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26 - Mar - 2021

Domenica delle Palme (B)

Domenica delle Palme (B)

(Is 50,4-7   Sal 21   Fil 2,6-11   Mc 14,1-15,47)
Domenica 28 Marzo 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Quest’anno riviviamo i momenti della passione del Signore ascoltando il racconto tracciato da Marco, che delinea una progressiva ed impietosa spoliazione di Gesù. Lui, ricco di parole bellissime, autore
di segni, circondato di discepoli, seguaci e folle intere (che in questa domenica ricordiamo mentre lo acclamano messia), invincibile nelle dispute e profeta autorevole, viene spogliato di tutto ciò che è
stato e ha vissuto. Mentre condivide con i suoi il segno del pane e del vino, che doveva aiutarli a vedere nella sua morte il dono di vita che lui stava facendo, Giuda ordisce il tradimento. Gesù viene denudato degli amici più cari: Giuda tradisce, quelli che portava sempre con sé non riescono a nemmeno a vegliare mentre lui perde la pace preso dall’angoscia, infine tutti fuggono.
Così solo, in balìa delle guardie, viene messo sotto giudizio, privato dell’innocenza che non gli viene più riconosciuta e violato nella sua più  profonda interiorità: il suo essere Figlio viene definita una bestemmia, come se l’amore del Padre per lui fosse un abominio.
Pilato, troppo vigliacco per esercitare il potere che gli era stato dato, fa decidere la folla sul destino di Gesù e la folla, volubile e crudele, preferisce un assassino, spogliando Gesù del riconoscimento messianico precedentemente accordato. I discepoli, il sinedrio e ora il popolo lo hanno abbandonato nelle mani dei romani e i romani lo spogliano della dignità e della vita: lo insultano, lo torturano, lo spogliano, quindi lo crocifiggono. Sulla croce, equiparato ai malfattori, viene spogliato dei tanti segni fatti per mostrare l’amore del Padre: ha salvato tanti, salvi se stesso!
Ma Gesù sa che non può salvare nessuno, sa che solo il Padre operava in tutto quello che lui faceva, che ogni segno era opera sua e ogni
parola una parola sua. Solo il Padre può salvare. Allora Gesù grida l’abbandono di Dio: perché mi hai abbandonato? Inizia il salmo che
finisce col riscatto e la vita, ma non arriva a dirlo tutto, muore gridando l’abbandono. Perché allora il centurione lo riconosce proprio
ora, come Figlio di Dio? Perché quel grido dice chi è Gesù: lui grida verso il Padre perché sa che il Padre l’ascolta. Il Signore muore come ha vissuto, come il Figlio amato. Tutto questo che gli uomini gli fanno non può togliergli l’unica cosa che conta. E grida, come Israele in Egitto, come il cieco di Gerico, come quelli che gli erano prostrati davanti supplicandolo di guarirli, come il lebbroso e la donna sirofenicia: grida al Padre.
In questo momento, spogliato di tutto, a Gesù resta solo una cosa: il suo essere figlio e da figlio, rivolto al Padre, muore. Questo grido
squarcia il velo del tempio, il grembo stesso di Dio, che non può non rispondere a questa invocazione, e allo stesso tempo tocca il cuore
del centurione che comprende l’identità profonda di Gesù.
Le donne guardano da lontano, quelle discepole che lo avevano seguito (il verbo della sequela usato per i discepoli) e lo avevano servito
(il verbo del servizio che Gesù attribuisce a se stesso e a quelli che vogliono essere i più grandi nel regno) e molte altre che erano salite dalla Galilea a Gerusalemme (Marco usa qui un’espressione che gli Atti degli apostoli usano per i testimoni apostolici). Su due di queste donne, che guardano la pietra rotolare davanti all’entrata del sepolcro, la scena si chiude. Loro non se ne sono andate, sono rimaste. Hanno fissato lo sguardo sul dolore e sulla spoliazione di lui, perdendo ciò che non poteva essere sostituito e cui niente poteva essere paragonato: Gesù stesso. E, di nuovo ora, caparbie, vanno al sepolcro: c’è ancora un corpo da onorare e lo faranno.
Il loro amore non è superficiale e inaffidabile come quello della folla, la loro fedeltà non conosce rinnegamento né fuga, la loro pena
non le distrae: c’è ancora un corpo da onorare. Giustamente il Signore stesso premierà questo amore incrollabile mostrandosi a loro Risorto.
Tanto amore merita di essere premiato. Proprio come aveva premiato la donna che l’aveva unto in vista della sua sepoltura sprecando tanto
olio prezioso: ha fatto quanto era in suo potere per trattarlo con pietà e rispetto, dovunque verrà annunciato il Vangelo si racconterà
anche ciò che ella ha fatto. In fondo, alla fine dei conti, davanti a Dio vale solo l’amore sprecato sugli altri: Gesù lo sa bene e se lo
ricorda anche mentre viene abbandonato e denudato. Forse sente ancora addosso, mischiato con quello dolciastro del sangue, il profumo buono dell’olio di lei e si ricorda di essere l’amato del Padre: per questo grida, costringendoci ad aspettare, con le donne, ciò che il Padre risponderà.

19 - Mar - 2021

V Domenica di Quaresima (B)

Quaresima

V Domenica di Quaresima (B)

(Ger 31,31-34   Sal 50   Eb 5,7-9   Gv 12,20-33)
Domenica 21 Marzo 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Per tutte le domeniche di quaresima la prima lettura si è concentrata sull’alleanza e sui diversi patti in cui questa alleanza è stata offerta da Dio al suo popolo (con Noè e Abramo, nel decalogo durante l’esodo e nel ritorno dall’esilio). Ora arriviamo, nelle parole di Geremia, alla promessa dell’alleanza nuova, quella che non verrà trasgredita perché scritta nei cuori. Arriverà un momento cioè in cui il popolo (ciascuno e ciascuna di noi) sarà capace di rispondere all’amore di Dio: non saremo solo amati e scelti, ma sapremo, riempiti da questo amore, amare e scegliere.

Tutto questo comincia nella vicenda di Gesù, che ci mostra come la risposta all’amore del Padre non avviene per magia o istantaneamente, ma chiede un apprendimento. Leggiamo infatti in questi pochi versetti della lettera agli Ebrei che anche Gesù “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. L’obbedienza, poi, altro non è che vivere credendo e rispondendo all’amore del Padre e non può essere imparata che nelle vicende della vita che non sono facili per nessuno, ma ci conducono – persino nella sofferenza – ad essere sempre più capaci di amare, perché in esse possiamo crescere nella consapevolezza di essere amati da Dio.

Così, dentro questo cammino limpido e faticoso, Gesù arriva al giorno in cui comprende (forse perché i Greci sono curiosi di vederlo – come gli riferiscono i discepoli – e quindi lui comprende che la sua missione è compiuta visto che anche le genti vengono a Dio) di dover morire (il Vangelo è tratto dal dodicesimo capitolo di Giovanni, a ridosso della Pasqua): la sua anima è turbata, ma comprende anche che l’odio di chi lo ucciderà viene dal fatto che lui risponde all’amore del Padre e quindi non può farci nulla. Non può, infatti, smettere di amare il Padre (e quindi di essere come è) solo per salvarsi. Gesù però ha anche una speranza: che proprio il suo ostinato rispondere all’amore del Padre trasformerà la sua morte in vita. Il Padre farà questo: nel momento più buio, quando esseri umani cedono alle tenebre, Dio farà luce e caccerà via il principe di questo mondo, mettendo davanti agli occhi di tutti il Figlio innalzato, perché tutti guardino che lasciarsi amare dal Padre e rispondere al suo amore conduce alla vita. Non conosce morte (cioè riceve la vita eterna) chi vive questo amore.
Ed è proprio sulla vita che Gesù si concentra, non sulla morte: il chicco di grano muore solo per rinascere di una vita moltiplicata. La morte non è solo un passaggio, ma è persino apparente perché molto più vitale è la spiga del chicco. Si pensa che sia una morte se si vuole conservare il chicco, ma se invece più importante del chicco è la vita, allora si comprende come il chicco non muore se non alla sterilità e solitudine, aprendosi invece alla moltitudine dei frutti. Così il Signore ci insegna che ciascuno e ciascuna può smettere di difendere se stesso e la propria vita solo là dove perdersi significa moltiplicare la vita, solo là dove ciò che lasciamo morire è solo un chicco dal quale vediamo spuntare una spiga intera. Se si vuole conservare il chicco (“chi ama la propria vita” va inteso così) si temerà la morte (“la perde”) e non si vedrà la vita, ma se si sceglie la vita, potremo lasciare che il chicco muoia (“chi odia la propria vita” va inteso così) e vedremo che Dio è capace di moltiplicare i frutti oltre ogni aspettativa (“avrà la vita eterna”).
La buona notizia, il Vangelo, è che immersi nell’amore del Padre non dobbiamo temere nemmeno la morte, possiamo quindi, liberi e umili, rispondere al suo amore e di fronte ad ogni ostacolo che ci farà venire la tentazione di proteggere il nostro chicco smettendo di amare, risponderemo con Gesù: sono angosciato, ma che devo fare? Smettere di amare proprio no, quindi Padre glorifica il tuo nome, fa vedere a tutti cioè di quale e quanta vita sei capace.
12 - Mar - 2021

IV Domenica di Quaresima (B)

Quaresima

IV Domenica di Quaresima (B)

(2Cr 36,14-16.19-23   Sal 136   Ef 2,4-10   Gv 3,14-21)
Domenica 14 Marzo 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il tempo quaresimale in questa domenica lascia intravvedere la luce della Pasqua, come una nebbia che perde spessore e lascia che i raggi del sole restituiscano i contorni alle cose. La meditazione quaresimale che ci ha condotto nel deserto, sul monte e poi al tempio, per vedere se portavamo nel cuore il desiderio di volgerci a Dio, nutrendoci di lui, ascoltandolo e rifiutando ogni logica di mercato, ora ci mette davanti alla salvezza che celebreremo nella Pasqua, ma mentre lo fa ci consegna anche un monito: se si amano le proprie opere malvagie (cioè tutto ciò che non viene dall’amore sano di sé e del prossimo) rifiuteremo la salvezza che ci viene donata. Viene la luce (così Gesù parlando con Nicodemo) ma le tenebre non l’hanno accolta. La quaresima sosta per dirci che il tempo si è fatto breve: siamo riusciti a smettere di essere affezionati a ciò che non viene da Dio? Perché se continueremo ad amare le “opere malvagie” respingeremo il dono.

Mentre tentenniamo sulla soglia della luce, timorosi di lasciare le nostre tenebre, che ci sono in fondo così care, mentre la nebbia si dirada e noi siamo tentati di ritornare nel grigio dove nessuno (nemmeno noi) può vedere bene che cosa facciamo e perché, Dio ci parla della vita che vuole costruire con noi. Magari siamo finiti in esilio (come il popolo di Israele nella prima lettura), imprigionati dalla nostra storia e dalle nostre storture, ma Dio trova sempre il modo (persino tramite uno dei tanti tiranni che si avvicendano ai vertici del potere) per farci tornare in patria (cioè nell’intimità con lui) e per ricostruire il suo tempio (cioè il nostro cuore in cui lui abita). La lettera agli Efesini ci parla di questo ritorno in altri termini: Dio da morti che eravamo ci ha fatto rivivere con Cristo, ci ha riportati in vita dalla morte per dono, per amore, e messi in cammino in una strada che Dio stesso dissemina di opere buone perché noi le possiamo compiere e così seguire la luce, abbandonando nelle tenebre le opere malvagie.
A questo punto non ci resta che scegliere di coltivare il desiderio di vivere e di essere nella luce, perché il dono già è stato fatto e non abbiamo che da prenderlo: Dio ha mandato il suo Figlio nel mondo, perché chiunque crede abbia la vita e venga salvato dall’attrazione che la morte esercita su di noi.
La luce entra nella nebbia, abbiamo ancora tempo per lasciarci affascinare dalla bellezza di Cristo e del suo amore, per decidere che non ci interessa più quello che ci porta nelle tenebre e che possiamo farne a meno. Abbiamo un tempo favorevole e poi davanti a noi, vicina e bellissima, già albeggia la Pasqua.
05 - Mar - 2021

III Domenica di Quaresima (B)

Quaresima

III Domenica di Quaresima (B)

(Es 20,1-17   Sal 18   1Cor 1,22-25   Gv 2,13-25)
Domenica 7 Marzo 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Dopo aver seguito Gesù nel deserto e sul monte, dove ha mostrato il proprio mistero e dove la voce del Padre lo ha indicato come l’amato da ascoltare, arriviamo, in questo brano del quarto Vangelo, nel tempio di Gerusalemme. Il momento straordinario della luce, delle apparizioni e della voce, si era chiuso con Gesù solo, portando tutta l’attenzione su di lui. Qualcosa di simile accade in questo brano. Gesù compie un gesto simbolico scacciando venditori e cambiavalute e, come i profeti, mostra con i gesti ciò che Dio vuole: il culto, la preghiera, il tempio sono luoghi per incontrare Dio e consegnarsi a lui, non sono solamente una delle tante attività che possiamo fare e che, alla fine, si fanno come tutto il resto. Potremmo tradurre per noi così: non sono la vita ecclesiale, la celebrazione, la predicazione, che devono diventare un commercio, dominate dalla logica di ciò che ci conviene e nutre i nostri bisogni o il nostro egoismo, al contrario tutto ciò che facciamo deve essere trasformato in un sacrificio vivente per il bene dei fratelli e delle sorelle, prendendo la forma dell’eucaristia (cioè del dono), e tutto ciò che siamo deve mostrare la verità del Vangelo, perché non predica se non chi mette in pratica. Non è il tempio che deve diventare un mercato quindi, ma ogni mercato o casa o altro luogo deve diventare un tempio per onorare Dio servendo i fratelli e testimoniando il Vangelo nell’amore.

Gesù fa un passo in più e ci spiega come questo può accadere indicando il proprio corpo come un tempio: è nel corpo, infatti, cioè nella concretezza della vita offerta che Dio viene onorato e reso presente, proprio come si voleva accadesse nei templi. Non ci sono edifici sacri, pratiche religiose, regole o altro che ci possano garantire di servire Dio: abbiamo Gesù solo e il suo corpo offerto e resuscitato. E questa, per usare le parole della prima lettera ai Corinzi, è l’unica via anche per noi, l’unica sapienza e l’unica potenza.
In essa, che alla logica dominante appare stolta e debole, non domina la ricerca di sé, la propria realizzazione, la propria bontà e nemmeno la propria crescita o l’arricchimento della propria umanità: tutto questo (pure buono) passa in secondo piano (diventa stoltezza e debolezza) di fronte alla logica di Dio che si rivela tutta nel Crocifisso e che consiste nell’amore degli altri fino alla consegna di sé, nella speranza che Dio (lui solo, perché a noi è tolto ogni controllo) conduca tutti (anche noi) alla vita e alla comunione. Questa è anche la logica dei comandamenti (prima lettura) che ci pongono nella retta relazione con Dio (cioè ci portano a guardarlo come l’unico Dio per noi) e poi ci chiedono la cura del prossimo dimenticandoci di noi (perché chi ama Dio ama il suo stile e Dio è amore), nella convinzione che solo nell’amore degli altri potremo trovare anche il senso di noi stessi e la nostra amabilità.
Questo amore che ci fa perdere è la via della vita: può comprenderlo solo chi guarda il mondo come Gesù lo ha guardato (e lo fanno anche molti che non hanno conosciuto Gesù), il quale si è consegnato alla morte con la speranza che proprio l’amore vissuto fino in fondo nelle mani del Padre si sarebbe trasformato in vita, per tutti e anche per sé, a partire dal suo corpo inerte per amore e per amore risuscitato alla vita.
26 - Feb - 2021

II Domenica di Quaresima (B)

Quaresima

II Domenica di Quaresima (B)

(Gen 22,1-2.9.10-13.15-18   Sal 115   Rm 8,31-34   Mc 9,2-10)
Domenica 28 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Nell’episodio della trasfigurazione, protagonista ogni anno di questa seconda domenica di quaresima, Gesù (che domenica scorsa ci appariva fragile nel deserto, affamato e tentato, alla ricerca del discernimento che doveva portarlo alla sua missione) mostra la sua identità: l’origine divina (cambia il suo aspetto e ha queste vesti bianchissime), il suo essere immerso nella storia della salvezza (dialoga con Mosè e con Elia), l’amore del Padre per lui dichiarato dalla voce che ordina di ascoltarlo, cioè di porre attenzione a quanto Gesù stava dicendo sulla propria morte e resurrezione.

Tutto questo accade su un monte. Come Elia aveva avuto un momento di rivelazione importante sul monte, come Mosè era salito sul monte per vedere Dio, come Abramo sale sul monte pensando di dover uccidere il proprio figlio e si trova ad ascoltare Dio, così Gesù sale sul monte con alcuni dei discepoli – forse quelli che avevano più difficoltà a comprenderlo – e mostra loro chi è. Nel vedere chi è Gesù però si svela anche chi sia il Padre, infatti se Abramo aveva pensato che Dio potesse volere che lui uccidesse il proprio figlio, qui è evidente che Dio è colui che non vuole la morte dei suoi fedeli e che, al contrario, è pronto a donare il proprio figlio, ma solo e sempre per dare vita: Gesù verrà ucciso ma Dio lo risusciterà.
Abramo impara sul monte a comprendere che Dio (diversamente dagli dei che lui conosceva) non vuole la morte e i sacrifici, vuole invece la vita (lo leggiamo nella prima lettura: non stendere la mano sul ragazzo e non fargli alcun male), ora Gesù ci fa vedere che, anche quando gli uomini scegliessero la morte, come è accaduto proprio con Gesù (che è stato ucciso dagli uomini e per volere di uomini), Dio è capace sempre di dare vita: Gesù viene risuscitato.
D’altra parte, come anche dimostra la perplessità dei discepoli,
noi, come Abramo comprendiamo meglio la morte, magari ci domandiamo che cosa significhi risorgere dai morti ma sappiamo bene cosa significa morire. Sul monte invece (in questo tempo quaresimale) possiamo scoprire la vita, ciò che è sempre presente ma si mostra solo se si sa guardare, ciò che le Scritture ci raccontano e ciò che, bellissimo, risplende sul volto di Cristo prendendo carne nella sua vita che ci rende evidente l’amore del Padre.
Persino la sua morte (come ci dice Paolo in questi pochi versetti della lettera ai Romani), che rimane ingiusta e un orrore compiuto dagli uomini, immersa nell’amore del Padre, diventa altro, diventa un dono d’amore così immenso che possiamo davvero sperare ogni cosa. Veniamo messi di fronte a un evento così straordinario da non riuscire nemmeno a crederci o dal balbettare cose fuori luogo, come Pietro, ma allo stesso tempo comprendiamo che è qualcosa di reale come lo è il cammino di Gesù che ha scelto di amare fino in fondo, anche dentro l’orrore e l’ingiustizia, purché noi potessimo vedere l’amore che ci è rivolto, perché ciascuno e ciascuna si scoprisse figlio prediletto e offrisse l’unico sacrificio che Dio cerca: quello della lode e dell’amore.
19 - Feb - 2021

I Domenica di Quaresima (B)

Quaresima

I Domenica di Quaresima (B)

(Gen 9,8-15   Sal 24   1Pt 3,18-22   Mc 1,12-15)
Domenica 21 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il deserto (in cui Gesù sta per quaranta giorni tentato da satana) e il diluvio (di cui parlano sia la prima lettura tratta da Genesi che la seconda tratta dalla prima lettera di Pietro) hanno in comune il realizzarsi di condizioni così estreme da impedire la vita. Dovunque lo sguardo si dispieghi vede solo sabbia, se si è nel deserto, oppure solo acqua sotto la quale viene sommersa ogni cosa, se si è nell’arca dopo il diluvio. Sono luoghi aspri, condizioni estreme, ci portano faccia a faccia con la nostra fragilità, come digiunare a lungo, o vivere nella paura del contagio privati di tante relazioni, come capita a noi in questo tempo, immersi nelle difficoltà dell’oggi e nell’incertezza del futuro.

In questi luoghi estremi è facile sentire delle voci che ci tentano. Voci che, come è stato per le anime che avevano rifiutato di credere ai tempi di Noè (seconda lettura), ci spingono a non convertirci, a ritenerci nel giusto, cosicché il diluvio poi ci colga del tutto impreparati. Oppure voci che ci seducono convincendoci che Dio non si cura di noi e che, in fondo, non è importante: voci che separano (satana è il divisore) da Dio, dalla verità di noi stessi e dagli altri.
Eppure in questi luoghi estremi e minacciosi, che rischiano di farci errare senza riferimenti (quanto smarrimento in questo ultimo anno!), Dio opera la salvezza. Il diluvio non è la fine, ma un nuovo inizio, di fronte alla bellezza del quale Dio promette che non manderà più un altro diluvio. Il deserto poi è il luogo in cui Gesù affamato e assediato dalle voci, trova se stesso, il Padre e la decisione di iniziare la propria missione annunciando il Vangelo, come già Israele nel deserto era diventato il popolo prediletto di Dio accogliendone la parola e stringendo l’alleanza.
Oggi, come in quei primi giorni della missione di Gesù, la sua voce ci chiama a conversione mentre intorno a noi vediamo solo deserto e distese d’acqua, mentre dentro di noi si alzano le voci che ci fanno disperare o dubitare di Dio e del domani. Ci chiama a conversione in questo momento favorevole chiedendoci di saper vedere altro. L’acqua infatti distrugge, ma porta anche la vita, e il deserto è il luogo in cui si può ritrovare l’unico amore, quello di Dio, su cui si fonda tutto ciò che siamo e viviamo.
Guardiamo l’oggi allora, la durezza della situazione, entriamo nel deserto che ci è imposto, ma mettiamo a tacere ogni voce tranne una: “Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne”. Nutrendoci di questa parola, sapremo che ogni situazione, per quanto estrema, nelle mani di Dio può essere luogo di salvezza. Non abbiamo bisogno di aggiungere mortificazioni a quelle che già ci sono inflitte dalle circostanze, possiamo invece vivere questo tempo alla ricerca di Dio, per convertirci con tutto il cuore a lui, che è capace di far fiorire il deserto e far rinascere la vita dalle acque, e per riconoscerlo così come il Signore che si fa vicino, fino a proclamare con Gesù: il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino. Oggi, adesso, in questo stesso deserto.
12 - Feb - 2021

VI Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

VI Domenica T.O. (B)

(Lv 13,1-2.45-46   Sal 31   1Cor 10,31-11,1   Mc 1,40-45)
Domenica 14 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Domenica scorsa abbiamo visto Gesù decidere di allontanarsi dal luogo dove in tanti avevano gustato la guarigione e la vita che usciva da lui. Aveva scelto di andare oltre, di lasciare un assoluto protagonismo alla parola del Padre che poteva salvare e liberare molto di più dei prodigi che lui poteva compiere. Ora però si trova davanti un lebbroso.

Aveva capito ciò che doveva fare, cominciava anche ad intuire il rischio che lo cercassero per i segni che compiva (quante volte nei Vangeli se ne lamenterà!), ma tutto questo si infrange davanti a questo uomo malato che lo supplica in ginocchio. La prima lettura, dal libro del Levitico, ci fa immaginare ciò che gli occhi di Gesù vedono: le vesti strappate, il volto coperto, le piaghe, la solitudine, l’impossibilità di stare con qualcuno, di partecipare alla preghiera. Ai suoi piedi un uomo sfigurato dalla sofferenza, diventato informe e invisibile, come se fosse morto eppure condannato a vivere, senza riposo.
E Gesù prova compassione. Il verbo che viene usato qui indica proprio la contrazione delle viscere (materne) che ci prende quando vediamo qualcuno del quale intuiamo il dolore, una compassione che ci fa sentire in qualche modo la sua fatica e ci fa muovere per alleviarla perché è come se quella fatica gravasse su di noi, proprio come accade alle madri (e ai padri) con i loro bambini, il dolore dei quali non possono tollerare. Neanche Signore può resistere a quel dolore e guarisce il lebbroso. Questa guarigione, però, si rivela subito un errore strategico in ordine a quello che Gesù aveva deciso di fare, perché non può entrare più in nessuna città e quindi la sua predicazione è ostacolata.
La guarigione di questo lebbroso diventa per Gesù un intralcio sulla via dell’annuncio, che invece doveva avere l’assoluto primato.
Nelle parole che Paolo scrive ai corinzi troviamo una dinamica simile: Paolo si raccomanda di non scandalizzare le persone con comportamenti che potevano essere presi per immorali o antisociali (ovviamente in base ai codici morali e sociali del tempo), perché questa “buona fama” dei credenti era fondamentale per poter annunciare. Non importava quale libertà i cristiani avessero raggiunto, ma non dovevano porre inciampi agli altri sulla via del Vangelo e quindi non dovevano far pensare loro che essere cristiani distruggesse ciò che loro ritenevano decoroso e buono. Si trattava in fondo di una compassione, cioè di un farsi vicini ai fratelli e alle sorelle ancora ignari della libertà del Vangelo, un atteggiamento opposto alla tentazione che a volte prende la chiesa quando si ritiene un clan di giusti che sanno sempre che cosa va fatto e guardano gli altri dall’alto verso il basso, senza alcuna reale comprensione per le fatiche e le bellezze della loro vita, senza la compassione che invece piega Gesù verso questo lebbroso.
Non ci è dato sapere se Gesù si sia pentito di questo gesto di pietà, ma se Marco ce lo racconta vuol dire che la prima comunità cristiana ha colto anche in questo episodio una buona notizia. D’altra parte lasciarsi toccare dal grido di chi soffre è ciò che Dio ha fatto fin dall’inizio dell’alleanza e così Dio viene reso presente proprio in questo coinvolgersi di Gesù con la sofferenza e il Vangelo, che per ora non può annunciare perché braccato dalle folle, si alza potente dalla dalla bocca del lebbroso e dalla vita che gli è stata restituita. E così, dopo aver deciso di dare spazio più che ai prodigi alla Parola, Gesù ne contempla la potenza: se anche lui non può parlare (anche quando non potrà più parlare), altri lo faranno per lui, altri la cui carne sanata in mille modi diversi mostrerà la compassione di lui, nella quale bellissimo si disegna il volto del Padre e si dipana il racconto dell’amore viscerale che lo abita.
05 - Feb - 2021

V Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

V Domenica T.O. (B)

(Gb 7,1-4.6-7   Sal 146   1Cor 9,16-19.22-23   Mc 1,29-39)
Domenica 7 Febbraio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Gesù esce dalla sinagoga dove aveva zittito e cacciato uno spirito impuro ed entra in una casa. Entra nello spazio della quotidianità, delle relazioni, della vita reale fatta di problemi e piccolezze, delle gioie semplici del tempo condiviso che lega le persone. Il Signore Gesù non varca i palazzi del potere, i palcoscenici o i luoghi adibiti al sacro, entra invece nella casa delle persone semplici, che lavorano e hanno famiglia. In questo spazio, che è il nostro, comincia a combattere il male: caccia la febbre della suocera di Pietro quindi ingaggia una vera e propria lotta contro malattie e demoni. La porta della casa abitata da Gesù si spalanca e offre guarigione, liberazione, vita. Comincia dopo il tramonto del sole e poi al mattino presto (ha continuato per tutta la notte?) si ritira in preghiera.

Questa notte era stata forse come quella di Giobbe descritta dalla prima lettura di questa domenica: davanti a tanto dolore, a tanti bisogni degli esseri umani, il tempo che correva via, la sua stessa vita poteva sembrare a Gesù un’illusione, una spola del telaio che fa avanti e indietro continuamente. L’impresa di liberare tutti non era possibile, per un guarito ce n’erano un’infinità afflitti da altre sofferenze. “Ricordati che un soffio è la mia vita”: così Giobbe di fronte all’assurdo della sua malattia e forse così anche Gesù di fronte alla sofferenza del mondo. Semplicemente soverchiante.

Si raccoglie in preghiera. Poteva fermarsi nella casa di Pietro, farsi amare da quelli che beneficava, diventare il loro punto di riferimento, contare ogni giorno il bene fatto, godere di quello che poteva fare. Invece nel silenzio, lasciati insoddisfatti quelli che cercano solo un po’ di sollievo, decide di andare oltre.
Non è lui che salverà il mondo, non ciò che lui sa fare, nemmeno i prodigi che gli escono dalle mani. Sarà invece la parola che il Padre lo ha mandato a dire a salvare il mondo, perché questa parola leggera, che con tanta facilità cade a vuoto, ha la forza di far trionfare la vita sempre e comunque, anche dove la guarigione non può arrivare e il lieto fine non si dà. Questa parola fa suonare il silenzio e colora il buio. Deve andare altrove, così queste persone capiranno che non è il potere che lui ha che va cercato, ma la parola che lui lascia, l’unica che può portare davvero salvezza.
Come Gesù anche Paolo (nella seconda lettura) si dedica totalmente all’annuncio, rifiutando ogni vantaggio o riposo, pronto a farsi tutto a tutti pur di annunciare il Vangelo e salvare ad ogni costo qualcuno. “Tutto faccio per il Vangelo, per esserne partecipe anch’io”. Questo accade a chi, come Gesù, dopo tanta lotta contro il male comprende nel silenzio che ciò che porta infallibilmente la vita è proprio il Vangelo e così non si preoccupa più dei risultati raggiunti o di quanto bene si può misurare o vedere, ma passa oltre portando una parola che vuole arrivare ovunque, perché come il vento può infilarsi dentro ogni ferita, risanare ogni piaga, mettere in fuga ogni morte anche là dove nessuno se ne accorge. Così, mite e nascosto, Dio salva il mondo nello stesso modo in cui l’ha creato: parlando. Davvero grande è la sua potenza e la sua sapienza non si può calcolare.
29 - Gen - 2021

IV Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

IV Domenica T.O. (B)

(Dt 18,15-20   Sal 94   1Cor 7,32-35   Mc 1,21-28)
Domenica 31  Gennaio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Gli esseri umani tendono a farsi di Dio un’immagine comoda in cui normalmente si possono riflettere e che li rassicura, era così con gli antichi che scolpivano idoli da gestire a proprio piacimento, è così per noi che proiettiamo su Dio i nostri desideri o i nostri bisogni. Il Dio vivo invece sfugge ad ogni immagine e proiezione, perché parla, dice di sé e chiama a sé. La sua parola però – almeno così sperimenta Israele nel deserto – non può essere ascoltata direttamente dagli esseri umani. Essa scava troppo a fondo, estirpa violentemente il male, fa crescere senza soste ciò che è buono: come di fronte a troppa bellezza o a troppo orrore gli esseri umani si difendono, perché è qualcosa che non si può reggere.

Allora Dio prende uno (o una) dal popolo perché dica le sue parole, così queste saranno suoneranno in una lingua nota e saranno a misura di chi le deve ascoltare. Come fanno le mamme quando parlano con i bambini piccoli e imparano a comunicare (nemmeno loro sanno come) con piccoli versi, per poi assumere il linguaggio misterioso dei piccoli che dicono le prime parole, trovando un nome nuovo alle cose e alle azioni. Come le madri, anche Dio è naturalmente poliglotta e così mette le sue parole in bocca ai profeti, perché parlino tutte le lingue e arrivino a chi le ascolta e, come accade ai bambini, insegnino in modo elementare un linguaggio che diventa una lingua capace di descrivere tutta la realtà.
In questo brano del Vangelo di Marco Gesù è il profeta che insegna con autorità, superiore a tutti gli altri, perché è più evidente che ciò che dice viene da Dio: è evidente per il modo in cui insegna, per la vita che vive e che rispecchia perfettamente quanto insegna, ma soprattutto è evidente nei frutti che porta, perché la sua parola fa vivere, guarisce e libera dai tanti spiriti impuri che ci tengono prigionieri (paura, orgoglio, giudizio, gelosia, odio, divisioni, disperazione, avidità, violenza, ingiustizia: in una triste e lunga lista che potremmo continuare). Un esempio di questa liberazione (anche se molto distante dal nostro tempo) ci è offerta nella seconda lettura, troppe volte letta come una specie di disprezzo del matrimonio e di esaltazione della condizione celibataria. In realtà Paolo, quando dice che chi non è sposato ha meno preoccupazioni perché può pensare solo al Signore (rivolgendosi in modo particolare alle donne perché queste sposandosi finivano a tutti gli effetti sotto il dominio del marito), denuncia il rischio di relazioni ricattatorie e soffocanti, in cui qualcuno esercita il potere su qualcun altro. Questo tipo di relazioni si può avere fra marito e moglie, ma anche fra genitori e figli, sul lavoro e anche nei conventi. Paolo insegna dunque a tutti la libertà: nessuna relazione deve dividerci il cuore (che non è affatto diviso quando si ama qualcuno perché amare il prossimo e amare Dio sono la stessa cosa) significa che non si deve essere in potere di nessuno. Se finiamo infatti per vivere in modo da accontentare qualcuno, finiremo per farci un’immagine di Dio funzionale ai padroni che vogliamo servire o agli spiriti impuri che ci tengono soggiogati (e che spesso ci spingono ad accettare il padrone di turno), mentre essere liberi ci permette di ascoltare la parola che Dio dice perché ci salvi e ci conduca come un gregge al suo pascolo dove nutrirsi e riposare. Che il Signore zittisca (Taci!) ogni spirito impuro che parla in noi per ascoltare finalmente solo ciò che lui ha da dire e trovarci a godere tutta la bellezza della sua libertà.
22 - Gen - 2021

III Domenica T.O. (B)

Tempo Ordinario

III Domenica T.O. (B)

(Gio 3,1-5.10   Sal 24   1Cor 7,29-31   Mc 1,14-20)
Domenica 24  Gennaio 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Prima che la quaresima arrivi ad interrompere il ritmo del tempo ordinario avremo modo di leggere tutto lo straordinario primo capitolo del Vangelo di Marco. Oggi cominciamo con la pagina che avvia la vita pubblica di Gesù. Giovanni viene arrestato e Gesù, che aveva ricevuto il battesimo da Giovanni, comincia la sua missione: annuncia il Regno e chiama i primi quattro discepoli.

Lo troviamo in cammino percorrere le strade di Galilea, come il profeta Giona (nella prima lettura) aveva percorso le strade della grande città di Ninive. Entrambi profetizzano dicendo le parole di Dio ed entrambi chiamano a conversione. Tramite loro, cioè, Dio si fa presente dicendo che è arrivato il tempo opportuno, l’occasione che vale l’attesa di una vita, perché questo è il tempo in cui possono essere perdonati e volgersi verso Dio ricevendone vita e benedizione. Non è una denuncia dei peccati, non è un’accusa o una condanna: è piuttosto l’annuncio di una cura in cui nemmeno si osava sperare. Gesù infatti dichiara che è arrivato il tempo in cui Dio può regnare: nei cuori, nelle relazioni, ovunque. Questa è la buona notizia, il Vangelo: è arrivato il momento in cui Dio viene a prendere possesso del suo regno. Si fa vicino, rompendo la solitudine e il vuoto che troppo spesso ci minacciano, ci parla e ci guarisce.
Non è una notizia fra tante, ma l’unica che il nostro cuore attende, come quella che i nostri vecchi ci raccontano di aver ascoltato increduli alla radio o urlata per strada: la guerra è finita! Forse similmente ci colpirà quella della fine della pandemia. E magari proprio questo periodo che tutti speriamo finisca quanto prima, ci può insegnare ad essere tesi, attenti, alle voci che oggi ripetono l’annuncio di Gesù (o di Giona): il regno di Dio è vicino, convertitevi! Smettete di vivere le cose belle che avete, affetti, famiglia, beni, lavoro, gioia e dolore (così ci suggerisce la brevissima seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Corinzi), come se fossero fini a se stesse, come se fossero il nostro tutto: in realtà esse questo promettono altro, chiamano altro, aprono ad altro e quando questo altro dovesse venirci offerto bisogna essere pronti, altrimenti a nulla ci varrebbe tutto il resto.
Le due coppie di fratelli che il Vangelo ci presenta erano pronte. Lasciano il padre (ovvero ogni garanzia e collocamento sociale) e le reti (ovvero lavoro e sostentamento) per andare dietro a Gesù: ciò che facevano e le relazioni che vivevano attendevano una notizia, che permettesse loro di entrare nella pienezza della vita. Quando questa arriva, non indugiano e subito (quante volte questo avverbio nel testo di Marco!) vanno dietro al profeta. Che la buona notizia di Dio che si fa vicino per regnare ci colga così: pronti, immersi nella vita con l’orecchio teso ad ascoltare la chiamata che Dio ci rivolge e che sempre ci porta oltre, a guarigioni impensate, rinnovamenti incalcolabili e itinerari mai percorsi.
Per questo con il salmista diciamo: fammi conoscere Signore le tue vie, insegnami i tuoi sentieri, guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, fammi capace di riconoscere la tua voce e di seguirti, subito.