Category Archive » Commenti

Home » Commenti » Page 3
04 - Feb - 2022

V Domenica del T.O. anno C

Tempo Ordinario

V Domenica Tempo Ordinario

Anno C

(Is 6,1-2.3-8   Sal 137   1Cor 15,1-11   Lc 5,1-11)
Domenica 6 Febbraio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Se domenica scorsa venivamo portati a riflettere sulle resistenze che la Parola può incontrare intorno a noi e in noi, oggi assistiamo invece ad una sua generosa e pronta accoglienza. Fin dall’inizio di questa pagina di Vangelo troviamo infatti l’ascolto e il servizio della parola: Gesù predica, le folle vogliono ascoltare e Simone offre la propria barca, che era rimasta tristemente vuota e inutile durante la pesca, perché il Signore possa insegnare. E alla fine di questo insegnamento Gesù si rivolge a Simone perché torni a pescare. La risposta di Simone ci mostra ancora una volta la centralità della Parola che viene onorata in ogni modo: abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla, ma sulla tua parola getterò le reti. Sulla tua parola. Nell’ascoltare Gesù Simone ha scoperto quell’autorità che altri avevano già visto a Nazaret e, fuori dalle logiche del suo mestiere (è ormai giorno e tutta la notte non hanno pescato nulla), fa un gesto che ha senso solo se la parola di Gesù è affidabile. La vita cristiana è in fondo una vita umana, come tutte le altre, nutrita da una parola, che spinge a trovare il senso di ogni gesto non solo nelle logiche buone e belle dell’intelligenza e della morale, ma nella logica straordinaria del Vangelo che chiama a sperare in un amore traboccante per far rinascere continuamente la vita, che riempie le reti rimaste vuote. Luca ci racconta che tutti vengono presi dallo stupore e che Simone si getta ai piedi di Gesù riconoscendosi peccatore. Nel fare questo non esprime sensi di colpa e nemmeno il rammarico per la propria imperfezione, ma piuttosto parla della dismisura fra ciò che comprende di sé e ciò che viene da Dio (una dinamica simile si può notare anche nel brano tratto dal libro del profeta Isaia, che costituisce la prima lettura, e anche in quello che Paolo dice di sé nella seconda lettura). Di fronte ad una tale sovrabbondanza di vita, ci si può solo riconoscere indegni.

La risposta di Gesù (non temere!) è tipica dei racconti di vocazione, nei quali chi annuncia, davanti al turbamento iniziale di chi deve ascoltare, invita a non temere e rassicura (nel Vangelo di Luca le stesse parole si trovano per esempio nel racconto dell’annunciazione a Maria). Simone però non è stato chiamato a fare niente. Sembrerebbe allora che Gesù veda proprio nel fatto che Simone si è fatto servo e ascoltatore della Parola, al punto da riconoscere la propria indegnità davanti ad essa, una chiamata del Padre, un moto dello Spirito. Forse Gesù completa solamente la vocazione di Simone: sarai pescatore di uomini. E lo sarà davvero, proprio a partire dalla consapevolezza della sua fragilità, perché questa gli impedirà di mettere se stesso al posto della Parola e lo spingerà solo ad ascoltare e seguire. Vivendo così sarà pescatore di uomini e donne, perché quando si vive per la Parola molti vengono presi all’amo della bellezza del Vangelo che viene raccontato e, in tutta povertà, vissuto.

La storia della chiesa (tutti questi venti secoli) e la sua stessa esistenza si fondano su questa decisiva dinamica (di cui anche il brano della prima lettera ai Corinzi ci parla): l’incontro con Gesù e il riconoscerlo come Signore non ci rende perfetti, anzi fa più acuta la consapevolezza delle nostre mancanze, facendoci allo stesso tempo capaci di testimoniare la sua eccedente potenza di vita proprio a partire dalla nostra debolezza. Nessuno annuncia ciò che l’ha già salvato e che non ha più bisogno di ascoltare, ma piuttosto annuncia ciò su cui fonda il proprio vivere, ciò in cui spera, ciò su cui è pronto a gettare le reti e che lo fanno scoprire sempre inadeguato. È così da quel giorno sul lago, quando le barche quasi sono affondate, è stato così quando i diversi testimoni (sarebbe bello vedere, scorrendo il testo di Paolo, quanti e quali sono i testimoni autorevoli su cui si fonda la vita della chiesa e che noi riduciamo erroneamente solo a dodici!) hanno raccontato la resurrezione di Cristo, è così adesso ed è vero per ciascun credente, chiamato allo stesso cammino di Simone. Non ci è chiesto che ascoltare e seguire, perché altri possano vedere la stessa eccessiva bellezza che abbiamo visto noi e davanti alla quale, con loro, ci inginocchiamo ancora oggi.

28 - Gen - 2022

IV Domenica T.O. anno C

Tempo Ordinario

IV Domenica Tempo Ordinario

Anno C

(Ger 1,4-5.17-19   Sal 70   1Cor 12,31-13,13   Lc 4,21-30)
Domenica 30 Gennaio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

C’è una resistenza profonda che contrasta la parola, contro cui il profeta viene istruito (prima lettura tratta da Geremia) e contro cui Gesù vuole ammonire i suoi concittadini (nel brano del Vangelo che riprende e prosegue quello di domenica scorsa). La parola non incontra sempre l’ascolto, più spesso incontra argomentazioni contrarie, sospetti, manipolazioni, deprezzamento, tutte strategie che servono per giustificare la propria volontà di non ascoltare. Togliere credibilità a chi parla è il primo modo per non ascoltarlo e, se questo alcune volte è doveroso (come quando parlano come esperti coloro che non lo sono), altre volte è estremamente pericoloso, persino terribile quando chi parla lo fa secondo la logica di Dio.

Dio conosce le resistenze e così istruisce il profeta a non spaventarsi: la parola va detta anche là dove troverà solo opposizione e guerra, perché è l’unico modo per dare vita a coloro che non vogliono ascoltare. Da parte sua Dio promette a colui che manda di renderlo un muro di bronzo, una fortezza: Dio non promette l’assenza di guerra, non impedisce l’assedio da parte di chi non vuole ascoltare la parola, si schiera però dalla parte del profeta, promettendogli che non sarà vinto. La parola resterà ferma, offerta irrimediabilmente, anche di fronte all’odio.

D’altra parte è una parola che sorge dall’amore, detta per amore, tesa al bene di coloro cui è rivolta, e quindi non può essere vinta. Nel testo famosissimo della prima lettera ai Corinzi (seconda lettura), Paolo ci descrive l’amore proprio così, capace di scusare, credere, sperare e sopportare tutto. L’amore può non essere accolto, può scatenarsi una guerra contro chi offre l’amore, ma l’amore resta, invincibile per sua natura, perché non cerca il proprio interesse, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, non si vanta, non è invidioso, ma è solo benevolo e paziente (così dovremmo tradurre magnanimo), capace solo di fare il bene e di attendere sempre una novità buona e sorprendente in coloro che ama (la pazienza non è mera sopportazione ma la speranza nel cammino altrui, la fiducia in loro). L’amore non può essere vinto, resta solo quello alla fine e dà senso a tutto ciò che facciamo e siamo.

Certo non è facile riconoscere la parola che viene da Dio e, fragili e feriti come siamo, non è facile nemmeno riconoscere l’amore. Forse le parole di Gesù nel Vangelo possono aiutarci. Prende infatti Elia ed Eliseo come esempio di profeti che non hanno potuto fare il bene del proprio popolo, ma quello di stranieri, perché questi (diversamente dagli israeliti) non si sono chiusi di fronte alle loro parole. Mentre Gesù racconta questo però – oltre a metterci in guardia dalle resistenze che ciascuno di noi porta dentro – ci insegna a riconoscere la parola e l’amore che vengono da Dio: essi sfamano (come Elia con la vedova) e guariscono (come Eliseo con il lebbroso). L’amore che viene raccontato e trasmesso dalla Parola di Dio – e ogni amore possibile – si riconosce così: nutre e libera. Il resto è solo un bronzo che rimbomba o un cembalo che strepita. A noi scegliere a cosa resistere e da cosa farci conquistare.

21 - Gen - 2022

III Domenica T.O. anno C

Tempo Ordinario

III Domenica Tempo Ordinario

Anno C

(Ne 8,2-4.5-6.8-10   Sal 18   1Cor 12,12-30   Lc 1,1-4; 4,14-21)
Domenica 23 Gennaio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La chiesa è il corpo di Cristo (la bellissima seconda lettura tratta dalla prima lettera ai corinzi) perché, se è docile allo Spirito, ognuno dei suoi membri diventa membro di Cristo. Lo Spirito di lui è capace di fare di quello che ciascuno e ciascuna è un dono per la chiesa intera, un dono che nessun altro può essere e di cui tutti hanno bisogno: nessun membro del corpo può fare a meno delle altre membra e non si può dare un corpo sano e bello se non nella varietà delle membra. In pochi tratti, con un paragone che era usuale al tempo di Paolo per i soggetti collettivi, abbiamo così un’immagine vivida della chiesa: siamo corpo di Cristo (e così lui può essere visto e incontrato nel mondo) se siamo gli uni per gli altri.

La prima lettura ci guida a comprendere la radice di questo dono rileggendo la storia di Israele. Dopo il ritorno dall’esilio i problemi (interni ed esterni) non erano stati pochi, grazie alla guida di Esdra e Neemia il popolo è riuscito a completare la ricostruzione e (nel capitolo settimo) si ha un elenco di quanti erano tornati e costituivano il resto da cui Israele doveva ricominciare. Tutti questi non sono però ancora un popolo, perché questo accada occorre proclamare la Parola di Dio e spiegarla adeguatamente in modo che tutti quelli che possono, donne e uomini, comprendano. Dopo un lungo silenzio, dopo lo straniamento dell’esilio, dopo lunghi anni in cui l’esperienza dei padri rischiava di diventare uno sfumato ricordo e la vita del popolo si era frammentata nei tanti israeliti mescolati agli abitanti della Mesopotamia, ora, in patria, terminata la ricostruzione, la Parola di Dio viene solennemente e a lungo perché gli israeliti rinascano come popolo. Un lungo giorno per riascoltare l’amore di Dio, per ricordarne i gesti, per ridirsi la salvezza attesa, per ritrovarsi come un solo popolo di donne e uomini capaci di intendere ciò che Dio dice. Il dono di essere un popolo solo, un corpo solo (come dice Paolo per la chiesa), sorge allora proprio dall’ascolto della Parola che lo Spirito e l’ingegno umano (nei primi versetti del Vangelo troviamo il prologo di Luca in cui spiega il suo impegno nel ricercare e scrivere un racconto ordinato su Gesù) hanno scritto perché le donne e gli uomini di tutti i tempi potessero essere messi di fronte agli eventi della salvezza e potessero credere nel Signore.

Gesù a Nazaret, all’inizio del suo ministero, va in sinagoga e, come al solito, si alza a leggere. Comincia la novità della sua vita dalla Parola che Dio ha detto al suo popolo. Di fronte al brano del profeta Isaia che legge e ascolta con tutti gli altri, dice l’essenziale: oggi si è compiuta la parola che avete ascoltato. Infatti la Parola, che Dio dice e ci consegna nella Scrittura e nella vita stessa del popolo che se ne nutre, si compie quando viene ascoltata. Ogni parola è fatta per chi deve ascoltare, è qualcosa di rivolto: ogni parola rivela il cuore di chi parla ma proprio perché ne rivela l’apertura all’altro. Per questo ogni parola ha senso solo quando viene ascoltata. Oggi, insieme, come un corpo solo, ascoltiamo questa parola di Isaia che Gesù ha riconosciuto come il cuore del proprio ministero e mettiamolo al cuore del nostro vissuto: lieto annuncio per i poveri, vista per i ciechi, liberazione per i prigionieri e gli oppressi. Ascoltiamo ciò che Dio dice perché, sotto la potenza dello Spirito, si realizzi in noi e intorno a noi. E la festa sovrabbondante descritta da Neemia potrà cominciare.

14 - Gen - 2022

II Domenica T.O. anno C

Tempo Ordinario

II Domenica Tempo Ordinario

Anno C

(Is 62,1-5   Sal 95   1Cor 12,4-11   Gv 2,1-11)
Domenica 16 Gennaio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il vino è l’elemento centrale della festa. Ovviamente si tratta di un dato culturale, ma nella Scrittura è indubbiamente così. Non per niente nel gesto che Gesù ci lascia per renderlo presente, insieme al pane da condividere (per avere vita e forza) c’è il vino da gustare insieme (per avere gioia). Ma se il vino è l’elemento centrale della festa, non è possibile che essa continui quando il vino finisce. Questa è la situazione in cui si trovano Maria e Gesù durante il matrimonio al quale stanno partecipando a Cana di Galilea: è finito il vino. Tutta l’esultanza, la bellezza, l’allegria che ci viene descritta dalla prima lettura in cui il popolo è indicato come la gioia e la delizia del Signore sembra svanire: la festa viene bruscamente interrotta, perché non è più possibile sentire e condividere la gioia.

Spesso la chiesa si sente così. Spesso l’umanità si sente così. Come se non ci fosse più motivo per festeggiare, come se mancasse la possibilità dell’ebrezza che ci fa leggeri e pronti ad affrontare la vita con la sua bellezza e la sua fatica. Manca il vino, mancano la fiducia e la speranza. Maria conosce le fatiche del popolo di cui fa parte, vede che non può rallegrarsi se Dio non lo visita, se il popolo stesso non diventa una magnifica corona in mano a Dio (per usare le parole della prima lettura) e se Dio non gli dona la giustizia e non lo salva. Lei percepisce tutta l’amarezza e lo sconforto di fronte all’impossibilità di fare festa e di rallegrarsi: un’impossibilità di gioire ancora più drammatica quando ci colpisce in luoghi che per loro natura, come la gioventù, le nozze, ma anche il servizio ecclesiale e le relazioni, sono fatti per rallegrarsi. E così la festa minacciata dei due sposi di Cana diventa per lei un segno evidente della minaccia che incombe sul popolo intero e su ciascuno. Va da Gesù – certa che lui avrebbe capito – e lo mette di fronte ai bisogni di quelli per i quali è venuto: non hanno più vino. La tua gente, il popolo di Dio, è privato della gioia.

Lei individua – secondo il racconto di Giovanni – il momento opportuno perché Gesù inizi la propria missione. Lui non è ne convinto in un primo momento (non è ancora giunta la mia ora) ma poi cambia idea e dall’acqua ottiene del vino, vino buono (come il competente maestro di tavola sottolinea). Proprio quando la festa sembra non essere più possibile, quando ci sembra (per esempio) di non riuscire più ad essere chiesa o ad esserlo in modo credibile, ecco che Dio dona il vino buono, perché lui stesso vuole rallegrarsi per la giustizia del suo popolo e per la sua salvezza. Questo vino buono può essere gustato in molti modi: nell’ascolto della Parola di Dio, nel pentimento e nel desiderio di conversione, nella cura sincera e appassionata per gli altri e per la vita, ma forse, lasciandoci guidare dall’insieme delle letture di questa seconda domenica del tempo ordinario, possiamo dire che questo vino buono nella chiesa si può gustare anche nei doni che gli altri ricevono e con i quali ci nutrono.

La seconda lettura infatti (celeberrimo brano della prima lettera ai Corinzi) ci parla della chiesa come di un corpo le cui membra siamo noi, ciascuno e ciascuna di noi che riceviamo una manifestazione particolare dello Spirito per far vivere tutto il corpo. Il dono fatto a una o a uno (e non ci sono doni più importanti di altri nemmeno quando prendono la forma ministeriale) è per tutti. Quello che ci serve per vivere, quello che serve a me per vivere non è in mio possesso, ma è stato dato ad altri e ad altre perché io possa avere la vita grazie e a loro (e loro grazie a me e al dono che Dio ha dato a me perché arrivi a tutti). Il vino buono nella chiesa può essere dunque questo reciproco offrirsi la vita, questa continua ricerca di ciò che Dio ci offre nelle sorelle e nei fratelli e questo continuo voler dare loro (perché vivano di più e meglio) quello che Dio ha dato a noi. È la gioia della comunione, della vita condivisa e della presenza dello Spirito, onorato proprio nel riconoscere e nell’accogliere i doni unici e sorprendenti che egli distribuisce.

Quando ci sembra che il vino sia finito, dunque, ricordiamoci che non siamo soli e che in molti luoghi diversi lo Spirito sta offrendo in qualcuna o in qualcuno proprio il dono che ci serve per ricominciare, rallegrarci e gridare col salmista: Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore da tutta la terra, cantate al Signore, benedite il suo nome!

07 - Gen - 2022

Battesimo del Signore

Battesimo Gesù

Battesimo del Signore

Anno C

(Is 40,1-5.9-11   Sal 103   Tt 2,11-14;3,4-7   Lc 3,15-16.21-22)
Domenica 9 Gennaio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La solennità del Battesimo del Signore fa da cerniera fra il tempo ordinario che comincia subito dopo e il tempo di Natale che si chiude oggi. Abbiamo atteso una nascita da cui ciascuno potesse rinascere e ora si apre davanti a noi il tempo in cui questa rinascita si deve dispiegare.

Siamo ancora dentro il tempo di Natale. Un bambino in una mangiatoia davanti ai pastori, un bambino e sua madre davanti ai sapienti venuti dall’Oriente e ora un uomo in fila con i peccatori di Israele: così è apparsa la bontà di Dio e il suo amore per tutti gli esseri umani (seconda lettura tratta dalla lettera a Tito). Il Figlio di Dio nato da Maria, dal primo momento della sua vita fino all’ultimo, mostra la vicinanza di Dio e il suo perdono. Il premio che il Signore porta, la ricompensa, la meta che ci aspetta alla fine di una strada che ci viene spianata davanti (prima lettura tratta dal profeta Isaia già ascoltata durante l’avvento) è proprio la cancellazione di ogni debito e la guarigione di ogni ferita. Dio non è venuto nel mondo per un giudizio da cui non è in grado di salvarsi nessuno, ma è venuto per salvarlo dalla miseria che conosciamo fin troppo bene dilagare dentro di noi e intorno a noi.

E così il Signore Gesù inizia la sua missione immergendosi nelle acque sporche del male degli esseri umani. Non fugge le nostre fatiche e le nostre impurità, si immerge con noi, si fa toccare, si fa bagnare e rivestire di ciò che ci appesantisce e con noi aspetta che il fiume porti via tutto lasciandoci puliti e rinvigoriti. Viene, adesso, il momento di prendere sul serio il perdono di Dio, il suo amore che tutto rinnova e ringiovanisce. Viene, oggi, il momento di immergersi pieni di misericordia nel male fatto da noi e dagli altri, dentro le stesse acque, senza separazioni né classifiche di bontà o purezza. Stare lì in mezzo, autentici e fragili, finché la voce del Padre, che risuona nelle Scritture, nei fratelli e nelle sorelle, nella storia che diventa parola dello Spirito, ci dirà chi siamo.

Gesù, fermo in mezzo alle acque condivise con i peccatori, sa di essere il figlio amato in cui Dio pone il suo compiacimento. Non dimenticherà più che Dio si è compiaciuto di lui mentre si faceva piccolo, mentre si poneva in ascolto, mentre si faceva compagno di chi si umilia e soffre. Tutta la vita non farà altro che questo, non cercherà altro che la compagnia dei miseri per ascoltare sempre la voce del Misericordioso che lo dichiara figlio e amato. Oggi è solo il primo di una lunga serie di giorni. L’ultimo giorno, sulla croce, la voce del Padre tacerà, ma i miseri che lo circondano gli ricorderanno chi è e cosa il Padre vuole.

Nelle stesse acque, con lui di fianco, animati dal dono dello Spirito che ha animato lui, possiamo riprendere il cammino, di fianco agli esseri umani affaticati e impoveriti in mille modi, certi di ricevere un perdono che non meritiamo, lasciando che sia ciò che il Padre dice a decidere chi siamo. Abbiamo davanti tutto l’anno per vivere questo mistero: comincia oggi il tempo ordinario, senza feste ed eccezioni, fatto solo di vita, perché l’amore di Dio si manifesti e agisca ovunque, nel mezzo delle acque in cui tutti annaspiamo.

05 - Gen - 2022

Epifania del Signore

Epifania del Signore

Anno C

(Is 60,1-6   Sal 71   Ef 3,2-3.5-6   Mt 2,1-12)
Giovedì 6 Gennaio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa
Quale è la via che conduce a Cristo Signore? I magi ci stanno davanti come segno del cammino di ciascuno. Essi hanno gli occhi piantati al cielo, scrutano le stelle, fanno calcoli: bellezza e scienza sono ciò che li nutre, li entusiasma, fino a far intraprendere loro un viaggio nel quale non c’è alcuna certezza. Per arrivare ad incontrare Cristo bisogna abituarsi a nutrire il cuore e la mente con ciò che vale, alzare lo sguardo dalle piccinerie veloci e dalle proposte violente o volgari, alzare lo sguardo verso le stelle: verso la bellezza della natura, dell’umanità, dell’arte, delle parole, del bene condiviso. Alzare lo sguardo e farsi domande: studiare, mettere alla prova, discutere, indagare la realtà. Bellezza e scienza aprono il cuore dei magi e li mettono sulla strada.

Scrutare la bellezza e indagare criticamente la realtà però rende umili, accorti di tutto ciò che non si conosce, e così i magi si fermano da Erode e interrogano i sapienti di Israele. La loro scienza e la bellezza della stella li ha condotti in una terra di cui bisogna imparare la storia, la logica, le promesse che questo popolo dice di aver ricevuto da Dio. I sapienti arrivano, interrogano e imparano. Nel cammino che ci conduce ad incontrare il Signore, c’è sempre un momento in cui il nostro cuore, attratto da ciò che è bello e in ricerca di ciò che comprendiamo vero, sente il bisogno di essere istruito in ciò che Dio ha detto e operato: non si può incontrare il Signore se non immergendosi nelle Scritture, ascoltandone la spiegazione, obbedendo a ciò che offrono.

E l’ascolto della Scrittura conduce i magi al luogo dove sta solo un bambino con sua madre, una madre come tutte le altre che ha partorito un bambino come tutti gli altri. Che cosa permette di riconoscere in questo bambino colui che va adorato? La bellezza, la scienza e la Scrittura hanno portato i magi al momento decisivo, quello in cui il loro cuore così aperto e istruito è messo alla prova: sapranno riconoscere il re in questo bambino lontano dai palazzi, dai potenti e dalla ricchezza?

Siamo arrivati con loro di fronte all’umanità fragile e indifesa di Gesù: solo un bambino e una donna, tutto ciò che il mondo ritiene debole e secondario. Davanti a questa fragilità assoluta, esposta ad ogni violenza e ad ogni prepotenza, occorre riconoscere Dio stesso, che mai viola nessuno né mai si comporta come i potenti della terra. La carne di un bambino mostra la mitezza e la speranza di Dio, il suo consegnarsi a coloro che ama nell’attesa di stringere con loro un’alleanza di vita. I sapienti pagani lo comprendono: il mistero del mondo è un mistero di mitezza e di vita condivisa, niente meglio di un bambino in braccio a sua madre può mostrarlo di più.

Siamo in viaggio, come i magi. Cosa andiamo a vedere? Quale ricerca abita il nostro cuore? Perché solo l’ardente desiderio di ciò che è piccolo, mite e amante, potrà permetterci di riconoscere in questo bambino il re venuto a salvarci, il Figlio di Dio in mezzo a noi.

31 - Dic - 2021

II Domenica dopo Natale

Presepe dal Messale

II Domenica dopo Natale

Anno C

(Sir 24,1-4.12-16   Sal 147   Ef 1,3-6.15-18   Gv 1,1-18)
Domenica 2 Gennaio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

A noi che sembriamo così smarriti e così incapaci di sapere cosa sia bene e come farlo, la parola di questa domenica (la prima lettura tratta dal libro del Siracide come anche il Vangelo) ci dice che la Sapienza di Dio, la Parola di Lui, il Figlio, abita in mezzo a noi, ha posto la sua dimora in mezzo a noi, anzi ha messo addirittura le sue radici in mezzo al popolo. Sembra che la chiesa, il popolo di coloro che credono nel Vangelo e che fanno del Vangelo tutta la propria sapienza, sia una terra fertile nella quale Dio stesso affonda le sue radici per piantarsi in mezzo agli esseri umani, in mezzo a tutti i popoli, e offrire frutti buoni di ogni tipo.

Il dono di riconoscere il Figlio di Dio, la sua Sapienza eterna, nella vita di Gesù non può che essere una benedizione sovrabbondante riversata anzitutto sugli altri: su chi non crede, su chi nemmeno sa riconoscere il bene che gli viene fatto, su chi soffre troppo, su chi non ha possibilità di vita. Aprire gli occhi (così la lettera agli Efesini) sulla speranza cui siamo stati chiamati e su quale sia il tesoro dell’eredità che ci attende spinge a vivere come Gesù, perché la luce vera (la sua luce) illumini ogni angolo del mondo in cui ci è dato di arrivare.

Questo bambino che ci è donato non è da guardare. Come ogni bambino, anche questo è da crescere, perché nel mondo prenda il suo posto. Riconoscerlo significa scegliere di vivere ciò che lui ha scelto, fare nostra la sua Sapienza, fare della nostra carne il luogo dove lui abita e del nostro essere chiesa la terra dove lui mette radici. Non raccontiamo una favola e nemmeno ricordiamo il Natale per consolarci di come Dio ci voglia bene né per commuoverci difronte al fatto che ha voluto farsi bambino (si può anche fare ma non mi sembra sia l’essenziale): celebriamo il Natale per ricominciare ad essere, con rinnovata e adulta consapevolezza, la carne in cui la gloria di Dio (il suo amore e la sua stessa vita) può essere vista e portare luce là dove nessuna altra luce può o riesce ad arrivare.

31 - Dic - 2021

Maria Santissima Madre di Dio

Madre di Dio - p.M.Rupnick

Maria Santissima Madre di Dio

Anno C

(Nm 6, 22-27   Sal 66   Gal 4,4-7   Lc 2,16-21)
Sabato 1 Gennaio 2022

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Per antica tradizione la Festa del Natale (come quella di Pasqua) dura per otto giorni: se ascoltiamo attentamente la preghiera eucaristica sentiremo che siamo radunati anche oggi nel giorno in cui Maria ha partorito al mondo il Salvatore. Il giorno di Natale arriva fino a questo ottavo giorno e così ci conduce direttamente nel nuovo anno. Come ogni nuovo inizio, ma in modo infinitamente più ricco, la nascita di Gesù è colma di promesse. Il Vangelo ci parla dei pastori che trovano il segno loro indicato e per questo lodano e glorificano Dio: proprio perché hanno trovato ciò che era stato detto loro. Dio, fedele e veritiero, ha concesso a loro, sempre lontani dai luoghi del sacro perché sempre a contatto con gli animali, di vedere la speranza di Israele. Chi sta intorno si stupisce di tutto ciò che accade.

Maria, da parte sua, custodisce ciò che accade meditandolo nel cuore. Ha un bambino piccolo da accudire, il primo, è lontana da casa: non ha tempo né forze, ma comunque custodisce e medita nel cuore ciò che accade intorno al bambino che le era stato promesso. Osserva anche lei il compiersi delle parole dell’angelo, imprime nella memoria gli avvenimenti e le sensazioni, medita alla luce della Parola di Dio, aspetta di comprendere e intanto si prende cura di ciò che le è affidato e che promette di essere il nuovo inizio per tutti. Maria non medita né custodisce tutto, medita e custodisce ciò che viene da Dio, ciò che riguarda le sue promesse, ciò che promette la vita. Non perde tempo e forze a rimuginare su ciò che non merita: il piccolo che continuamente le chiede cibo, calore, forze, non glielo permette. Benedetti i figli che ci insegnano a curarci solo della vita e di Dio senza darci tempo per altro!

E in questo bambino ogni nuovo inizio prende forma. In lui ci è dato di essere figli (i bellissimi versetti della lettera ai Galati), capaci cioè di rendere presente il Padre ovunque, somigliandogli e comportandoci come lui, in questo bambino ci è data la custodia e la benedizione che all’inizio di un nuovo anno ci allarga il cuore (libro dei Numeri). I giorni che ci stanno davanti non sono abbandonati al caos e alla solitudine, ma nemmeno sono magicamente ordinati perché vada tutto bene: i giorni che abbiamo davanti sono affidati al nostro amore e alla nostra intelligenza, dentro le vicissitudini spesso aspre e persino impossibili della storia, ma allo stesso tempo sono giorni in cui la pace di Dio sarà sempre possibile là dove torneremo a ciò che ci è stato mostrato in questo giorno e dove saremo capaci di custodire e meditare ciò che ci è stato donato. Allora, qualunque sia la situazione, la luce di lui splenderà sui nostri volti, così come sarà possibile, la terra conoscerà la via di Dio e tutte le genti la sua salvezza.

24 - Dic - 2021

Santa Famiglia di Gesù Maria e Giuseppe

Santa Famiglia

Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

Anno C

(1Sam 1,20-22.24-28   Sal 83   1Gv 3,1-2.21-24   Lc 2,41-52)
Domenica 26 Dicembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La domenica della Santa Famiglia quest’anno ci permette di contemplare il mistero della crescita. Ci dice la seconda lettura (tratta dalla prima lettera di Giovanni) che già siamo figli di Dio, ma allo stesso tempo siamo dentro un cammino perché ciò che siamo non è stato ancora rivelato e perché un giorno, alla fine del cammino, saremo simili al Padre. Essere figli di Dio, infatti, significa crescere, diventare adulti, responsabili, capaci di rendere presente il Padre, di comportarsi come lui ovunque, soprattutto là dove il Padre non si vede (sulla croce non farà questo Gesù proprio nel momento dell’abbandono?).

Essere figli di Dio non vuole dire pensarsi coccolati e protetti come i bambini, ma essere responsabili, vivendo secondo la sua logica, di ciò che Dio ci consegna: la vita, l’amore, i doni, le relazioni…ogni cosa. In questo percorso (di adultizzazione) le relazioni e in primo luogo la famiglia, nella quale si stringono le relazioni primarie, sono decisive. Non si può diventare liberi e adulti, pronti a vivere i doni ricevuti secondo la logica di Dio, senza essere aiutati da altri a crescere: senza essere introdotti alla libertà e lasciati liberi, senza che vengano vissuti legami profondi che diano la speranza di tessere legami profondi, senza che Dio ci venga fatto conoscere e che la vita di qualcuno ci mostri che conoscerlo e amarlo fa vivere di più e meglio.

Anna (prima lettura dal primo libro di Samuele) porta suo figlio al tempio. L’aveva voluto per dare senso alla propria vita (in quella cultura una donna aveva senso solo se partoriva un figlio) ma lo ha cresciuto perché diventasse se stesso, libero e pronto ad accogliere ciò che Dio gli avrebbe un giorno sussurrato. Maria e Giuseppe hanno portato Gesù in pellegrinaggio a Gerusalemme. Si fidano di lui tanto da farlo viaggiare separato da loro (pensavano fosse fra conoscenti e amici). Si spaventano, come comprensibile, quando non lo trovano, ma tornando indietro lo cercano là dove, probabilmente conoscendolo, sapevano di trovarlo. E infatti Gesù gli dice: non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre? Non mi avete insegnato voi la Torah, la preghiera, l’intimità con Dio? Dove dovevo essere? Ho preso il mio posto alla ricerca del Padre.

E quel giorno Maria e Giuseppe passano dall’angoscia per il bene del loro bambino alla consapevolezza di aver svolto il proprio servizio: hanno di fronte un giovane uomo, colmo di sapienza e di grazia. Rimane solo da lasciare che il tempo passi e il suo cammino si fortifichi. Come a loro accade in ogni famiglia (e certamente dovrebbe accadere in ogni famiglia cristiana): di fronte alla libertà dei figli e delle figlie, spesa per il bene, per la vita e per conoscere (in qualsiasi modo Dio disponga) l’amore di Dio, i genitori possono abbandonare ogni angoscia e continuare il cammino insieme a questi giovani adulti che, proprio come loro, sono sulla strada per diventare figli di Dio, capaci di renderlo presente nel mondo, con una sapienza cui nessuno potrà resistere. È un giorno di grande pace e di grande speranza.

23 - Dic - 2021

Natale del Signore

Presepe dal Messale

Natale del Signore

Anno C

(Is 52,7-10   Sal 97   Eb 1,1-6   Gv 1,1-18)
Sabato 25 Dicembre 2021

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Una luce piccola illumina solo lo spazio di un passo. Una vita piccola si mostra timidamente: un movimento debole, un pianto, un sonno leggero. Il mistero del Natale forse sta tutto qui: Dio si rivela umile come difficilmente noi l’avremmo immaginato. Tace di fronte alle incomprensioni delle persone, aspetta di fronte alle immaturità, frena la mano davanti alle violenze che meritano vendetta. Sta di fronte a noi come stanno i neonati, che tutto attendono e vivono solo di ciò che ricevono.

Eppure Dio è la fonte della vita, è il Grembo sempre gravido capace di tenere dentro tutti e di far vivere tutto: come può farsi bambino bisognoso? Forse il mistero del Natale ci rivela proprio che non si può mettere al mondo nessuno (e Dio mette al mondo ogni cosa e ogni persona che esiste) senza consegnarsi a chi si mette al mondo, senza smettere di custodire e nutrire, senza smettere di sperare che viva e che ami. Forse mettere al mondo e farsi piccoli di fronte ai propri figli sono un unico mistero. E così non è più tanto assurdo che Dio si faccia bambino, in attesa, bisognoso, piccolo. Chiunque ama, soprattutto chi ama quelli che ha messo al mondo, sa di essere sempre in attesa della felicità di chi ama, sempre bisognoso della loro bellezza, sempre piccolo di fronte alla loro libertà di rispondere o meno all’amore.

In fondo ogni amore è una consegna di sé. Anche per Dio è così. Si mette fra le braccia di quelli che ama, si affida a loro perché lo nutrano e lo facciano crescere, gli insegnino la vita e la Torah. Di fronte a questa debolezza tenera che chiede tutta la nostra attenzione e il nostro vivere – come ogni neonato chiede sempre – possiamo decidere se aprire le braccia e custodire o se abbandonare, facendo del Natale una specie di vacanza invernale, un momento di folklore o – peggio – uno strumento di identità culturale da contrapporre ad altre identità culturali.

Nasce un bambino. Nasce Dio in un vissuto umano. Una luce piccola. Una vita fragile. Si scopre la radice profonda di ogni esistenza umana e nella stordente semplicità di questo momento noi possiamo vedere e scegliere la logica della vita, della storia e del mistero stesso di Dio: una consegna umile fra le braccia di quelli che amiamo per poter condividere tutto con loro. Il Verbo di Dio si è fatto carne, l’Amore di Dio si è fatto carne e noi abbiamo contemplato tutto il suo splendore. Uno splendore così piccolo da non poter essere soffocato da alcuna notte.