finalmente! – tornano.

18 - Mar - 2022

III Domenica di Quaresima anno C

Quaresima

III Domenica di Quaresima

Anno C

(Es 3,1-8.13-15   Sal 102   1Cor 10,1-6.10-12   Lc 13,1-9)
Domenica 20 Marzo 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il tono minaccioso della prima parte del discorso di Gesù, sulla morte improvvisa dei Galilei uccisi da Pilato e degli uomini rimasti sotto la torre crollata, viene subito attenuato dalla parabola successiva che costringe a non pensare a Dio come quello che ci aspetta al varco per coglierci in fallo, ma al contrario come colui che si prende cura con pazienza anche della nostra incapacità di portare frutti. Lui non perde le speranze, rinnova le occasioni, moltiplica le attenzioni. Non è facile per nessun agricoltore eradicare un albero che ha visto crescere e per il quale ha impiegato risorse e lavoro: tanto più per Dio ogni vita è preziosa.

Questo ci permette di rileggere anche il primo insegnamento di Gesù non come una minaccia, ma come un ammonimento, come un’esortazione a cogliere ogni occasione per dare frutto, perché non sappiamo quanto tempo abbiamo né quante occasioni abbiamo. Come un albero buono, dobbiamo succhiare ogni nutrimento dalla terra e stendere i rami verso il cielo per offrire i frutti che ci sono propri, ogni giorno, ogni momento, perché non sappiamo in nessun modo quanto durerà e non è nemmeno questo quello che conta, l’importante è convertirsi, volgersi al bene perché i nostri frutti nutrano quanti più possibile.

La seconda lettura (prima lettera ai Corinzi) ci ricorda poi che non basta aver ascoltato la parola, essersi dissetati e nutriti dei sacramenti e della familiarità con Dio, perché senza stare attenti a se stessi, senza custodire l’autenticità del cuore in ascolto della Parola e della realtà, si possono mandare distrutti tutti i doni e perdersi. Occorre fare attenzione a sé, ascoltare con autenticità, lasciare che i sacramenti ci trasformino realmente la vita e le azioni, nel desiderio continuo di impiegare ogni giorno e ogni momento per offrire frutti buoni. D’altra parte solo un albero curato fruttifica, similmente solo una persona che custodisce se stessa sulla via di Dio può compiere di conversione. E Dio stesso lavora al nostro albero perché abbia ogni cura possibile.

Infatti la conversione e il portare frutto, per quanto richiedano la nostra decisione e l’impegno della nostra libertà, non accadono per uno sforzo volontaristico che ci imponiamo, ma per la vicinanza di Dio che ci dona tutto ciò che serve (anzitutto lui stesso). La prima lettura ci fa vedere questa dinamica seguendo il racconto della chiamata di Mosè al roveto ardente. Mosè viene chiamato in un luogo sacro, incuriosito da ciò che sembra un prodigio, ma solo per ascoltare (così come Dio aveva ascoltato) il grido del popolo che Dio gli racconta. Già questo ci dice che non esiste esperienza “sacra” che non sia un concreto frutto di carità per altri, l’ascolto del loro grido, l’impegno per alleggerire le loro fatiche. A questo Dio aggiunge il nome con il quale vuole essere conosciuto e che invece di “Io sono colui che sono” andrebbe tradotto “Io sono colui che ci sarà”. Dio, cioè, si fa conoscere come colui che si impegna nella vicinanza, nell’amicizia, nella cura. Convertirsi e portare frutto dipendono dall’accorgerci di questa vicinanza, dal lasciarsi consolare da questa amicizia, per vivere prendendosi cura di quelli di cui il Dio che sta con noi ci fa sentire il grido.

La vita è la nostra occasione. Ogni momento lo è. Per ascoltare il grido dei fratelli e delle sorelle, per ascoltare ciò che Dio dice e godere la sua amicizia. Convertiamoci allora, viviamo così, perché – ringraziando Dio! – il regno di Dio è vicino.

11 - Mar - 2022

II Domenica di Quaresima anno C

Quaresima

II Domenica di Quaresima

Anno C

(Gen 15,5-12.17-18   Sal 26   Fil 3,17- 4,1   Lc 9,28-36)
Domenica 13 Marzo 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Indubbiamente il contrasto fra la scena che il Vangelo ci presenta questa domenica e quella che ci presentava domenica scorsa è fortissimo. Nella prima domenica di quaresima Gesù era solo, nel deserto, tentato dal diavolo che gli parlava minacciando la sua stessa identità. In questa seconda domenica invece Gesù ha con sé i suoi ed incontra Mosè ed Elia. Infine, non viene tentato ma glorificato e le parole che si sentono forti e chiare sono quelle del Padre, che lo dichiara figlio ed eletto.

La quaresima comincia dalla cenere e dal deserto, ma punta alla Pasqua, alla gloria e alla vita: dobbiamo sapere dove va il cammino. E dobbiamo saperlo fin da subito. I deserti della storia e della vita sono molti, per questo dobbiamo sapere quale è la meta e, sapendolo, imparare a distinguere le voci che sentiamo, per dare credito solo a quella di Dio che ci promette sempre il perdono e la vita, riconoscendoci come figli e figlie. La vita che trionfa su ogni morte è la promessa in cui Dio si impegna senza chiederci altro che rimanere saldi in essa (così nella lettera ai Filippesi che leggiamo nella seconda lettura), confidando nella sua fedeltà.

Nella prima lettura, perché questo ci sia più chiaro, ci viene raccontata l’alleanza con Abramo. Si tratta di un patto fra due alleati; si squartavano gli animali e si passava in mezzo ad essi per impegnare tutta la propria vita, come se si volesse dire: avvenga a me quanto è avvenuto a questi animali, se non rispetto il patto. I due contraenti passavano in mezzo ai cadaveri e così vedevano bene quale maledizione si sarebbero attirati addosso con un’eventuale inadempienza. In quella notte però, mentre Abramo lotta con il sonno, proprio faranno i discepoli sul monte della trasfigurazione (molto spesso nella Scrittura quando Dio fa qualcosa di particolarmente importante addormenta gli esseri umani), solo Dio passa in mezzo agli animali squartati. Non pretende da noi un impegno che non potremmo mantenere, ci chiede invece di consegnarci alla sua promessa e custodire responsabilmente il dono che ci fa.

In questo modo saremo certi (col bellissimo salmo di questa domenica) di contemplare la bontà del Signore là dove tutto vive, nella terra dei viventi, nei cieli (perché nei cieli è la nostra cittadinanza ci ricorda la lettera ai Filippesi), e potremo sperare, essere forti, rinsaldare il nostro cuore anche quando sembrasse sul punto di cedere, perché ci è stato promesso che tutto ciò che siamo (il nostro misero corpo con tutto ciò che ha vissuto, fatto e subito) verrà trasfigurato. Tutto sarà riempito di Dio e così ogni parte di noi, anche quella che fosse stata straziata (come straziato sarà il corpo di Gesù), risplenderà di una bellezza che solo Dio può dare, di una luce che nessun male può spegnere. Questa bellezza che i discepoli videro per un attimo senza comprendere ci attende alla fine del cammino. Meglio saperlo da subito, mentre i passi sono ancora appesantiti dalla polvere del deserto.

04 - Mar - 2022

I Domenica di Quaresima anno C

Quaresima

I Domenica di Quaresima

Anno C

(Dt 26,4-10   Sal 90   Rm 10,8-13   Lc 4,1-13)
Domenica 6 Marzo 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La Quaresima inizia sempre dalla cenere. Mettiamo la cenere sul capo per riconoscere ciò che siamo, esposti continuamente alla morte, ma anche peccatori, cioè capaci di mandare in malora (in cenere) le relazioni, le attività, la vita. In questi giorni guardiamo una guerra in Europa e profughi. Ma quante guerre e quanti profughi nel mondo! Mettiamo la cenere sulla testa perché anche noi siamo responsabili, con la nostra indifferenza o con le nostre piccoli e grandi guerre, della devastazione che regna nel mondo. Ci rendiamo disponibili a riconoscere la nostra parte di responsabilità per gridare al Signore: salvaci.

Israele (così la prima lettura dal Deuteronomio) deve ricordare ogni anno portando le primizie del raccolto che è stato schiavo e nomade, che ha gridato al Signore quando non aveva alcuna possibilità di liberarsi, quando nemmeno era un popolo. È bene ricordare, anche nella prosperità, che tutto ciò che siamo viene dalla risposta di Dio al nostro grido. Da questa memoria (come ci invita a pregare il salmo) viene la certezza della vicinanza di Dio nell’ora della prova, nell’ora in cui non riusciamo a vederlo, nei giorni dell’angoscia. Dio libera e di nuovo libererà chi grida a lui (anche senza saperlo), riconoscendo il proprio bisogno di essere salvato. La fede che salva (di cui ci parla la seconda lettura tratta dalla lettera ai Romani) è proprio questa condizione esistenziale in cui sappiamo che la nostra vita dipende da Dio e che Dio è il Dio che libera e rinnova la vita: chi spera in lui non sarà deluso.

Queste parole ci accompagnano nell’ora più buia. Nella pestilenza del Covid, nella minaccia della povertà, nell’angoscia della guerra e della distruzione. Chi spera in Dio non sarà deluso. Sono le parole che portiamo con noi seguendo Gesù nel deserto. Come ogni prima domenica di quaresima, oggi ascoltiamo il Signore dialogare con ciò che lo minaccia, ricacciandone gli inganni e rimanendo fermo nel confidare in Dio che non delude. In questo dialogo scopriamo come la fede salva, come libera da ciò che impedisce la vita.

Anzitutto Gesù è affamato e solo. Il Signore si pone in una condizione di debolezza, una condizione in cui davvero solo Dio può essere la sua salvezza, dove non ha forze sue (ha fame) né alleati (nel deserto). E il nemico prova a fargli desiderare di essere forte: dì che queste pietre diventino pane. Gesù però, non certo perché mangiare non sia un bene, preferisce restare debole: in questo momento scegliere di mangiare significa cercare di bastarsi da sé. Nel deserto questo non è possibile, come in tutti i deserti della vita e della storia. L’essere umano non vive del pane che fa forti e autosufficienti, ma vive della Parola che Dio gli rivolge, vive cioè della relazione con lui: questa è il cibo cui mai si può rinunciare. Allora il nemico prova a fargli desiderare il potere. Quanti orrori e quanti abusi piccoli e grandi per un po’ di potere! Davvero una seduzione potente. Gesù poteva desiderarlo a fin di bene: sarebbe stato un re giusto e buono. Poteva scegliere di regnare beneficando gli esseri umani, ma sa che il potere finisce per mettersi al posto di Dio, finisce per farsi adorare e non c’è fin di bene che tenga: non è più Dio colui in cui confidi. Meglio stare sulla soglia della tua casa che abitare nelle tende dei potenti. E così si arriva all’ultima prova: buttati e costringi Dio a salvarti, metti alla prova il suo amore. Ma Gesù già confida in Dio, per cui metterlo alla prova sarebbe servito solo a intaccare la certezza della sua salvezza. Non mette alla prova Dio, dunque, e così non perde la speranza che già possiede, quella di non restare deluso.

Non tentiamo Dio nemmeno noi, resistiamo alle logiche che ci chiedono di essere forti e autosufficienti, che ci fanno pensare che le strategie di potere siano  migliori di quelle del Vangelo, che ci fanno mettere alla prova Dio come se non fosse affidabile. Resistiamo nel deserto, affamati, senza potere e saremo certi della speranza che ci abita: non resteremo delusi. E così passeremo la notte che pure ci minaccia all’ombra dell’Onnipotente, al riparo.

25 - Feb - 2022

VIII Domenica T.O. anno C

Tempo Ordinario

VIII Domenica Tempo Ordinario

Anno C

(Sir 27,5-8   Sal 91   1Cor 15,54-58   Lc 6,39-45)
Domenica 27 Febbraio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Vangelo di questa domenica, che riprende là dove si era interrotto quello di domenica scorsa, ha il sapore dei libri sapienziali, dai quali (non per niente) è tratta la prima lettura, che per lo stile e per i contenuti fa quasi da overture al Vangelo stesso. Il discorso di Gesù riportato da Luca cuce insieme una serie di temi, detti, insegnamenti brevi che si rincorrono, quasi per circondare chi ascolta di una sapienza nuova, capace di rinnovare lo sguardo e la vita.

Il primo detto è di immediata chiarezza: può un cieco guidare un altro cieco? Solo chi ci vede, chi ha la sapienza cioè, può diventare guida per chi ancora non ci vede bene. Chiunque avesse la stoltezza di essere guida per altri mentre ancora non ci vede, finirebbe solo per procurare la rovina propria e altrui. I credenti, al contrario, sanno che lo stile giusto non è quello di chi si crede superiore agli altri e depositario di verità e giustizia, ma quello umile del Signore (anche i cristiani devono sapere che nessuno è più grande del proprio maestro) che non giudica nessuno (sulla necessità di non giudicare si erano fermate le righe, lette domenica scorsa, immediatamente precedenti a queste) e quindi non dà sentenze definitive né spadroneggia sulle persone dicendo loro cosa devono fare o dove devono andare.

Se credi di vedere (continua ad ammonirci il Signore), stai attento. A volte mentre pretendiamo di aguzzare lo sguardo per togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello, dall’alto delle nostre sicurezze e della nostra presunta saggezza, siamo incapaci di accorgerci che abbiamo una trave infilata nel nostro occhio, oppure ce ne accorgiamo ma, ipocritamente, ce ne disinteressiamo e dispensiamo correzioni e consigli solo per gli altri. Il problema non è avere ostacoli che ci impediscano di vedere (o di dare buoni frutti per andare all’immagine che segue subito dopo), anzi è impossibile non averne, il problema invece è non volerli riconoscere. Al contrario di questa cecità (che sceglie di non vedere il proprio peccato e la propria stoltezza) c’è la disponibilità a convertirsi, ad ascoltare, a togliere via ciò che impedisce di vedere. Solo questa disponibilità mette nelle condizioni di poter guardare anche l’altro per aiutarlo: sarà facile togliere una pagliuzza quando si è saputo togliere dal proprio occhio una trave. E, soprattutto, non sarà possibile disprezzare o giudicare chi ha bisogno di un così banale soccorso rispetto a quello di cui abbiamo avuto bisogno noi.

L’ultimo passaggio del brano evangelico parla, infine, di alberi buoni che fanno frutti buoni e alberi cattivi che fanno frutti cattivi. La bontà cioè non si misura dall’esteriorità (da come l’albero appare) ma dal sapore dei frutti. In particolare il Signore si sofferma sulle parole che escono dal cuore dell’essere umano (ma potremmo aggiungere a questo anche le azioni): le parole (e le azioni) buone sono quelle che, ascoltate, fanno bene e sostengono la vita. Queste escono solo da un cuore buono e non vanno confuse con le parole che adulano o compiacciono o non disturbano: non importa l’aspetto del frutto, importa il sapore. Se è buono. Nessuno di noi però dà solo frutti buoni (e nemmeno solo frutti cattivi!) per cui la vita intera è un cammino di conversione e di umiltà, alla ricerca della trave che giganteggia nel nostro occhio, umilmente e timidamente disposti a togliere la pagliuzza in quello degli altri, facendo memoria che non possiamo giudicare né gli altri né noi stessi, perché non siamo più grandi del nostro maestro. È un cammino continuo, mai finito. Una lotta faticosa.

Questa fatica però (prendiamo qui come spunto quanto ci dice la seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Corinzi) non è vana nel Signore. Questa certezza ci fa rimanere saldi anche davanti alla morte che ci punge tramite il peccato. Rimaniamo saldi perché morte e peccato sono stati vinti e perciò i frutti cattivi, come anche le travi che ci accecano non sono destinati a trionfare. La morte, da sempre abituata a trionfare è sconfitta.

19 - Feb - 2022

VII Domenica T.O. anno C

Tempo Ordinario

VII Domenica Tempo Ordinario

Anno C

(1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23   Sal 102   1Cor 15,45-49   Lc 6,27-38)
Domenica 20 Febbraio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La pagina del Vangelo che viene proclamata in questa domenica sembra dura e irrealizzabile: porgere l’altra guancia è qualcosa che spesso viene indicato come l’emblema della difficoltà del Vangelo, qualcosa di irrealizzabile. In realtà questa pagina di Luca riporta molti esempi (fare del bene a quelli che ti fanno del male, prestare senza aspettare niente in cambio, lasciare che altri ci schiaffeggino e che si prendano le nostre cose, pregare per chi ci fa del male) di una sola logica: essere benevoli verso gli ingrati e verso i malvagi, come Dio è benevolo verso i malvagi e verso gli ingrati.

Certamente, l’amore più alto e pieno è quello in cui le persone si amano reciprocamente e si fanno del bene reciprocamente (anche Dio vuole essere amato da quelli che ama e questa è la pienezza dell’amore), ma molto spesso nelle relazioni umane (e in quella di Dio verso di noi) ci sono ingratitudini (l’incapacità cioè di riconoscere e rallegrarci del bene che ci viene fatto) e malvagità (la volontà cioè di fare il male di qualcuno). Quando questo accade, non si può dare la pienezza dell’amore, ma – sembra dire Gesù qui – si può comunque amare. Si può fare il bene, continuare a dare vita come si riesce anche a quelli che sono ingrati e malvagi. Non puoi fare loro un dono né aiutarli, ma puoi lasciare che prendano le tue cose. Non puoi vivere una relazione nella pace, ma puoi non aggiungere violenza e rabbia alla loro (credo così si possa intendere l’invito a porgere l’altra guancia). Non puoi costringerli a sperare per te il bene (ti maledicono!) ma puoi evitare di desiderare per loro il male (benedire e pregare per loro). Si rimane nemici, finché l’altro si dispone così, ma si può comunque amare, un amore affaticato, che trova modi di esprimersi non ottimali, ma comunque amore: l’amore possibile.

La differenza fra questo stile e il subire l’ingiustizia senza difendersi sta nel non sperare niente indietro. Una persona che subisce le ingiustizie, senza accorgersene o minimizzandole pur di mantenere una relazione e qualche vantaggio, lo fa pensando di avere prima o poi qualcosa, che l’altro si ravvederà e diventerà benevolo. In questo modo invece dell’amore finisce per vivere una pericolosa dipendenza o per perdere importanti opportunità, insistendo a cercare vita dove non ce n’è: prima o poi arriverà la rabbia o la violenza. Al contrario, chi sta difronte agli ingrati e ai malvagi con amore può farlo solo se non si aspetta niente indietro e questa libertà è l’unica possibilità per amare in questi casi.

È la stessa libertà di Dio, che con noi fa proprio così. Lui (ci dice il salmo) non ci ripaga secondo le nostre colpe, le allontana da noi e ci circonda di cura nonostante siamo molto spesso ingrati e malvagi. Questo stile è quello che è chiesto a noi quando gli altri sono malvagi e ingrati. Davide, che pure nella sua storia dimostra spesso di essere narcisista e violento, in questo brano del primo libro di Samuele (e non è l’unica volta nella sua vita) evita di vendicarsi di chi con lui è malvagio e ingrato. Non lo fa perché sa che Dio rende a ciascuno secondo la giustizia e la fedeltà. In altre parole non è con la vendetta né col ripagare le offese con il male, che si può sperare di trovare vita e pace. Dio, che è vita e pace, non fa così infatti quando viene offeso. Non si tratta di lasciare fare a lui perché ci vendichi, come forse in cuor suo anche Davide pensava, ma di lasciare fare a lui perché apra percorsi di pace e di vita anche là dove gli esseri umani fanno di tutto per portare morte e guerra. E a noi viene chiesto di assecondare la sua opera, di essere cioè come Gesù, l’ultimo Adamo (così in questo brano della prima lettera ai Corinzi), che non è terrestre (impastato della terra e della logica violenta che vuole ottenere sempre qualcosa e per questo, se riceve il male, vuole restituirlo) ma celeste, talmente pieno dello Spirito di Dio da diventare datore di questo Spirito. E lo Spirito è benevolo, porta la vita, copre le colpe, rinnova, spera sempre nel cammino dell’altro che, forse un giorno, ci sarà finalmente amico. Finché non potremo avere questo, ci dedicheremo (insieme a Dio) a fare per chi è ingrato e malvagio, tutto il bene possibile. E se Dio vorrà, verranno i giorni dell’amicizia, in cui ogni colpa verrà dimenticata e ogni malattia guarita.

11 - Feb - 2022

VI Domenica T.O. anno C

Tempo Ordinario

VI Domenica Tempo Ordinario

Anno C

(Ger 17,5-8   Sal 1   1Cor 15,12.16-20   Lc 6,17.20-26)
Domenica 13 Febbraio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Tutti cerchiamo la vita e perciò, visto quanto siamo fragili ed esposti, cerchiamo qualcosa di solido su cui fondarla, qualcosa che ci garantisca nutrimento e serenità. Questa tensione è sana (chi cerca la morte e di farsi del male è malato o distorto), ma non sempre ci porta a riporre la nostra fiducia in ciò che davvero può garantire la vita.

Può capitare infatti che ci accontentiamo di un nutrimento superficiale, che rassicuri il nostro io anche in ciò che non andrebbe incoraggiato, oppure che aspettiamo la salvezza da chi non è in grado di darcela (persone o cose per esempio, fragili come noi). Può capitare anche che pur di sentirci bene, senza conflitti, vitali, ci accontentiamo di beni provvisori incapaci di arrivare alle profondità delle nostre domande e del nostro bisogno di vivere. Può capitare cioè, per dirlo in sintesi, che pur di sentirci vivi, ci affidiamo totalmente a ciò che muore o fa morire.

Credo che tale dinamica possa essere colta nelle letture di questa domenica. Nel brano del profeta Geremia, che riprende molto da vicino il primo salmo proposto come salmo responsoriale, abbiamo da una parte la sorte di chi confida nell’uomo e finisce per trovarsi in terre aride e salmastre, in cui nessuno può vivere, e dall’altra la sorte di confida nel Signore ed è fecondo anche nella siccità. Se il malvagio si ferma in compagnia degli stolti, la persona beata è quella si allontana da ciò che è male per radicarsi in Dio, continuando così ad attingere vita anche quando le condizioni si fanno avverse. Il problema non è la siccità (che può venire e anzi verrà certamente), il problema è dove affondano le nostre radici, su cosa veramente fondiamo noi stessi.

Nel Vangelo Gesù ci aiuta a verificare dove ci siamo radicati. Riusciamo ad attingere la vita quando siamo poveri, affamati, tristi e ingiustamente perseguitati? Riusciamo a portare frutti anche in queste condizioni? Se questo accade vuol dire che non ci siamo fatti ingannare. Vuol dire che sappiamo che la ricchezza non è indispensabile e che può essere persino una minaccia perché ci insinua l’idea che non abbiamo più bisogno nemmeno di Dio. Vuol dire anche che sentirci soddisfatti (sazi) e contenti non sarà più importante di ogni cosa e così saremo in grado di condividere, rinunciando a ciò che abbiamo, e saremo in grado di sopportare la tristezza, se dovesse capitare, senza per questo smettere di rallegrare altri. Se riusciamo, infine, a portare frutto anche nelle persecuzioni, vuol dire che la giustizia ci interessa di più del nostro benessere. Tutto questo significa che siamo liberi di cercare la vita sempre e comunque, senza che niente possa ingannarci, convincendoci che se avremo la ricchezza (o la salute? O il buon nome? O qualsiasi altra cosa) certamente non avremo bisogno di altro.

E se abbiamo questa libertà, la vita che viene da Dio, nel quale affondiamo le radici con qualsiasi tempo e in qualsiasi condizione, non verrà meno, nemmeno di fronte alla morte (la resurrezione di cui ci parla Paolo nella prima lettera ai Corinzi riguarda proprio la sconfitta di questo ultimo nemico). Confidare in Dio non vuol dire mortificarsi rinunciando a ciò che la vita può dare se ci diamo da fare o troviamo gli agganci giusti, ma – al contrario – confidare in Dio significa lasciare che lui ci faccia vivere sempre e portare frutto anche nelle condizioni peggiori. Beati davvero quelli e quelle che vivono così, perché nessuna fame, nessun dolore, nessuna privazione e nessuna persecuzione potrà minacciarli davvero. Beati.