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24 - Mar - 2020

Annunciazione del Signore

Annunciazione

Piccolo Eremo delle Querce

Annunciazione del Signore

(Is 7,10-14; 8,10   Sal 39   Eb 10,4-10   Lc 1,26-38)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il 25 marzo, nove mesi prima del Natale, la chiesa celebra l’annunciazione del Signore a Maria, ovvero il momento del concepimento di lui nel grembo di Maria. Impossibile soffermarsi adeguatamente sul mistero dell’Incarnazione in queste poche righe, quindi preferiamo soffermarci su Maria che Luca tratteggia in questo brano non come la madre, ma come la discepola. L’evangelista sembra mettere in scena qui la risposta che Gesù adulto avrebbe dato alla donna che dalla folla dichiarava beata colei che l’aveva portato in grembo e allattato: beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano (Lc 11,28). E per fare questo ci presenta Maria come la discepola che accoglie la parola. Impariamo dunque da lei come essere discepoli del Signore.

Luca ci dice anzitutto che Maria una era vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide. Maria cioè era in quella fase del matrimonio ebraico per cui di diritto si era sposati, ma ancora non si conviveva (passava circa un anno fra i due momenti), per cui era ancora vergine, ma non era più sotto l’autorità paterna. Questa notazione è molto interessante, perché la verginità per una donna sposata ebrea del primo secolo non è affatto un vanto: una sposa ebrea deve generare, quindi la verginità deve essere una condizione da cui essere liberate quanto prima. La verginità non indica nemmeno una maggiore santità o integrità della persona perché avere rapporti sessuali non diminuisce in nessun modo la capacità di amare, anzi casomai è capace di accrescerla. La verginità quindi deve avere un altro significato e in questo caso, da come Maria si comporta decidendo di se stessa senza chiedere niente a nessuno, assume il valore della libertà e dell’indipendenza. Maria si comporta da donna adulta e libera, per questo può stare davanti a Dio che le chiede un’alleanza e rispondere di sì, desiderando (avvenga! in greco è espresso con il verbo ottativo che indica appunto il desiderio) che si compia ciò che le viene detto, aderendo cioè alla parola con tutta se stessa, perché era padrona di tutta se stessa. La verginità assume questo significato perché in quel periodo il marito prendeva possesso della moglie tramite il rapporto sessuale, quindi essere vergini significava non essere possedute. Oggi non è più così, ovviamente, ma questa immagine per noi deve significare la necessità di custodirsi liberi, non posseduti né asserviti ad alcun padrone, per poter accogliere la parola che Dio dice.
La verginità è anche l’obiezione che Maria fa all’angelo di fronte all’annuncio: in tutte le vocazioni importanti chi riceve l’annuncio obbietta a Dio la sua povertà, ciò per cui non è adatto al compito che gli viene chiesto. La verginità non serve per avere un bambino, è come la sterilità, bisogna venirne liberati: per questo è la verginità il contenuto dell’obiezione di Maria. E così questa verginità che Dio fa fiorire, come il deserto che diventa un giardino (perché un grembo verginale è incapace di dare vita), diventa il segno delle povertà del popolo e delle nostre che non sono ostacolo per le meraviglie di Dio, anzi conviene averle ben chiare e metterle davanti a Dio così come sono: riconoscere la nostra sterilità apre allo stupore e alla gioia per ciò che Dio sa operare proprio in essa.
Infine Maria si dichiara serva, cioè consegnata all’opera che Dio vuole compiere, per servire questa opera stravolgerà il suo matrimonio e la sua vita, seguirà il Figlio anche là dove non riuscirà a comprendere ciò che accade, arriverà fino alla croce e al cenacolo nel giorno in cui la chiesa nasce dalla potenza dello Spirito. Come lei, privi di padroni e quindi pienamente capaci di disporre di noi stessi e consapevoli della povertà che ci invade, possiamo accogliere la parola di vita che Dio pronuncia e consegnarci ad essa, così nel nostro vivere il Signore prenderà carne (come è stato per Maria e non certo solo per la gravidanza e il parto). Il Signore allora sarà presente ancora oggi nel mondo affaticato per un nuovo inizio, per qualcosa di mai visto, come il bimbo primogenito di una vergine, un inizio assoluto di libertà, povertà e dono di sé.
21 - Mar - 2020

IV Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

IV Domenica di Quaresima (A)

(1Sam 16,1.4.6-7.10-13   Sal 22   Ef 5,8-14   Gv 9,1-41)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

L’anno A propone durante la quaresima le grandi catechesi battesimali del Vangelo di Giovanni, perché la quaresima è il tempo in cui i catecumeni si preparavano (e si preparano) a rinascere nel battesimo, celebrato a Pasqua. In questo momento, in cui non possiamo celebrare, la chiesa intera torna ad essere catecumena, ovvero celebra la liturgia della Parola, prega e poi si ferma, impossibilitata a celebrare il rito eucaristico (i catecumeni non possono assistere all’eucaristia né parteciparvi, quindi escono prima della liturgia eucaristica). Prendiamo allora questo tempo come un’occasione: riscopriamo il nostro battesimo, la nostra appartenenza a Dio, lasciamo che la sua Parola ci guidi e ci trasformi. Lasciamoci aprire gli occhi sul mondo, sulla chiesa e su di noi.

Questa domenica, infatti, abbiamo di fronte la vicenda del cieco nato cui Gesù apre gli occhi con un gesto che ricorda quello della creazione: impasta la terra con la propria saliva e poi la mette sugli occhi del cieco, che deve andare a lavarsi (deve fare anche lui qualcosa dunque) e poi cercare di capire (proprio grazie a coloro che lo interrogano per gettare discredito su Gesù, su quanto accaduto e anche su di lui) che cosa gli è successo e arrivare alla fine del suo cammino a professare la sua fede: “Credo Signore!”.
Il nostro battesimo (la nostra fede) ha le stesse caratteristiche di questa illuminazione: ci accade come un dono, chiede domande, viene messa alla prova, stravolge la vita, ci rende autonomi (niente più elemosina per il cieco) e adulti (risponde da solo non tramite i genitori) per condurci finalmente a vedere e quindi a riconoscere Gesù come Signore.
Nella lettera agli Efesini ci viene indicato chiaramente il passaggio fatto: eravamo tenebra e ora siamo figli della luce. Essere figli della luce, però, porta con sé la necessità di compiere opere degne dei figli della luce e non c’è niente di peggio, sembrerebbe, che dire di vederci mentre si è ciechi, perché non si è disposti a farsi aiutare né a farsi aprire gli occhi e così si brancola nel buio sbattendo ovunque. Allora si finisce per non riconoscere le meraviglie di Dio e nemmeno colui che le compie (come accade ai farisei) e questo, magari, proprio mentre si pensa di servire di Dio, cioè di essere nella luce. Nessuno è al sicuro da questa erronea convinzione di vedere, perché spesso ci si ferma alla superficie, a ciò che ci fa comodo vedere, perché ci aggrada di più o ci inquieta di meno.
Il Signore però ci apre gli occhi in un modo tale da guardare più a fondo, da non fermarci all’apparenza (come rischia di fare Samuele quando è mandato ai figli di Iesse per ungere il nuovo re), ma da andare al cuore, come Dio, delle persone e delle situazioni, guardarle fino in fondo e cogliere alla luce di lui ciò che altrimenti non si vede. Per esempio, guardando il cieco nato o ogni male e sofferenza che colpisce gli uomini potremmo domandarci: chi ha commesso un male perché capiti questo? “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”.  Invece la fede investe il male di una nuova luce: “né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Il male, la sofferenza, anche la morte, agli occhi dei credenti esposti alla luce dell’amore di Dio diventano il luogo in cui Dio opera meraviglie, salva, rinnova, fa risorgere. Dio non vuole il male, né lo manda, né lo permette: lo combatte, piuttosto, e lo vince.
Nessuno si accorge della bellezza del mondo come uno che vede per la prima volta dopo anni di cecità. La fede ci dona la stessa possibilità: spalancare gli occhi su ciò che siamo, sul mondo così com’è, e contemplare la bellezza vivificante di Dio che caccia le tenebre creando continuamente la vita in noi e intorno a noi, sempre e comunque: epidemie e morte compresa. Solo sotto questa luce la morte in croce di Gesù si trasforma nell’esultanza della resurrezione.
Nella quaresima di quest’anno, in cui veniamo privati della vita ordinaria, delle relazioni, della sicurezza economica, della comunità ecclesiale e della celebrazione eucaristica, in cui tanti perdono le persone che amano, in questa quaresima in cui sentiamo la minaccia per la salute e per il lavoro, abbiamo l’occasione – se lasciamo che il Signore Gesù ci apra gli occhi – di vedere le opere di Dio, di scorgere lui nello scorrere del tempo, di andare al cuore di noi stessi e di tutto ciò che facciamo e scegliamo, per portare tutto alla luce e, finalmente, portare frutto in ogni bontà, giustizia e verità.

Siamo in una valle oscura (come la vita appare fin troppo spesso), ma non temiamo alcun male e non manchiamo di nulla, perché il Signore è con noi. La fede ci apre gli occhi e così ci fa sperare e rallegrare di fronte ad ogni avversità e se qualcuno ci dovesse chiedere perché speriamo in un uomo vissuto duemila anni fa e di fronte ad una chiesa a volte così affaticata e deludente (come noi siamo), dovremo solo rispondere: una cosa sola io so, prima ero cieco, ora ci vedo. Vedo che Dio apre gli occhi ai ciechi, preludio della vittoria pasquale sulla morte.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

13 - Mar - 2020

III Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

III Domenica di Quaresima (A)

(Es 17,3-7   Sal 94   Rm 5,1-2.5-8   Gv 4,5-42)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Non potendo celebrare l’eucaristia, forse in questa domenica possiamo fare esperienza di quanto la Parola di Dio ci possa nutrire: in famiglia, nelle comunità religiose o soli (se non si vive con nessuno): possiamo leggere ad alta voce questa parola di oggi, lasciare spazio al silenzio, alla meditazione e poi alla preghiera che segue sempre l’ascolto, magari cantare.

Le letture previste per questa domenica sono ricchissime: il tema dell’acqua (che nella seconda lettura è si ritrova nello Spirito, spesso simboleggiato dall’acqua) le attraversa, inoltre già il brano evangelico chiederebbe da solo mille puntualizzazioni diverse. Credo però sia inevitabile che queste letture suonino forte nel silenzio di questi giorni surreali e spaventati, in cui il mondo intero e il nostro paese in particolare appaiono minacciati da ciò che ha rivelato in un battibaleno tutta la fragilità della nostra vita e dei nostri sistemi sociali ed economici. Ascoltiamo questa parola a partire da qui allora.
La lettera ai Romani, bellissima, ci dichiara una speranza che non delude, perché già facciamo esperienza dell’amore di Dio che fa vivere, dello Spirito cioè che è stato riversato nei nostri cuori (come l’acqua che ricolma un recipiente). Non dobbiamo guadagnarci questo amore, c’è sempre stato, anche quando eravamo (e siamo!) peccatori, anche quando non conoscevamo (o quando non ci interessiamo) a questo amore. La fede, dice l’apostolo, ci fa stare saldi nella speranza della gloria di Dio. Eppure, forse, in questi giorni non ci sentiamo troppo saldi, somigliamo più ad Israele, così come ce lo racconta il libro dell’Esodo: abbiamo fatto le nostre fatiche, ci siamo messi sulla strada della vita e della fede e, alla fine dei conti, ci troviamo davanti ad un deserto senz’acqua. Ci lamentiamo e mettiamo alla prova Dio (lo tentiamo): sei in mezzo a noi, sì o no? Questo che stiamo affrontando, l’ennesima prova nel cammino, e stavolta così dura e minacciosa per tutti, è qualcosa che ci fa sentire Dio lontano? Dove è il suo amore e le sue opere?
Facilmente succede che oscilliamo fra la speranza che Dio sempre ci dona e questa mormorazione contro di lui, davanti alla quale però lui non sfugge, ma si ferma, come Gesù al pozzo. Siamo al pozzo anche noi, sotto la calura, cerchiamo un po’ d’acqua, come la donna samaritana che Giovanni mette di fronte a Gesù in questa pagina celeberrima. E con questa sete, con questa paura, con questo silenzio, sentiamo Gesù chiedere a noi: dammi da bere.
Non è il Dio che vuole preghiere e sacrifici per prendersi cura di noi, tutto ciò che esiste è spinto dal suo amore per condurre tutti alla pienezza della vita, non ha bisogno di essere convinto a fare il nostro bene: se preghiamo, preghiamo per ascoltarlo, per mettere davanti a lui il nostro cuore e per stringerci agli altri, non certo perché altrimenti lui non si cura di noi. Questo Signore non è il capriccioso dominatore degli eventi da tenere buono, è quello che ha sete insieme a noi: dammi da bere, così Gesù alla donna. Viene da scoraggiarsi: tu chiedi da bere a me? Sembra una presa in giro: abbiamo tutto questo bisogno e Dio chiede a noi?
Ma se noi conoscessimo il dono di lui e chi è che ci chiede da bere, avremmo già chiesto. Avremmo chiesto lo Spirito riversato nei cuori per sperare, per sostenere i nostri cari, per crescere nella responsabilità, per lavorare, per inventarci mille strategie per alleggerire chi fatica, ognuno a suo modo, per fronteggiare la sofferenza. Avremmo chiesto lo Spirito che già muove i medici e i sanitari generosi e impagabili, che asciuga le lacrime e sostiene il dolore di chi è nel lutto, che promette resurrezione a chi la perde la vita e che spinge i cuori di molti a pensare come fare del bene, come unirci, come amarci, come far vivere tutti. Avremmo chiesto anche noi questa acqua e con questa acqua avremmo dissetato Gesù presente in quelli che amiamo e in quelli che hanno paura o soffrono e che non possiamo toccare, forse, ma raggiungere sì.
Ma noi non rispondiamo così. Noi facciamo questioni: chi sei tu? Perché un Dio che ci vuole liberi e adulti, coinvolti, generosi, protagonisti, è molto scomodo. Meglio il Dio tappabuchi che ci può lasciare nella nostra irresponsabilità, che non ci chiede di domandarci come vivere al meglio queste tenebre e come migliorare il mondo dopo, come combattere con la stessa forza con cui proviamo a contrastare questa malattia ogni ingiustizia e ogni male. Ma Gesù ha pazienza e vuole insegnarci, come alla donna, a non porre attenzione solo alla sete di questo momento, ma a quella arsura profonda che tormenta il nostro cuore e di cui troppo spesso non ci accorgiamo. Esiste un’acqua che fa passare ogni sete.
Allora dammi quest’acqua: dice la donna (e noi con lei). Ma per averla bisogna andare a fondo, voler mettere la vita intera davanti a Dio (va a chiamare tuo marito! Non ho marito…), perché quest’acqua è Dio presente nel cuore, riversato in noi. E qui poco vale questionare di massimi sistemi, verità morali, questioni sociali o altro: è venuto il momento, faccia a faccia con Dio in questa quaresima così dura (le spighe già biondeggiano: è ora di raccogliere i frutti), per cominciare ad adorare Dio in Spirito e verità, non nelle parole e nei gesti rituali e nemmeno nella correttezza formale o morale, ma con una vita mossa solo dall’amore di lui, con un cuore riempito dallo Spirito e così capace di testimoniare che questo uomo mite che chiede da bere è il messia, una vita capace di far vedere a tutti che Dio è presente e che non c’è bisogno di metterlo alla prova.
Nostro cibo, come per Gesù, deve essere fare la volontà del Padre. Abbiamo tempo e silenzio in questi giorni: domandiamoci come cambiare noi stessi, la chiesa, la società e il mondo perché la volontà di Dio accada e tutti possano vivere. Siamo in quaresima, in questa quaresima così dura, magari è il tempo favorevole per convertici davvero. Il Signore è in mezzo a noi: l’acqua non mancherà.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

06 - Mar - 2020

II Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

II Domenica di Quaresima (A)

(Gen 12,1-4   Sal 32   2Tm 1,8-10   Mt 17,1-9)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La prima domenica di quaresima abbiamo notato il contrasto fra i mitici “progenitori” che divorano anche ciò che non avrebbero dovuto, incapaci di rispettare il proprio limite, e Gesù che sceglie di non mangiare, di non appropriarsi del potere di convincere nessuno né di governare su qualcuno. Gesù accoglie il proprio limite per ricevere la vita, ogni cosa e persino se stesso dal Padre e così vivere di questa relazione.

Nella prima lettura di questa domenica incontriamo Abram, nel momento in cui Dio lo invita a lasciare la sua terra, i suoi parenti e la casa di suo padre. Prima di questo momento Abram ha visto morire il padre e prima di lui il proprio fratello, inoltre Abram non ha figli e sua moglie è sterile. In poche parole la famiglia di Abram è segnata dalla morte. Quando però non si conosce un’altra logica, si può rimanere attaccati anche alla morte. In fondo questa è la mia terra, le mie relazioni, la mia storia. Meglio la morte – sembriamo spesso ragionare così – che perdere ciò che ci dà sicurezza, ciò su cui abbiamo investito e per cui abbiamo sofferto, ciò che è nostro. Si tratta di un altro modo di divorare – come quello di Adamo ed Eva – perché non si riesce ad accettare il proprio limite e il proprio fallimento per aprirsi a rinnovate possibilità di vita, preferendo accanirsi su ciò che porta solo morte ma che ormai abbiamo addentato. Dio, però, provoca Abramo e, con lui, provoca ciascuno di noi: lascia ciò che fino ad ora non ha portato vita e vai altrove perché Dio prepara per te una benedizione che ricadrà su molti.
Anche nel Vangelo si parla di un viaggio, breve e meno impegnativo, ma comunque decisivo. Gesù porta Pietro, Giacomo e Giovanni su un alto monte. Nel deserto è andato solo, ora porta i suoi, porta noi con sé. Vuole che vediamo qualcosa, che scopriamo una bellezza capace di farci abbandonare ogni morte, da farci desiderare di restare lì per sempre (facciamo tre tende), come gli innamorati della prima ora stregati dall’essersi incontrati e reciprocamente scelti. E davanti ai nostri occhi, per un po’, dopo aver lasciato ai piedi del monte le nostre sofferenze e i nostri fallimenti, le malattie, i virus, le minacce di violenza e di ingiustizia, le catastrofi ambientali o qualsiasi altra morte, lontani da tutto questo per qualche momento, Gesù si mostra a noi brillante come il sole e vestito di luce: bellissimo e splendente proprio per l’amore del Padre che lo avvolge. La promessa di vita fatta ad Abramo si compie in lui, anzi in lui prende carne, tanto che la possiamo guardare, ascoltare, vedere realizzata e allo stesso tempo rilanciata, perché in lui tutti gli uomini e le donne sono salvati e chiamati ad una vocazione santa (per usare le parole della seconda lettera a Timoteo).
La luce che fa risplendere lui raggiunge anche noi proprio quando riconosciamo nella vita e nella parola di lui ciò che Dio ama e in cui si compiace. Così vivendo come lui e con lui scopriamo che “egli ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita per mezzo del Vangelo”. Questa è la notizia buona e lieta che abitandoci ci avvolge come una nube luminosa che rischiara le tenebre intorno a noi.
Come il viso dei bambini ci rivela subito se sono felici, se hanno in mente qualcosa, se stanno male o se hanno paura, così il volto di Cristo rivela la bellezza dell’amore che c’è fra lui e il Padre, nel quale ciascuno di noi è invitato ad entrare. Infatti Gesù è stato dato a noi (ascoltatelo!), proprio perché potessimo entrare in questo amore illimitato che ci fa luminosi, capaci di abbandonare la morte o il peccato, per aspettare dal Padre ogni benedizione e sperare persino nella resurrezione.
Col salmista invochiamo allora l’amore del Signore perché ci avvolga come una nube, facendoci vivere come figli suoi, amati, custoditi e in cammino verso una vita tale da non potersi nemmeno immaginare.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

28 - Feb - 2020

I Domenica di Quaresima (A)

Quaresima

I Domenica di Quaresima (A)

(Gen 2,7-9; 3,1-7   Sal 50   Rm 5,12-19   Mt 4,1-11)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La seconda lettura, tratta dal celeberrimo capitolo quinto della lettera ai Romani, mette a confronto due esseri umani che hanno vissuto la propria umanità in modo opposto: da una parte Cristo e dall’altra Adamo, ovvero ciascuno di noi, perché i racconti della Genesi non parlano di una persona storica ma svelano le dinamiche profonde che segnano la vita di ciascuno/a. Paolo dice che alla caduta di Adamo è legata la morte di tutti, mentre dall’obbedienza di Cristo è venuta la vita per tutti. Pur senza addentrarci nelle complesse dottrine che stanno dietro questo brano dell’apostolo, comprendiamo però con chiarezza che c’è un modo di vivere (il nostro) che semina morte e c’è un modo di vivere (quello di Cristo) che dona vita a tutti. Quale sia la differenza fra i due ci viene illustrato nel brano della Genesi (prima lettura) e nel Vangelo, che ora mettiamo a confronto.

In entrambi i testi si ha a che fare con il cibo. L’essere umano è stato plasmato dal suolo bagnato dall’acqua, è stato posto in un giardino per coltivarlo e custodirlo, gli è stato chiesto di dare il nome agli animali (ovvero di usare la parola proprio come Dio per ordinare il mondo) e gli è stato dato in cibo ogni erba verde: l’essere umano non mangia gli animali, dunque, ponendo un limite al proprio potere, e, per espresso ordine di Dio, non può mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dio, che ha creato tutto, limitando il proprio potere e se stesso per fare spazio ad altro da sé, chiede all’essere umano di diventare come lui (a sua immagine e somiglianza), limitando se stesso per fare spazio ad altri esseri viventi. E un limite è anche quello dato al mangiare dell’essere umano: c’è un albero che non può essere mangiato. Adamo ed Eva non possono restare bambini (nudi nel giardino senza distinguere il bene dal male), ma il loro cammino verso la vita adulta e responsabile non dovrebbe passare per la bramosia di divorare mangiando tutto quello che trovano, come se questo potesse garantirgli la vita senza aver più bisogno di Dio. Nel loro atteggiamento riconosciamo immediatamente il nostro mondo: divoratore di risorse, di natura, di aria, di acqua, di esseri viventi e di persone. Gli esseri umani, senza onorare il limite che gli permette di essere come Dio, miti e vivificanti, divorano e distruggono, fino a distruggere se stessi.
Nel Vangelo, all’estremo opposto, troviamo Gesù che digiuna per quaranta giorni e sta nella fame, in mezzo al deserto, avvinto dalla debolezza e dalla solitudine, che sempre ci fanno perdere sicurezza e identità. In questo momento, posto di fronte al proprio limite, viene tentato: perché non vincere il limite e finalmente saziarsi? Perché non cominciare i miracoli procurandosi il pane che poi avrebbe usato per sfamare le folle? Perché non operare qualche spettacolare prodigio davanti agli occhi di tutti, per dimostrare senza ombra di dubbio che Dio è con lui, in modo che tutti credano? Perché non farsi fare re di tutta la terra, in modo da instaurare la giustizia e la pace? Perché non fare tutte queste cose, desiderabili e buone come il frutto che la donna vede appeso all’albero?
Gesù sa che la bramosia, che fa dimenticare il proprio limite, è dannosa anche quando si volge a cose buone (anzi sempre si volge a cose buone: persone, benessere, ricchezze, beni, riposo, salute…) e quindi non la asseconda. Egli sa bene che la via che conduce alla vita è quella che chiede di accettare la fame, il fallimento e l’impotenza, perché solo così si stringono relazioni che non rapinano e non distruggono, ma curano e fanno crescere. L’accoglienza del limite infatti porta con sé il bisogno costitutivo di relazionarsi con Dio e con gli altri: ci serve ogni parola che Dio dice, non vogliamo tentarlo perché se si incrina la fiducia con lui non possiamo vivere, non vogliamo onorare nessun altro, perché lui solo ci custodisce. E stando in questa relazione con Dio, viviamo e facciamo vivere.
Il nostro limite va riconosciuto, dunque, come un dono capace di farci accedere alla vita condivisa con Dio, con gli altri e con il creato: per questo Gesù lo onora fin dall’inizio e lo vivrà fino al paradosso della croce dove fame, fallimento e impotenza saranno portate all’estremo. Cominciamo la quaresima nel deserto, allora, posti di fronte alla nostra fragilità (basta un virus o l’assenza della pioggia a far crollare tutto il nostro sistema), benedicendo Dio per ogni parola che dice, certi che non abbiamo bisogno di metterlo alla prova ma solo di onorarlo per la vita che sempre rinnova per noi e per tutti.
 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani
23 - Feb - 2020

Mercoledì delle ceneri

Mercoledì delle ceneri

Mercoledì delle ceneri

(Gl 2,12-18   Sal 50   2Cor 5,20-6,2   Mt 6,1-6.16-18)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Neanche a farlo apposta, il Vangelo del mercoledì delle ceneri riprende da dove abbiamo lasciato domenica scorsa: così cambia il tempo liturgico (entriamo in quaresima) ma continuiamo a leggere ciò che stavamo meditando.

E notiamo così che, come tutti quelli che amano, Dio non è interessato ai gesti esteriori se a questi non corrisponde il cuore, l’interiorità profonda della persona. Si può vivere un matrimonio formalmente corretto, senza azioni contrarie ad esso, ma senza amare, invalidandolo. Si può essere ministri di Dio, facendo tutto ciò che si deve fare, senza amare la porzione di popolo che si deve servire e quindi senza vivere il proprio ministero. Si può fare qualunque cosa (anche religiosa o ecclesiale, o comunque buona) solo per se stessi, per sentirsi bravi, per sentirsi ammirati dagli uomini, per un benessere psichico o sociale: per stare bene, contenti di sé. A Dio tutto questo, anche fosse fatto di opere di carità e preghiere, non interessa.

Per questo ogni anno, tutta la chiesa celebra un tempo che è sacramento della conversione, perché la vita cristiana non consiste nel compiere gesti corretti o nell’impegnarsi in ciò che si fa (queste cose possono darsi come accessorie), ma consiste piuttosto nel consegnare il proprio cuore a Dio e quindi al prossimo. Il punto è che questa consegna non è mai definitiva, non è mai abbastanza, perché più amiamo Dio e gli altri, più ci accorgiamo della pochezza del nostro amore. Da qui – dall’accorgerci di non amare Dio e gli altri come meritano – viene il dolore cui Dio ci invita nella prima lettura di questo giorno solenne: cosa ci fa lacerare il cuore, piangere e lamentare, se non il prendere coscienza di non corrispondere all’amore di chi ci ama o di chi ci è affidato? Se ci lamentassimo per la nostra imperfezione, se il peccato ci ferisse perché ci umilia e non per il male fatto all’altro, questo pianto non avrebbe alcun valore.
Piangere il peccato porta frutto dentro una relazione in cui vogliamo consegnare a Dio il cuore, dove soffriamo la rottura dell’amicizia con lui e con i fratelli e, così, sofferenti per i legami spezzati non avremo bisogno di farci supplicare troppo a lungo per riconciliarci con Dio.
In questo giorno, brutalmente, come un innamorato sfinito dai tradimenti, il Signore viene a chiederci dove sta il nostro cuore, perché lui non si accontenta di niente di meno. Da dove viene la giustizia che pratichiamo? Dal bisogno di essere ammirati? Dall’abitudine? Dalla paura? Oppure viene dall’amore per cui ci è intollerabile non agire secondo il sentire di Dio? E le opere di carità che facciamo sono un vanto per noi? Ci vantiamo di avere una vita moralmente migliore di altri? Oppure queste opere vengono dalla tenerezza verso la sofferenza altrui, intuendo le contrazioni del grembo di Dio appassionato per i suoi figli? Se così fosse, non solo non le sbandiereremmo, ma ci sembrerebbero ben poca cosa, impossibilitati come siamo ad alleviare tanta sofferenza e tanta ingiustizia.
La preghiera, poi, nasce dal bisogno di ascoltare chi amiamo e di sentirci dire l’amore, o è un’abitudine, un modo per rassicurarci, o – nei confronti degli altri – uno scaricarci la coscienza se non, addirittura, un’ostentazione? E lo stesso vale per il digiuno: privarsi di ciò che serve per vivere può essere un’esaltazione narcisistica di sé, perché ci si sente forti, capaci di vivere senza cibo o affetti o altro. Ma non è questo il digiuno che Dio cerca, perché non nasce dall’amore. Il digiuno che lui ci insegna è quello di cui gli altri non si accorgono (per cui non possono nutrire il nostro ego con la loro ammirazione) e che facciamo non per sentirci autonomi e forti (autocompiacendoci), ma – al contrario – per ricordare a noi stessi che senza Dio e il prossimo non viviamo, perché l’amore e le relazioni sono il cibo che ci sostiene. Come ci sentiamo deboli e malinconici quando non mangiamo (così dovremmo sentirci interiormente senza darlo a vedere), così dovremmo sentirci senza l’amore di Dio e del prossimo: il digiuno serve a sentire nel corpo che non viviamo senza Dio perché il nostro primo bisogno è Dio stesso.
Approfittiamo della quaresima per porre il cuore davanti a Dio, dunque, così come è, nella ricerca ossessiva non di fare cose buone, né di essere migliori degli altri, né di piangere le nostre imperfezioni, ma di consegnare a Dio ciò che siamo e lasciare che lui, riconciliandoci a sé, ci plasmi nella sua amicizia nel segreto del cuore: là dove si gioca ogni amore

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani

21 - Feb - 2020

VII Domenica del T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

VII Domenica T.O. (A)

(Lv 19,1-2.17-18   Sal 102   1Cor 3,16-23)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

La sapienza di Dio non è paragonabile a quella umana: di fronte alla prima quest’ultima, incapace di reggere il confronto, appare come una stoltezza. Così Paolo nella prima lettera ai Corinzi. E in questa domenica, continuando la lettura del discorso della montagna riportato da Matteo, ci viene illustrata di nuovo la sapienza di Dio riguardo l’amore.

Ad una lettura troppo veloce di questa pagina di Vangelo, potrebbe sembrare che amare chi ci ama sia più facile che amare i nemici e che questa ultima forma di amore sia quella più alta, in quanto si amerebbe senza avere nulla in cambio. Ma l’ultima frase del brano può aiutarci a dare una lettura altra: siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste. Dobbiamo chiederci dunque come ama il Padre, se vogliamo davvero capire cosa sta dicendo Gesù. Il Padre certamente fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi (e quindi non ripaga gli uomini in base a quanto lo amano), ma, altrettanto certamente, è anche colui che vuole essere riamato: l’amore che riversa su di noi è gratuito, ma è dato per essere accolto come un dono e ricambiato.
Dio vuole che l’amiamo e così è evidente che solo l’amore ricambiato è quello veramente perfetto. Se questa è la natura dell’amore, non si può permettere a chi amiamo, benché resti libero di non ricambiare, di non rispettarci, per il valore che abbiamo davanti a Dio (non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? ci ricorda la prima lettera ai corinzi) e per la natura stessa dell’amore. Una relazione vissuta lasciandosi umiliare, infatti, non sarebbe amore, perché l’amore chiede la reciprocità: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Anche Dio fa così con noi, già nei comandamenti. Nella prima lettura, tratta dal Levitico, per esempio, vediamo come Dio chiede agli israeliti di corrispondere al suo amore imitando il suo stile: santi come lui, incapaci di serbare rancore e amorevoli, come lui. Non ama disinteressandosi di come viene amato. Tutto il contrario: mostrando l’ampiezza della sua misericordia e l’abbondanza della sua guarigione, aspetta la lode gioiosa dell’essere umano, perché l’amore si compia e il dono giunga a buon fine.
Accade però che l’altro non ci ami, che sia nemico. In questo caso la sapienza degli uomini – ci ricorda Gesù – porterebbe a trattare l’altro come lui tratta noi, da nemico dunque, altre volte porterebbe a fare qualunque cosa pur di compiacere l’altro per renderlo benevolo fino ad umiliarsi, ma in nessuno dei due casi si vive secondo il cuore generoso e amante di Dio. Quindi, che fare?
L’unica possibilità che è data nella relazione col nemico è non opporsi al male, cioè non rispondere a questo con altro male. Fare tutto il bene possibile, beneficare, pregare, lasciarsi prendere ciò che si ha. L’altro non capirà il bene ricevuto, non amerà, ma almeno saremo riusciti (e questo è l’essenziale per chi ama) a fargli del bene, a portargli vita. Per tale motivo non si restituisce lo schiaffo preso: per non fare del male all’altro e per non offenderlo. Per questo ci si lascia prendere qualcosa di nostro (anzi si è contenti di aggiungere ciò cui il nemico non aveva pensato): perché l’altro goda di questo bene. Per questo si fa la strada che l’altro vuole (e anche di più): perché non resti solo.
Non è ancora la pienezza dell’amore, con i nemici non ci è data, perché non c’è reciprocità, ma è comunque amore e si può misurare sul bene fatto all’altro, sulla vita che ne riceve. Così si consola Dio nei nostri confronti, quando non riesce ad avere il nostro amore e a godersi la nostra amicizia, almeno può farci il bene, far sorgere il sole e far piovere. Può sempre darci vita e continua a farlo, sperando che ci salgano alle labbra le parole del salmista:  Benedici il Signore anima mia, quanto è in me benedica il suo nome santo. Benedici il Signore, anima mia, non dimenticare tanti suoi benefici!
 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani
14 - Feb - 2020

VI Domenica T.O.(A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

VI Domenica T.O. (A)

(Sir 15,16-21   Sal 118   1Cor 2,6-10   Mt 5,17-37)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Scorrendo il brano della prima lettera ai Corinzi, leggiamo che la sapienza di Dio è nascosta. Non si mostra platealmente come la sapienza dei dominatori di questo mondo, ma segretamente viene rivelata a coloro che credono. Lo Spirito, infatti, che conosce le profondità di Dio, viene donato ai credenti, che così conoscono (senza nemmeno sapere come) quelle cose che mai erano entrate nel cuore dell’uomo, quelle che nessuno aveva udito e visto.

Lo Spirito però non solo ci svela ciò che abita il cuore di Dio, ma ci spinge anche ad amarlo, a sceglierlo per avere la vita, riponendo la fiducia in ciò che Dio vuole (così si esprime la prima lettura tratta dal Siracide). Per questo il salmista ci invita a chiedere che Dio ci apra gli occhi per accorgerci della bellezza della legge, che ci dia di comprendere quale sia la sua via e che ci infonda l’intelligenza necessaria a custodirla.
E Gesù, in questo lungo e famoso discorso detto “della montagna” (il primo dei cinque del Vangelo di Matteo), colmato dallo Spirito di Dio, ci mostra proprio ciò che a Dio piace commentando la legge di Israele, e non come qualcosa di passato o di provvisorio, ma come una meraviglia tale da meritare di essere portata alle estreme conseguenze: non basta osservarla – non basta cioè una giustizia o una rettitudine in cui ci si può dire corretti – ma bisogna amarla così tanto, desiderarla così tanto, da spingerla oltre se stessa. Poiché la legge infatti è dominata dalla logica dell’amore (e chi ama sa che non ci si può mai sentire soddisfatti), è la legge stessa a spingere oltre, perché il desiderio e il bene dell’altro ci trovano sempre mancanti.
Così, nell’esporre le esigenze dell’amore, Gesù ci insegna che non solo l’altro non si può uccidere, ma che l’amore non tollera nemmeno di offendere o disprezzare, né sopporta alcuna divisione: se qualcuno che amiamo, infatti, ha qualcosa contro di noi, persino portare doni a Dio dovrebbe apparirci privo di significato (va prima a riconciliarti col tuo fratello).
L’amore può chiederci, inoltre, di perdere qualcosa di noi, persino una parte del corpo (dice paradossalmente Gesù), se questa ci fosse di scandalo, cioè ci bloccasse impedendoci di amare. Tale affermazione è incorniciata dal detto sull’adulterio e da quello sul ripudio, ovvero da due indicazioni riguardanti l’amore dell’uomo verso la donna (ai tempi di Gesù la relazione non era reciproca). E Gesù spiega che è da considerarsi un adulterio anche un desiderio non attuato, perché anche se non si lede il diritto del marito – come accadeva con l’adulterio secondo la mentalità del tempo – si lede comunque la dignità della donna e anch’essa va amata. Sul ripudio invece Gesù sottolinea che non si può ripudiare la moglie perché la si espone ad adulterio, la si getta cioè in una condizione di debolezza, di menzogna e di sofferenza e questo non è tollerato dall’amore. Non si tratta di difendere il valore dell’indissolubilità del matrimonio, ma di custodire l’altra (perché più debole in questa situazione), di fare il suo bene. Rispettare le regole non basta dunque, bisogna desiderare che l’altro viva. Infine l’amore – continua Gesù – chiede di non giurare, di non arrogarsi il possesso della verità, ma di lasciare piuttosto a Dio ogni parola definitiva, per poter in tutta mitezza offrire agli altri la semplicità di ciò che si è e si comprende, senza alcuna pretesa (sia il vostro parlare “sì sì” “no no”).
La sapienza di Dio, forte e potente che scruta ogni cosa, ci è stata dunque rivelata. Il segreto di Dio, cioè la sua passione indomabile per ogni uomo e ogni donna, è stata rivelata ai piccoli. E lo Spirito di lui che ci abita ci spinge come spinge lui stesso ad amare oltre ogni limite, con una giustizia incapace di accontentarsi di ciò che è secondo le regole, perché l’amore non ha altra misura che dare vita a chi si ama.
 …Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani
08 - Feb - 2020

V Domenica del T.O. (A)

Spirito Santo M.I.Rupnik

Spirito Santo M.I.Rupnik

V Domenica T.O. (A)

(Is 58,7-10   Sal 111   1Cor 2,1-5   Mt 5,13-16)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Il Vangelo accolto e creduto opera in noi come una luce che ci permette di illuminare la nostra vita e il mondo intorno a noi. I credenti e la chiesa intera sono, quindi, come una lampada che è posta in alto proprio per illuminare tramite le opere belle (questa la traduzione letterale dell’aggettivo usato da Matteo) davanti alle quali gli uomini e le donne intorno a noi riconoscono che Dio è buono e opera meraviglie. Il Padre che è nei cieli, infatti, si fa improvvisamente vicino nella bellezza delle opere dei credenti, opere sorte da un cuore consegnato all’amore di Dio, e così gli esseri umani in queste opere vedono Dio e ne ammirano la grandezza (rendono gloria), attratti da tanta bellezza.

Similmente dice il profeta Isaia nella prima lettura: davanti a te camminerà la tua giustizia e la gloria del Signore ti seguirà, perché là dove si vive secondo il cuore di Dio (la giustizia), Dio diventa visibile e palpabile. Il profeta fa l’elenco delle opere belle: condividere (e quindi digiunare, privarsi di qualcosa) con chi non ha cibo, luogo per riposare e vestiti; abbandonare l’oppressione e ogni parola che non porti vita; aprire il cuore a chi è privo del necessario per vivere (sia materialmente che spiritualmente). Queste opere belle fanno spuntare l’aurora nel buio della storia e persino le tenebre che ci portiamo dentro (il peccato, l’incredulità, la paura, le ferite) diventeranno luminose come il sole di mezzogiorno. Chi crede, dunque, vive in modo tale da mostrare la potenza vivificante di Dio e allora anche ciò che annunciamo (senza bisogno di strategie comunicative o prodigi) sarà credibile, perché si tratterà soltanto di spiegare chi è che opera la bellezza che chi ci ascolta ha già visto.
Tutto questo accade, però, come ci mostra la seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Corinzi, se non ci affidiamo ad altra logica (sapienza) e ad altra efficacia (potenza) che quella che viene dal Vangelo. Se dovessimo confidare in altre logiche e altri poteri, anche fossero buoni e legittimi, non compiremmo più le opere belle che fanno vedere la presenza di Dio, ma al massimo opere “ammirabili” o “affascinanti” che attirerebbero verso cose buone o verso di noi, senza che si possa cogliere la potenza vivificante del Padre. Succede quando la chiesa (o ciascuno di noi) si affida invece che allo stile di Gesù a quello dei potenti, quando si vuole essere influenti ed efficaci, con spazi di azione, ruoli di potere, oppure quando confida in ciò che si sa o nei valori che si propugnano, dimenticando di presentarsi agli uomini “nella debolezza e con molto timore e trepidazione”. Allora la parola che annunciamo viene contraddetta dalla nostra vita che si fonda non su Dio e sul suo amore, ma sul nostro successo, su ciò che riusciamo a fare per affermarci e ottenere ciò che riteniamo buono, come se Dio non ci fosse. Ed è così che il sale perde il sapore, non dando sapidità al cibo in cui viene disperso, ma al contrario prendendo il gusto del cibo e lasciandolo com’era. In questo caso il sale non servirà più a niente, solo ad essere gettato via e calpestato come qualcosa che non ha alcun valore.
Se invece vivremo per il Signore crocifisso, non confidando in altro che nel suo amore e non volendo scegliere che il suo stile, tutto ciò che toccheremo avrà sapore e, nonostante il dolore e le tenebre che sperimentiamo in noi, vedremo altri illuminati e guariti, perché le opere belle che vengono da Dio portano la luce della vita.
…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani
31 - Gen - 2020

Presentazione del Signore

Presentazione di Gesù al Tempio

Piccolo Eremo delle Querce

Presentazione del Signore

(Ml 3,1-4   Sal 23   Eb 2,14-18   Lc 2,22-40)

Commento di Simona Segoloni Ruta – Teologa

Ogni domenica celebriamo il mistero pasquale di Cristo. Quando capita una festa del Signore, la contemplazione di questo mistero viene illuminata sotto un particolare aspetto e nella festa della Presentazione al tempio, tornando sul racconto dell’infanzia di Gesù fatto da Luca meditato a Natale, possiamo riprendere la contemplazione della venuta del Signore in mezzo a noi.

La prima lettura (tratta dal profeta Malachia) ci parla di un’attesa spasmodica di Dio da parte del popolo: si ricerca e si sospira fino a che non arriva il momento, perché da solo Israele non può nulla contro il male e neppure contro la propria infedeltà, che ha causato conseguenze oramai incontrollabili. Ci accorgiamo spesso di quale catena di errori si sviluppi dal male commesso, fino a che a volte gli eventi diventano ingestibili e superano ogni possibile previsione di danno. Non possiamo recuperare da soli, non possiamo rimediare, non sappiamo neanche cosa scegliere per farlo. Anche il mondo è in queste condizioni: il male inflitto ai popoli si riversa sulla natura e da questa di nuovo sulle persone che si combattono e muoiono, causando nuova distruzione.
Ecco perché non si può che attendere una salvezza che porti vita là dove i processi che abbiamo innescato conducono inesorabilmente alla morte.
La venuta del Signore però non è indolore, è così terribile che non sembra possibile resistere: fuoco che fonde e purifica, sapone efficace strofinato con forza. Pulire le ferite, guarire le piaghe, rimediare i disastri sociale ed ecologici, è sempre difficile e doloroso. Lo stesso, anzi di più, vale per i peccati, che corrompono il cuore, il corpo, le relazioni, la storia e la natura. Occorre lasciar portare allo scoperto le piaghe del cuore e del corpo, perdere ciò che dava sicurezza, scegliere nuovi modi di vivere e lasciarsi rinnovare. Tutto questo riporta il popolo e ciascuno ad essere un’offerta gradita a Dio, ma può fare paura.
Luca, d’altra parte, ci descrive questa visita terribile del Signore in una scena per nulla spaventosa: una coppia di giovani genitori porta il proprio bambino al tempio per adempiere alle prescrizioni della legge. La visita terribile di Dio, capace di salvare dal male e dal peccato, si concretizza in un bambino in braccio a sua madre. Un bambino inerme, immerso nella vita del suo popolo, mescolato a tutti gli altri.
Sono Simeone ed Anna a dire su di lui parole che lo fanno uscire dall’anonimato stupendo persino i suoi genitori, parole che lasciano intravvedere quello che ancora è nascosto. In questo bambino si compiono tutte le promesse che il nostro cuore e il mondo attendono: in lui ogni speranza e salvezza. Camminando con lui, che ha condiviso con noi la carne, il sangue e la morte, noi sappiamo che è possibile superare la prova (così si esprime la lettera agli Ebrei), sappiamo che non siamo più sotto la schiavitù della morte e che i peccati sono stati espiati.
Siamo stati salvati perché lui non solo ci ha ottenuto il perdono, ma ha cancellato le conseguenze del peccato. Se dovessimo investire qualcuno e questo rimanesse paralizzato, una cosa sarebbe essere perdonati da questa persona, un’altra vederlo camminare di nuovo. Solo questo ci liberebbe da tutta la pena e la sofferenza frutto del nostro atto. La salvezza di Gesù, annunciata da Simeone e da Anna, ci si offre così: il male e la morte ci sono, ma non hanno su di noi il potere di tenerci in schiavitù, ne vengono annullati gli effetti sul nostro cuore e sulle nostre scelte, in attesa che vengano annullati su tutto e tutti e la salvezza di Dio costituisca la vita di tutto e di tutti. La speranza che ci viene annunciata è che ogni male verrà spazzato via un giorno e non lascerà più alcuna ferita o conseguenza, perché ogni lacrima sarà asciugata e ogni ingiustizia sanata.

Tutto questo comincia con un bambino, con le piccole cose che nessuno considera, con la quotidiana ricerca di un amore che faccia vivere noi e gli altri. E forse là dove noi nemmeno ci accorgiamo di riuscire a farlo, saranno altri a dirci che in questo poco che portiamo fra le braccia risplende la luce delle genti e la liberazione del mondo. Nelle piccole scelte di ogni giorno che cancellano il male e tutte le tracce che lascia sulla terra.

…Lo Spirito Santo porta l’esperienza delle fede dalla mente al cuoredall’orecchio alle mani